Sul caso Cospito: alcune riflessioni sciasciane
1. Genesi del carcere duro in Italia
Riflettere criticamente sul caso Cospito comporta la dolorosa e scomoda ricostruzione della genesi dell’istituzione del carcere duro in Italia e una riflessione sulla sua legittimità in un ordinamento democratico. L’antesignano del 41 bis è infatti l’articolo 90 istituito negli anni Settanta. Il carcere duro fece il suo esordio in regime d’eccezione a partire dal rapimento Moro: in quell’epoca vennero legittimate condizioni di detenzione che privano i reclusi per terrorismo di diritti, di socialità, di visite dei familiari, come nel tristemente famoso carcere dell’Asinara o neicosiddetti “braccetti” in funzione nei primi anni Ottanta alle Nuove di Torino, a Foggia, Ariano Irpino, Ascoli Piceno. Di quello stesso periodo vengono documentati numerosi episodi di tortura in carcere, come a esempio quelli ai danni di Enrico Triaca, formalmente riconosciuti in un processo a Perugia. L’articolo 90 del regolamento penitenziario, insieme alle leggi che prevedono i premi e gli sconti di pena per i pentiti e i dissociati, fanno dunque parte del processo tragico con il quale la cultura giuridica e le istituzioni politiche hanno alterato i diritti costituzionali e interamente delegato alla magistratura e alle forze dell’ordine la risoluzione della questione relativa alla presenza di una sovversione politica interna. Negli anni Novanta le stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio hanno poi portato al varo del 41bis nato per impedire che il detenuto per reati di mafia e terrorismo mantenga dalla cella rapporti con le organizzazioni criminali all’esterno. Ne conseguono l’isolamento, un colloquio al mese con il vetro, due ore d’aria al giorno, l’assenza forzata di socialità, che producono al recluso sofferenza e malattica sia fisica che psichica. L’articolo 41-bis, è dunque figlio della repressione e del terrorismo, è stato introdotto nel clima emergenziale mafioso del 1992, in via transitoria, ed è diventato organico all’ordinamento nel 2002.
2. Riflettere criticamente su diritto e ragion di Stato: con Manzoni e con Sciascia
La sospensione dei diritti per il detenuto e la produzione pianificata della sua sofferenza rientrano nella stessa logica vendicativa della tortura e della pena di morte, propria di una Ragion di Stato non garantista ma spietata, che il diritto costituzionale e democratico dovrebbe bandire. Questa torsione del diritto è iniziata in Italia con la tragedia della morte di Moro, voluta non solo dalle BR ma anche da una parte imponente degli apparati più o meno “occulti” dello Stato e dall’incrocio d’interessi delle intelligence internazionali (cfr. F. Imposimato, Doveva morire, Chiarelettere, 2010). In una lettera al segretario della DC Benigno Zaccagnini del 24 Aprile 1978 Moro stesso del resto scriveva:
Con quale senso della giustizia, con quale pauroso arretramento sulla stessa legge del taglione, lo Stato, con la sua inerzia, con il suo cinismo, con la sua mancanza di senso storico consente che per una libertà che s’intenda negare si accetti e si dia come scontata la più grave ed irreparabile pena di morte? […] In questo modo si reintroduce la pena di morte che un Paese civile come il nostro ha escluso sin dal Beccaria ed espunto nel dopoguerra dal codice come primo segno di autentica democratizzazione.
Per chi voglia discutere questo problema (anche a scuola, nonostante le isteriche e minacciose ingiunzioni a “non fare politica” rivolte ai docenti) oltrepassando le strettoie ideologiche dell’attuale senso comune dominante, può risultare di grande utilità l’incrocio fra due modelli letterari: Manzoni e Sciascia. Sciascia ha rivendicato l’attualità di Manzoni a partire dalla Storia della colonna infame – la vicenda seicentesca dei processi agli untori:
Mi avviene persino di credere di aver inventato un genere letterario: illusione che accresce il piacere di praticarlo. Ma so anche che non è vero. Il prototipo, altissimo, resta La storia della colonna infame. (Cruciverba,1983)
I libri di Sciascia dedicati alla messa in forma letteraria di questioni giuridiche, consistono infatti di una materia saggistica che può assumere i modi del racconto, dell’apologo, della cronaca, del documento, senza che venga mai meno la volontà di argomentare, anche attraverso la rappresentazione di fatti in parte “inventati”. La “materia del contenuto” di questi libri riguarda la strenua difesa di ciò che, talvolta con disprezzo, viene chiamato “garantismo”, ossia il richiamo al diritto, contro ogni “legge speciale”. In un intervento parlamentare del 17 dicembre 1979, del resto, lo scrittore lo aveva sostenuto con chiarezza:
Leggi speciali e poteri più forti fanno demagogia e sono, oltre che inutili, ovviamente pericolosi per noi cittadini e per la polizia. Sono soltanto degli sfoghi che i cattivi governi offrono alle polizie incapaci e che finiscono con l’essere esercitati più sui cittadini incolpevoli che sui colpevoli.
La “forma del contenuto” tuttavia, a partire dalla costruzione dei personaggi e dalla loro voci, problematizza quell’argomentazione con la forza morale del dubbio. E, per questo, credo sia nell’intreccio dei punti di vista sciasciani che i lettori, gli insegnanti e gli studenti, possano oggi riconoscere il valore più attuale della sua opera letteraria. La sua esplorazione della terribilità delle risposte della Ragion di Stato alla questione dei delitti e delle pene è dialogica e letteraria: e per Sciascia la letteratura è “la più assoluta forma che la verità possa assumere”.
3. La lezione de Contesto e di Porte aperte
Fra i romanzi di Sciascia è Il contesto (1971) quello maggiormente legato alla Storia della colonna infame manzoniana: un romanzo d’inchiesta, allegoricamente collocato in un paese immaginario, che affronta la situazione politica venutasi a creare in Italia dopo la strage di Piazza Fontana; un testo per molti versi profetico rispetto alla storia italiana dei cinque anni successivi alla pubblicazione, dalle vicende legate all’omicidio Calabresi al compromesso storico. L’ispettore Rogas è un eroe dello Stato di diritto, che non cede alle pressioni dall’alto che cercano di farlo desistere, per obbligarlo a battere una falsa pista politica e a criminalizzare presso l’opinione pubblica i “gruppuscoli” estremisti. Ricostruendo, attraverso il dialogo e il ragionamento, l’intrigo politico in atto, Rogas giunge a un incontro con il presidente della Corte suprema; nel dialogo con il presidente della Corte, l’illuminista manzoniano Rogas si trova davanti alla teorizzazione estrema dell’ingiustizia e della violenza come necessità stesse dello ‘stato d’eccezione’.
Si ricordi di quel libello sul processo del 1630, a Milano, contro delle persone accusate di diffondere la peste con unzioni. L’autore, un cattolico italiano, dice che in quel processo si scopre un’ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano, cioè dai giudici. E si capisce che la vedevano! […] A carico di coloro che ne erano accusati mancava il movente […] Ma la peste c’era: questo è il punto!
Dalla parte di Manzoni, invece si schiera Rogas. Per fedeltà morale a un’ideale di verità e di giustizia, arriverà a contrapporsi alle istituzioni e a pagare con la vita il rigore delle proprie scelte.
In Porte aperte (1987) a far capolino sono i Promessi sposi. Il protagoinista, il “piccolo giudice”, durante il regime fascista si batte con paziente fermezza contro la pena di morte e nella sua mente si affaccia uno dei più celebri dialoghi manzoniani “tra due potestà, due canizie, due esperienze consumate”: quello nel cap. XIX dei Promessi sposi in cui il conte zio persuade il padre provinciale dei cappuccini a trasferire padre Cristoforo da Pescarenico. Porte aperte si apre su un analogo colloquio opportunista: il procuratore generale vuole persuadere per opportunità politica il “piccolo giudice” a cedere alla ragion di Stato, ma questi rivela la sua schietta e preziosa intransigenza morale e la sua fede nello Stato di diritto, rispondendo con fermezza al suo superiore:
una sentenza di morte (è) una vocazione all’assassinio che si realizza con gratitudine e gratificazione da parte dello Stato.
4. E oggi?
Oggi la cultura, anziché tacere, dovrebbe produrre un pensiero critico indipendente sulla protesta del detenuto politico e sulle risposte delle istituzioni. Per farlo, nelle difficili condizioni odierne e nel deficit di pubblica discussione degenerata da tempo in rissa o in intrattenimento da stadio, si potrebbe fare buon uso della letteratura come strumento di verifica e di verità morale.
Ci si dovrebbe insomma legittimamente chiedere quale logica, o quale coazione, facciano sì che il guardasigilli e i giudici di Cassazione si accaniscano così tanto ciecamente a confermare il 41 bis per Alfredo Cospito. La prima ragione, impiegando il punto di vista dei personaggi di Sciascia, potrebbe riguardare la paura dello svelamento. Il caso Cospito potrebbe svelare l’essenza “sacrale” della superiore facoltà emergenziale di sorvegliare e punire, che intende tacitamente e ab eterno restare operativa, come fosse emanazione del principio stesso di Autorità: questo sciopero della fame infatti potrebbe incrinare la legittimità di questo regime carcerario, perché finisce per rivelarlo come uno strumento di punizione ideologica (una crepa aperta nel senso comune diffuso, sempre più incline a giustificare torture e pena di morte). Le figure manzoniane che circolano nei libri di Sciascia, ci portano a congetturare che l’accanimento contro Cospito sia insomma indotto dal timore che l’accoglimento del ricorso finisca col centuplicare casi analoghi e sgretolare il regime d’eccezione.
Sempre applicando le congetture sciasciane, da Il contesto a L’affaire Moro, tuttavia, potrebbe balenare al lettore incline ai cortocircuiti un’altra ipotesi, più sinistra. il Presidente della Corte Suprema nel Contesto risponde infatti seccamente a Rogas:
la sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità.
Si potrebbe immaginare sciascianamente che, come negli anni settanta anche oggi esistano interessi trasversali speranzosi che la morte per fame di Cospito possa innescare non solo indignazione diffusa ma le azioni di “gruppuscoli” non legali o disordini tali da giustificare un’azione repressiva, secondo la logica perversa della Ragion di Stato che si autoalimenta e che riproduce se stessa, tanto più automaticamente quanto più la coscienza e la memoria democratica si affievoliscono. Insomma: per verificare criticamente e vigilare democraticamente, la letteratura e l’immaginazione ci servono. E, del resto, come si è detto, per lo scrittore siciliano la letteratura è “la più assoluta forma che la verità possa assumere”.
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Non esiste vera giustizia se non in una società giusta. Ma se la società lo è che bisogno vi è della giustizia? E se invece non lo è, come potrebbe essere tale la giustizia che ne è l’espressione? Questo è il paradosso che sta alla base dell’ambiguità della giustizia (intesa quale istituzione) e che rende oggi ancora più acuta l’esigenza di giustizia (intesa quale idea). Le note dell’idea di giustizia (dianemetica, diorthotica e sinallagmatica) definite da Aristotele informano di sé, in realtà, il diritto, che è un concetto subordinato all’idea della giustizia e più ristretto di essa. E che di tutt’altra natura sia il criterio della giustizia da quello del diritto è comprovato dal fatto che, mentre da tutti è sempre bollato come delinquente chi vìoli le norme giuridiche per appagare un suo interesse egoistico, è invece, prima o poi, considerato come un martire (testimone, secondo l’etimo, della propria fede morale) chi abbia, sì, trasgredito il diritto vigente, ma per affermare, sfidando le sanzioni di questo, quella che la sua coscienza gli addita come una superiore idealità di giustizia.
Socrate, condannato ingiustamente, rifiuta la salvezza della fuga che gli è stata proposta, preferendo morire nel rispetto delle leggi – così diceva – anziché vivere trasgredendole. È il contrario – ma anche, in un certo senso, l’analogo – del comportamento di Alfredo Cospito, che preferisce rischiare di morire protraendo lo sciopero della fame, piuttosto che accettare la segregazione carceraria disposta dall’articolo 41 bis, e chiama a mobilitarsi contro questo istituto duramente afflittivo tutti coloro che non riducono, ‘sic et simpliciter’, la giustizia al diritto. E allora il “caso Cospito” ha il merito, pagato con il rischio della vita stessa, di squadernare davanti a noi i paradossi che nascono dal nodo aggrovigliato, e dal conflitto potenzialmente tragico, fra un giustizialismo iniquo (quello rappresentato dal governo e dal pronunciamento della Corte di Cassazione, che hanno rigettato il ricorso di Cospito), un legalismo eroico (quello rappresentato da Socrate) e una opposizione libertaria (quella incarnata dallo stesso Cospito). Sennonché il significato sostanziale del provvedimento applicato a Cospito, di là dagli aspetti formali che comunque non lo giustificano, è stato perfettamente riassunto in una incisiva dichiarazione dell’avvocato Francesco Rossi Albertini: “Neanche la strage di piazza Fontana è stata considerata come un’azione che mette in pericolo la sicurezza dello Stato. Nella vicenda Cospito, più che la pericolosità dell’azione, è sotto accusa la soggettività dell’imputato e la matrice ideologica”. Ecco perché il “caso Cospito” costituisce la cartina di tornasole della miseria politica, ideologica e culturale di questo paese.