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diretto da Romano Luperini

Perché leggere “Marcovaldo” di Italo Calvino

II vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre terre.

Un giorno, sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore, e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.

Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.

Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla ditta Sbav dov’era uomo di fatica, notò qualcosa d’insolito presso la fermata, nella striscia di terra sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale: in certi punti, al ceppo degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei.

Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi, che stavano spuntando proprio nel cuore della città! A Marcovaldo parve che il mondo grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’a un tratto generoso di ricchezze nascoste, e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria del salario contrattuale, la contingenza, gli assegni familiari e il caropane.

Al lavoro fu distratto più del solito; pensava che mentre lui era lì a scaricare pacchi e casse, nel buio della terra i funghi silenziosi, lenti, conosciuti solo da lui, maturavano la polpa porosa, assimilavano succhi sotterranei, rompevano la crosta delle zolle. «Basterebbe una notte di pioggia, – si disse, – e già sarebbero da cogliere». E non vedeva l’ora di mettere a parte della scoperta sua moglie e i sei figlioli.

“Funghi in città” è il racconto che apre la raccolta di Calvino Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città. Il protagonista appare, fin dall’incipit un antieroe strambo e malinconico con «un occhio poco adatto alla vita di città», una sorta di cavaliere errante destinato a sentire risuonare il vuoto sotto ai suoi piedi, in una società –quella italiana degli anni Cinquanta-Sessanta – tutta protesa verso una mutazione socio-economica nei confronti della quale l’uomo oppone una bonaria resistenza.

Il libro si compone di venti novelle: ognuna di queste è dedicata a una stagione, ragion per cui il ciclo “Autunno_Inverno_Primavera_Estate” si ripete per cinque volte. Le prime dieci novelle sono state scritte negli anni che precedono il “miracolo economico”, tra il 1952 e il 1956, e inizialmente inserite nella sezione Gli idilli difficili dei Racconti. Solo dopo la stesura di altri dieci testi, il cui protagonista è ancora il manovale Marcovaldo, la raccolta assume la struttura definitiva, quella dell’edizione del ‘63. Subito, in quell’opera, la critica ha voluto individuare una forma di contestazione alla società industriale nascente, mettendo in evidenza il conflitto tra natura e civiltà che farebbe di Marcovaldo un individuo intellettualmente indifeso nel contesto sociale del Boom.

Per le costanti formali di matrice fiabesca

A ben guardare questi racconti possono essere letti come un insieme di “fiabe urbane”: lo spunto realistico di partenza, infatti, si sviluppa in forme paradossali, comiche, favolose. Il protagonista è, come un personaggio da fiaba, costretto a confrontarsi con la solitudine, a cimentarsi in prove da superare, a vivere incontri che attingono al mondo magico o a quello degli antichi cavalieri e l’onomastica degli antagonisti di Marcovaldo è lì a dimostrarlo: lo spazzino Amadigi, il vigile notturno Tornaquinci, l’agente della polizia stradale Astolfo «portano nomi altisonanti, medievali, quasi da eroi di poema cavalleresco», come afferma l’autore stesso nell’Introduzione scritta qualche anno dopo la prima edizione dell’opera.

I racconti infatti vennero pubblicati nel 1963 e riediti nel 1966 nella collana “Letture per la scuola media” con le illustrazioni di Sergio Tofano: da allora si sono in qualche modo cristallizzati nell’immaginario dei critici, degli insegnanti e dei lettori come un’opera “per ragazzi” e sono stati pertanto declassati a opera “minore”.

Tuttavia a distanza di sessant’anni e a partire dalle osservazioni dell’Introduzione dello stesso Calvino, si può tornare a rivalutare quest’opera e a metterne in luce anche altri aspetti che guardano a Marcovaldo come a una fucina che contiene in nuce molte di quelle costanti formali e tematiche che ritorneranno non solo nelle opere successive dell’autore ma anche in una linea “laterale” di eredi (si fa riferimento, in particolare a Gianni Celati e a Ermanno Cavazzoni). 

Dal punto di vista formale è nota la propensione di Calvino per la forma breve del narrare, spesso incastonata in un macrotesto che tenga insieme i racconti in una cornice coerente e portante: è lui stesso a parlare di questi racconti come «d’una serie di favole moderne». In effetti la familiarità che Calvino acquisisce in questi stessi anni con la forma della fiaba, a cui si dedica tra il 1954 e il ’56 per conto della casa editrice Einaudi che gli ha commissionato la scrittura delle Fiabe italiane, gli permette di sussumere e fare suoi alcuni meccanismi narrativi, tra cui quella che chiama la loro «infinità varietà ed infinita ripetizione», ossia quel gusto combinatorio che percorre buona parte della sua produzione:

Ero stato, in maniera imprevista, catturato dalla natura tentacolare, aracnoidea dell’oggetto del mio studio; e non era questo un modo formale ed esterno di possesso: anzi, mi poneva di fronte alla sua proprietà più segreta: la sua infinita varietà ed infinita ripetizione. E nello stesso tempo, la parte lucida di me, non corrosa ma soltanto eccitata dal progredire della mania, andava scoprendo che questo fondo fiabistico popolare italiano è d’una ricchezza e limpidezza e variegatezza e ammicco tra reale e irreale da non fargli invidiar nulla alle fiabistiche più celebrate dei paesi germanici e nordici e slavi, e non solo nei casi in cui ci s’imbatte in uno straordinario novellatore orale – più spesso una novellatrice – o in una località di sapiente tecnica narrativa, ma anche proprio come generali qualità di grazia, spirito, sinteticità di disegno, modo di comporre o fissare nella tradizione collettiva un dato tipo di racconto.

Da questo momento in poi, come ha sottolineato Cardona, scoperti come per intuito, alcuni degli procedimenti semiotici tipicamente fiabeschi diventeranno delle costanti formali nella costruzione narrativa calviniana.

Esemplare è la seconda novella, “La villeggiatura in panchina” (1955) nella quale Marcovaldo, desideroso di trascorrere una notte all’aperto per sfuggire alla calura del piccolo appartamento in cui vive con la famiglia e di assaporare il contatto con la natura, adocchia fin dal mattino una panchina che sembra fare al caso suo:

Là era il fresco e la pace. Già pregustava il contatto con quegli assi d’un legno- ne era certo – morbido e accogliente, in tutto preferibile al pesto materasso del suo letto; avrebbe guardato per un minuto le stelle e avrebbe chiuso gli occhi in un sonno riparatore d’ogni offesa della giornata.

Ma il protagonista trascorrerà la notte da solo nel tentativo di liberarsi di tutti gli elementi di disturbo che gli impediscono il sonno: dapprima una coppia di innamorati litigiosi che si sono appropriati della panchina, poi il lampeggiare di un semaforo giallo, in seguito il rumore di una squadra di operai saldatori che stanno lavorando alla riparazione delle rotaie del tram, infine la puzza emanata dal camion della nettezza urbana. Tutti i tentativi, ossia “le prove”, del malcapitato per mettere fine ai fastidi circostanti ne fanno un personaggio strambo e malinconico che Calvino stesso definisce «l’ultima incarnazione di una serie di candidi eroi poveri-diavoli alla Charlie Chaplin»: l’altra ragione che, a nostro avviso, può essere impugnata per leggere Marcovaldo

Per la creazione del personaggio strambo

In effetti una situazione altrettanto fiabesca, per quanto rivisitata in chiave contemporanea e alquanto surreale, è quella che caratterizza “Il bosco sull’autostrada”: il protagonista ancora una volta si troverà a affrontare la sua quête in solitudine e attraverso una serie di prove e l’epilogo della vicenda ne metterà in evidenza il carattere di sradicato, di “stonato”.

In una notte d’inverno, padre e figli si avventureranno, separatamente, in cerca di legna da far ardere nella stufa per vincere il freddo. Mentre Marcovaldo, contadino inurbato armato di sega, cerca istintivamente un bosco («Andare per legna in città: una parola!», pensa il malcapitato) ed è destinato a una inchiesta fallimentare, i figli, che un bosco vero non l’hanno mai visto e la cui fantasia è nutrita grazie alle storie del figlio di un taglialegna lette in «un libro di fiabe, preso in prestito alla bibliotechina della scuola», faranno incetta di cartelloni pubblicitari che ai loro occhi sembrano alberi dai «tronchi fini fini, diritti o obliqui; e chiome piatte e estese, dalle più strane forme e dai più strani colori».

Nella conclusione di questa storia, tornato nei pressi del “bosco sull’autostrada” con l’intenzione di proseguire il rifornimento, Marcovaldo, alle prese con l’agente stradale Astolfo, chiamato sul luogo per una segnalazione di atti vandalici, verrà scambiato a sua volta per l’immagine pubblicitaria di un analgesico per l’emicrania:

Astolfo passa, e il fanale illumina Marcovaldo arrampicato in cima, che con la sua sega cerca di tagliarsene una fetta. Abbagliato dalla luce, Marcovaldo resta lì immobile, aggrappato a un orecchio del testone, con la sega che è già arrivata a mezza fronte. Astolfo studia bene, dice: Quell’omino lassù con quella sega significa l’emicrania che taglia in due la testa! L’ho subito capito! – E se ne riparte soddisfatto. 

Tutto è silenzio e gelo. Marcovaldo dà un sospiro di sollievo.

In questa come in altre novelle della raccolta, lo spaesamento di Marcovaldo rispetto all’habitat urbano ne fa un personaggio strambo e malinconico: il suo modo di reagire risulta spesso goffo e comicamente inadatto alla modernità.

Per la risorsa didattica della forma breve del narrare

L’incontro con Marcovaldo costituisce per il docente una risorsa anche per il genere testuale, il racconto.

Nei tempi sempre più costipati e frammentati in cui ci si trova a operare, poter ricorrere a un testo breve, in sé conchiuso e al contempo esemplare che permetta di mettere a fuoco una serie di costanti autoriali è quanto di più prezioso si possa trovare. Peraltro la lettura di Marcovaldo può essere affrontata sia con alcuni affondi letti in classe, a inizio lezione, per coadiuvare la realizzazione di quel clima che la lettura a voce alta è ancora in grado di creare in classe.

Inoltre questo testo di Calvino permette di ripensare a questo autore come a un modello che consegna al nuovo secolo non solo lo sguardo raziocinante e lucido, ma anche la fantasia fantasticante e un narrare che fa leva sul comico, un comico mai sguaiato e ben lontano “dai meme” e dai video di alcuni youtuber cui i nostri studenti sembrano assuefatti: le fiabe urbane di Marcovaldo  rimandano infatti alla leggerezza nutrita di malinconia che ha in mente Calvino nelle Lezioni americane quando scrive: “Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, coì lo humor è il comico che ha perso la pesantezza corporea.”

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