Psicoanalisi, psicologismo e scuola
La diffidenza nei confronti della psicoanalisi
Il libro di Michel David, La psicoanalisi nella cultura italianai più di cinquant’anni fa tentava di spiegare i motivi della scarsa penetrazione della cultura psicoanalitica nel nostro Paese. Secondo David, la conoscenza limitatissima o distorta dei fondamenti e degli sviluppi della teoria freudiana nell’Italia della prima metà del Novecento era da attribuire all’autorevolezza di tradizioni culturali — l’idealismo filosofico, il cattolicesimo e il positivismo — che, pur diversissime tra loro e per molti aspetti opposte, erano però concordi nel rifiuto della psicoanalisi, soprattutto dell’idea che nell’uomo ci sia una componente non cosciente, capace di influenzare e guidare occultamente la coscienza stessa. Questi “pensieri del cosciente”, insomma, si basavano su una rimozione di ciò che è inconscio e sulla paura di un disvelamento che avrebbe messo in crisi delle certezze assodate; di qui, secondo David, la censura nei confronti della cultura psicoanalitica, travestita da argomenti razionali e inconsapevole delle proprie reali motivazioni. Il che confermerebbe l’assioma per cui chi nega la dimensione inconscia è destinato paradossalmente a esserne dominato.
David faceva poi notare come, a differenza di quanto accaduto in Francia e in altre realtà culturali, proprio a causa del prolungamento delle eredità positivistica e idealistica avesse tardato molto in Italia l’incontro tra psicoanalisi e marxismo — incontro di cui, in forme molto diverse, troviamo testimonianza ad esempio in Jean Paul Sartre o in Erich Frommii — e quando la psicoanalisi si era infine affermata come senso comune, a partire dagli anni Sessanta, lo aveva fatto attraverso una certa banalizzazione della complessità e della portata rivoluzionaria del pensiero psicoanalitico, anche in scrittori come Moravia che pure vi fanno abbondantemente ricorso (altro discorso occorre fare per chi, come Saba o Berto, ne avesse una conoscenza approfondita e di prima mano).
Senza inconscio
E oggi? Non sappiamo cosa ne avrebbe pensato David, ma è difficile negare che, per quanto riguarda la capacità della cultura di interpretare la realtà anche utilizzando gli strumenti della psicologia del profondo, la situazione sia in rapido peggioramento. Affievolitesi fin quasi a scomparire le grandi correnti del pensiero (sia pure del cosciente) e della religiosità (o forse si dovrebbe dire della sublimazione), rimane di fronte a noi, in molti campi della cultura, inclusi quelli che più dovrebbero tenere conto della complessità dell’essere umano — una psicologia segnata da terapie sempre più brevi e una pedagogia divenuta frettolosamente “sperimentale” e poco riflessiva — una versione degradata di positivismo, che non conosce più interpretazioni ma solo fatti, che chiude la porta all’elaborazione del pensiero e degli affetti, al contatto con sé stessi, e si muove non tra idee ma tra cose per cui, ad esempio, al disagio psichico non vengono riconosciuti dei significati, delle motivazioni e delle cause, radicati nella storia personale di ciascuno, da interpretare attraverso la parola. Esso viene invece ridotto a caratteristica inseribile in schematizzazioni standardizzate e astratte, di stampo cognitivo-comportamentale, o a disturbo organico, da curare con psicofarmaci o peggio. Questa amputazione e impoverimento dell’umano, dell’interiorità e del linguaggio, d’altra parte, si sposa benissimo con un sistema economico che ha bisogno di ridurre l’uomo a merce, a consumatore, a capitale umano dequalificato, anonimo e spersonalizzato a disposizione del “mercato del lavoro”, magari in versione 4.0. Va inoltre segnalato come la sostanziale assenza di proposte psicoterapeutiche — che richiedono percorsi lunghi — da parte del Servizio sanitario nazionale, a fronte di un disagio psichico di cui si propone tendenzialmente l’immediata medicalizzazione, risponda perfettamente all’esigenza del risparmio e di taglio di servizi e risorse, nel contesto di un progressivo disinvestimento nel settore pubblico. Tuttavia, nonostante l’assenza dello Stato, si registra un crescente ricorso a percorsi di psicoterapia o di psicoanalisi anche da parte degli adolescenti e dei preadolescenti, ancor di più dopo il periodo della pandemia e a seguito dei fenomeni di ritiro sociale che essa ha favorito, segno evidente dell’esistenza di bisogni di cui il servizio pubblico non si fa carico, lasciando al singolo o alle famiglie il peso di cercare soluzioni, spesso difficili oltre che estremamente costose.
Formazione, counseling, empatia
E a scuola? Fioriscono in questi tempi di PNRR corsi per gli insegnanti sull’empatia, l’“intelligenza emotiva”, la “mindfulness”, la “gestione dei conflitti”, la “leadership educativa”, il “counselling”.
Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che l’empatia e le capacità relazionali si sviluppano — ammesso che non le si possieda — con anni di lavoro su di sé, attraverso un vero percorso psicoterapeutico/ psicoanalitico, non con un corso di qualche ora promosso da riviste online, aziende, associazioni, da qualche ingegnere idraulico o qualche venditore di ambienti di apprendimento innovativi riciclatisi, appunto, come esperti di intelligenza emotiva.
La scoperta e il cambiamento di sé, capaci di riverberare i propri benefici effetti anche sulle persone che si hanno di fronte, studenti inclusi, è una questione seria, delicata e complessa, che richiede un accompagnamento attento, paziente e qualificato da parte di veri professionisti, non una tecnica che si impara con qualche slide.
E sul fiorire a scuola di counselor e figure simili, bisognerebbe ricordare anche che il terreno specifico dell’insegnamento è il lavoro su contenuti culturali significativi insieme agli studenti, un lavoro che nutre la relazione e (insieme a una cornice di regole ragionevoli e motivate) aiuta indirettamente gli studenti anche a elaborare le proprie dinamiche interiori. Altra cosa invece è chiedere ai docenti sostanzialmente di improvvisarsi psicologi e irrompere in queste delicatissime dinamiche in maniera esplicita, senza sapere davvero quali corde profonde delle persone in crescita si vanno a toccare, con i danni che possono derivarne. È la logica sottesa ad esempio al concetto di “competenze non cognitive”, in virtù delle quali in definitiva si chiede agli insegnanti di entrare nel merito delle questioni relative alla personalità degli studenti, dandone addirittura una valutazione, come se la scuola fosse un centro di formazione e reclutamento precoce delle “risorse umane” che misura affidabilità, adattabilità e simili, invece che un luogo di istruzione, socialità e sviluppo integrale della persona.
Psicologismo senza psicologia e senza insegnamento
Risulta quindi curioso notare come agli insegnanti venga sottratta la preziosa specificità del loro lavoro — con la progressiva limitazione della libertà di insegnamento, a favore di metodologie standardizzate, astratte, imposte dall’alto, e con la svalutazione dell’istruzione e dei saperi — e contemporaneamente venga loro richiesto di diventare gli esecutori di un psico-pedagogismo dai debolissimi appigli culturali e psicologici, implicito anche in tutta la retorica delle competenze, nella loro interpretazione più deteriore e meno produttiva, quella che porta a trasformare l’imprevedibile apertura dell’educazione, della cultura e dell’istruzione in addestramento legato all’esclusivo raggiungimento di target prefissati,iii il che provoca una situazione di grande confusione, che andrebbe evitata attraverso un percorso opposto, di chiarezza sui limiti e la specificità professionale di ciascuno. Nelle scuole occorrerebbero psicologi, psicoterapeuti e psicoanalisti, sia per aiutare singolarmente gli studenti — che ne hanno sempre più bisogno — sia per intervenire a supporto degli insegnanti in caso di situazioni difficili all’interno delle classi. Cose, queste, che non si improvvisano. Contemporaneamente, bisognerebbe restituire agli insegnanti lo spazio, il tempo e la libertà — rispetto all’imposizione di metodologie burocratizzate e astratte di insegnamento, veri e propri gusci vuoti che non contengono più nulla — di lavorare insieme ai propri studenti sulle conoscenze e su contenuti culturali appassionanti e significativi.
Gruppo La Nostra Scuola
i Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1966, 2ª ed.1970, 3ª ed. 1990.
ii Erich Fromm, Marx e Freud, Milano, Il Saggiatore, 1968 [Titolo originale: Beyond the Chains of Illusion. My Encounter with Marx and Freud, Pocket Books Inc., 1962].
iii Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022.
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Molto interessante e attuale come tema
Bel contributo, anche se riguardo allo psicoanalista a scuola (setting e tutto il corredo), beh, la vedo duretta… Suggerisco angolatura più fruibile. Molti anni fa ormai, o preso parte per 2 anni consecutivi a gruppi orientati sul c.d. “compito”, secondo un modello psic. clinico-dinamico, derivante dall’insegnamento di A. Bauleo, argentino, terapeuta e autore di saggi sulla psicoan. dei gruppi (editi da Feltrinelli in It.). Il gruppo era orientato sul compito di discutere una lezione, ascoltata prima nella sessione di lavoro, sulla teoria psic. Le “deviazioni” nella discussione in gruppo erano osservate da uno psicanalista dei gruppi, e interpretate – al momento buono -, come “resistenze” al compito (derivanti da fattori latenti, inconsci). Resistenze analoghe a quelle che certi studenti traducono, nel gruppo-classe, in comportamenti narcisistici, disturbando ecc. Noi stessi (insegnanti, operatori sanitari, psicologi ecc.), nel lavoro di gruppo, pur adulti anagraficamente, toccavamo con mano la difficoltà di restare concentrati sul compito, quello appunto di discutere sul contenuto della lezione (questione dell’apprendimento in gen.). Il modello desunto da quell’esperienza, e trasposto nello spazio istituzionale della scuola, mi parrebbe meglio praticabile della psic. individuale (posto che Luca avesse questa come riferimento, per i terapeuti del profondo nella scuola).
Stefano, ottimi suggerimenti a mio avviso. Grazie mille