Perché leggere “Tomás Nevinson” di Javier Marías
Ho avuto un’educazione all’antica, e non avrei mai creduto che un giorno mi si potesse ordinare di uccidere una donna. Le donne non si toccano nemmeno con un fiore, non si arreca loro danno fisico e quello verbale va evitato il più possibile, sebbene loro non ricambino quest’ultima attenzione. Ma non basta, bisogna proteggerle e rispettarle e cedere loro il passo, fare loro scudo e aiutarle se portano un bambino nel ventre o in braccio o in carrozzina, occorre farle sedere sull’autobus e in metropolitana, e perfino, camminando per strada, ripararle dal traffico e da ciò che in altri tempi si gettava dai balconi, e se una nave minaccia di colare a picco, le scialuppe sono per le donne e per i loro pargoli (che appartengono a loro più che agli uomini), i primi posti, almeno. In una fucilazione di massa, sono talvolta risparmiate; vengono lasciate senza marito, senza padre, senza fratelli e addirittura senza figli adolescenti né, naturalmente, adulti, ma viene concesso loro di continuare a vivere, folli di dolore come spettri dolenti, che tuttavia continuano a compiere gli anni e invecchiano, incatenati al ricordo della perdita del loro mondo. Costrette con la forza al ruolo di depositarie della memoria, sono le uniche a restare quando sembra che non resti più nessuno, e le uniche a poter raccontare ciò che è accaduto. (J. Marías, Tomás Nevinson, Traduzione Maria Nicola, Einaudi, 2022, pag. 5)
L’incipit rende evidente che chi prova a citare brevemente qualche pagina, come io ho fatto, fa violenza al testo che non tollera di essere dilaniato a brani. Infatti – già in principio – il discorso, che sembra arrivato ad un punto morto, seguendo una sua traiettoria logica, prosegue ri-cominciando.
Ecco, tutto questo mi è stato insegnato quando ero bambino e tutto questo valeva prima, e non sempre veniva rispettato alla lettera. Valeva prima e solo in teoria, non nella pratica. In fin dei conti, nel 1793 fu ghigliottinata una regina di Francia, e in precedenza erano state senza numero le donne bruciate per eresia o sospetta stregoneria, non ultima la soldatessa Giovanna d’Arco, solo per fare un paio di esempi noti a tutti. (pag. 5)
La compattezza del tessuto è fatta di lentezza e di sovrapposizioni, di dilazioni e di pentimenti, di avanzamenti e di ritorni indietro, di esibite contraddizioni interne. Dalla pagina si alzano volute di luoghi comuni, di ironici ammiccamenti al buon senso, alla storia, e all’inverosimile del se e del ma, di cui la storia del romanzo e questa storia di questo romanzo è fatta. Per raccontare Tomás Nevinson di Javier Marías la tentazione sarebbe, perciò, seguire i passi di Pierre Menard, autore del Don Quijote de la Mancha: ma quella è una strada che solo Borges ha saputo percorrere.
Perché l’ultimo romanzo è… last but not least
L’ultimo romanzo di un grande autore viene solitamente presentato come una sorta di suo lascito testamentario. Come se agli scrittori venisse concesso di conoscere il momento della loro dipartita. Io credo che sia concesso ai mortali di continuare a scrivere finché continuano a vivere; ai grandi scrittori, invece, è concesso di essere presenti anche dopo la loro morte. Tomás Nevinson è solo per caso l’ultimo romanzo di Javier Marías e non certo per sua (ultima) volontà. Per lui sarebbe stato il precedente a quello che stava scrivendo o a quello a cui stava pensando, o semplicemente, a quello che avrebbe voluto scrivere. Uno tra i tanti e non necessariamente il migliore. Per il lettore potrebbe essere il primo incontro con Javier Marías, e potrebbe a ritroso indurre alla lettura di Berta Isla e di Gli innamoramenti e di Domani nella battaglia pensa a me. Penso, anzi, che chi non ha seguito questo grande scrittore negli anni, abbia la fortuna di scoprirne la cifra e il talento proprio cominciando dalla fine, che diventerebbe un buon inizio. Il paradosso, solo apparente, sarebbe piaciuto a Marías. Questo, del resto, è il prodigio della letteratura, che scardina la successione temporale dentro di sé e fuori del libro, nel tempo del lettore: è l’unica formula che possa aprire mondi.
Perché la vita è un libro
Il racconto procede tirandosi dietro tutto quello che è già accaduto mentre congettura tutto quello che potrebbe accadere, e nel frattempo il protagonista riflette la nostra condizione di esseri umani invecchiati in un presente fatto di ricordi e di esaurimento delle attese,
ci si accontenta di quello che si ha a portata di mano e di quello che sopravvive – sì di quel che resta –, via via che svaniscono le infinite possibilità, e che il futuro cessa di essere vasto e astratto, un mucchio di pagine bianche, per farsi sempre più concreto e limitato, o più delineato, o più scritto, trasformandosi in passato e in presente, un po’ di più ogni giorno che passa.
Era stato questo a spingermi ad accettare, in parte: la tentazione di scrivere un altro capitolo, l’idea di non avere finito il mio piccolo libro, quando ormai lo avevo dato per concluso. (pagg. 119-120)
La vita di un personaggio non può che essere un «piccolo libro», per uno scrittore vivere è certamente «scrivere un altro capitolo» della propria opera, ma noi che teniamo in mano Tomás Nevinson siamo i protagonisti della nostra piccola vita: personaggio, scrittore, lettore si incontrano e si sovrappongono nella pagina. Il personaggio tormenta lo scrittore con i suoi dubbi e le sue certezze, e lo scrittore provoca il lettore, che pretende la soluzione ai problemi sollevati da quello che fa o non fa il personaggio. L’incantamento di questo scrittore è proprio l’essere scopertamente scrittore, costruttore di storie che incuriosiscono lui per primo e che nella loro realtà e inverosimiglianza sono intrise di esibite citazioni letterarie.
Perché la letteratura è una soluzione in cui è sciolta la vita
La vicenda propone, nel dilemma principale, una serie di dilemmi secondari, che il lettore può decidere se lo riguardino oppure no. O meglio, chi legge non può fare a meno di riconoscere che i dilemmi lo riguardino, e non può fare a meno di intendere che Marías sta parlando proprio a lui, ma è libero di fingere che non sia così. Tuttavia, per non perdersi nelle derivazioni, che sono la sostanza del discorso, vediamo di seguire la trama, con l’avvertenza, però, che questo romanzo è complementare al precedente, essendo Berta Isla la moglie di Tomás Nevinson. I due libri sono dunque in evidente dialogo, essendo incatenati dalla relazione tra i due personaggi eponimi.
Dopo essere uscito dal servizio segreto inglese, il protagonista è contattato da Tupra, suo precedente superiore, per svolgere una missione: identificare tra tre donne la terrorista responsabile di due feroci attentati dell’Eta. Il primo a Barcellona: «venerdì» 19 giugno 1987, alle «quattro e dieci», nel parcheggio del supermercato l’Hipercor, esplode un’autobomba. «Ventuno morti e quarantacinque feriti. Cinque erano bambini. Il più piccolo di nove anni […].» (pag. 98). Il secondo a Saragozza: l’11 dicembre del medesimo anno il bersaglio è una caserma della Guardia Civil e anche lì tra le vittime ci sono bambini. L’intera pagina 84, una sorta marbled page di sterniana memoria, riproduce una foto dei momenti successivi all’esplosione, «una di quelle foto che inevitabilmente si è portati a guardare a lungo». Tomás Nevinson, infatti, riflette a lungo non solo sull’opportunità di accettare l’incarico, cosa che fa, ma anche sul senso di trovare la colpevole di un crimine infame, che però nel frattempo potrebbe essere diventata diversa da quella che era stata, ed infine sul suo duplice ruolo, di esecutore della condanna a morte, secondo i precetti della giustizia spiccia da servizi segreti, e di vittima di un ricatto: se non avesse identificato e poi ucciso la donna responsabile degli attentati, Tupra avrebbe provveduto a far eliminare tutte e tre le donne sospettate. La missione di morte è perciò, contemporaneamente, la spedizione per salvare la vita a due donne. Assunta la nuova identità di Miguel Centurión, si trasferisce nella «città del nord-ovest, quella che ho finito per chiamare Ruán» (pag. 581) per entrare in contatto con le sospettate, e scovare le prove dell’identità fittizia di una delle tre. Stretto tra dubbi e sotterranee certezze, pressato, rimproverato e minacciato da Tupra, Tomás-Miguel identifica la probabile terrorista, che svolge una vita squallidamente anonima di provincia, e che ha nel suo corpo una qualche deformità che sembra il marchio di una condanna. L’uomo elabora il piano per realizzare l’omicidio, di cui qui non si vuole rivelare l’esito, in un miscuglio di cinismo e di pietà. Le ultime pagine del romanzo sono dedicate al rapporto che pare ristabilirsi su antiche parole d’amore tra Tomás Nevinson e Berta Isla. Tra due personaggi e tra due romanzi che potrebbero dare luogo ad un’altra storia e ad un altro libro, in cui finalmente essere insieme.
Può essere. Potrebbe essere. (pag. 590)
Sono le parole con cui si chiude questo romanzo. E non è un caso.
Perché Non uccidere non è semplicemente un comandamento
Che avrebbe fatto il lettore se si fosse trovato nella condizione di un personaggio, l’abile cacciatore Thorndike, che in «un vecchio film di Fritz Lang, girato in piena Seconda guerra mondiale, nel 1941», ha la possibilità di uccidere Hitler con il suo fucile di precisione «il 29 luglio del 1939, appena trentasei giorni prima dell’inizio della guerra» (pag.12)? E come potrebbe il lettore non condividere quanto scrive nel suo diario (pubblicato postumo come Diario di un disperato) Friedrich Reck-Malleczewen, ricordando, nel 1936, «una giornata imprecisata del 1932, in cui gli era capitato» di incontrare Hitler «in un ristorante di Monaco»?
«In quella sala semideserta avrei potuto ucciderlo senza alcuna difficoltà. Se all’epoca avessi avuto un minimo sospetto del ruolo che avrebbe assunto quell’infame, e degli anni di sofferenza che ci avrebbe inflitto, lo avrei fatto senza pensarci due volte. Ma allora mi sembrò un personaggio da vignetta comica, e non sparai» (pag.18)
Reck-Malleczewen «non era affatto un uomo di sinistra e non era nemmeno ebreo né zingaro né omosessuale», era un borghese prussiano che provava orrore per l’ottusa crudeltà del nazismo e del suo capo. Tomás Nevinson racconta e propone al lettore il dilemma tra coscienza e giustizia, ricordando la morte a Dachau di Reck il 16 febbraio 1945. Javier Marías lascia che a porre il quesito sia un uomo inventato, con licenza di uccidere. Il tempo della lettura si dilata nel tempo del lettore, che alza gli occhi dalla pagina o fissa parole senza vederle. È la lentezza della riflessione, di una lettura che non vuole arrivare alla fine, che ri-comincia e che così sconfigge la morte. È il contrario del consumo, della velocità, del citazionismo da internet che simula la cultura, del fast food letterario che imperversa anche sui blog.
Per questo, forse, può spiegare bene questo libro, e il senso della letteratura, che ostinatamente non è lettera morta, l’ultima pagina, quella di Riconoscimenti e ringraziamenti
Dal momento che il mondo si è riempito di detective pignolissimi e incolti – con Internet non c’è bisogno di aver letto per scovare citazioni e «appropriazioni» –, mi conviene dare contezza di quelle che compaiono in questo libro, secondo il mio modesto sapere.
Vi si trovano citazioni esplicitamente attribuite (sebbene a volte deliberatamente alterate, o parafrasate) a William Shakespeare, Friedrich Reck-Malleczewen, Thomas Stearns Eliot, John Milton, Fernán Pérez de Guzmán, Charles Baudelaire, William Butler Yeats, Alexandre Dumas, il Libro dei Salmi, Rebecca West e John Donne.
E poi ancora sono variamente citati: Owen, Hölderlin, Flaubert, Dante, Powell, Heine, Blake, Russel Lewis, Weisberg, Louise de Vilmorin e Max Ophuls, John le Carré e Tomasi di Lampedusa.
Sterne, nume tutelare della divagazione, non è citato, ma è ovvio. Borges aleggia in questa pagina (e non solo).
Un libro nuovo fatto di vecchie parole: la letteratura è ri-scrivere per ri-leggere.
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