Inchiesta sulle scuole di scrittura/8 – Vanni Santoni
LN va in vacanza per le festività natalizie. Nelle prossime due settimane ripubblicheremo alcuni pezzi usciti durante il 2022.
a cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato
Nella sua Introduzione al volume Convergenze del 2010, Remo Ceserani rilevava il persistere di una “straordinaria vitalità della narrazione in tutte le sue forme”: da una parte il genere romanzo, “un gatto sornione dalle sette vite”, dall’altra il diffondersi di un “vero e proprio bisogno di narrazione (…) in pratiche conoscitive che programmaticamente si distinguono dai romanzi”, lo storytelling.
A oltre dieci anni da quel saggio si assiste alla continua espansione delle scuole di scrittura, alcune delle quali includono la pratica dello storytelling nei loro intenti programmatici. Il blog “Laletteraturaenoi”, dopo le precedenti inchieste (editor, traduttori, copertine, librerie indipendenti, scrittura per giovani-adulti e narratori d’oggi) continua il suo sondaggio sulle forme del lavoro culturale odierno con un questionario rivolto a chi insegna nelle scuole di scrittura.
1) Come è approdato/a alla docenza in una scuola di scrittura? Da quanto tempo insegna?
Insegno scrittura da una decina di anni, la primissima volta mi invitò a tenere un seminario in Biblioteca Nazionale una scuola di scrittura aretina, che non credo esista più. Avevo da poco pubblicato Se fossi fuoco arderei Firenze, quindi era il 2011. Essendomi formato su riviste autoprodotte facenti parte di un underground letterario legato a esperienze di militanza, diffidavo molto di tali scuole, e ricordo che non accettai subito. Mi chiesi, invece, se fosse legittimo e utile “insegnare scrittura”, e conclusi che, se si parlava di singole tecniche, no, non lo era. Un romanzo – credevo allora, e lo credo tuttora – non è qualcosa che si può assemblare per pezzi o moduli, come un mostro di Frankenstein, bensì un organismo che cresce tutto allo stesso tempo, come un embrione che diventa un individuo. Ne consegue che ha davvero poco senso insegnare “a fare un incipit”, ” a scrivere un dialogo”, a “costruire dei personaggi”, ecc., se non c’è a monte una visione organica. Visione, questa, che si acquisisce leggendo e scrivendo. Non c’è altro modo. Alla fine pensai che potevo svolgere quel compito di docente in modo intellettualmente onesto solo andando lì a raccontare le mie esperienze di lettura e scrittura, nella speranza che sarebbero state utili a chi era ancora agli inizi. Funzionò. Un paio d’anni dopo, con la pubblicazione del romanzo collettivo In territorio nemico, di cui ero stato coordinatore (un’attività, vale la pena dire, che molto mi insegnò rispetto al lavoro sui testi altrui), entrai in contatto con la casa editrice minimum fax, che teneva anche dei corsi, e cominciai a insegnare con loro, sviluppando in modo più strutturato quella prima idea di trasmettere la mentalità dello scrittore piuttosto che insegnare “scrittura creativa”, un termine che peraltro mi ha sempre fatto orrore; da minimum si scisse poco più tardi la Scuola del Libro, con cui continuai a collaborare e collaboro tuttora, sempre sviluppando tale approccio didattico. Il mio corso di base, o “classico”, Iniziare un libro (o finirne uno iniziato) è giunto alla sua ottava edizione (decima contando i “bis” nello stesso anno), e negli anni gli si sono affiancati un corso avanzato, una versione breve pensata per l’online – I quattro pilastri, giunto, tra “bis” e “tris”, già alla settima edizione, e altri corsi più brevi, come quello di “live editing” in cui si lavora direttamente sul testo, o Come pubblicare… per davvero, dedicato al mondo dell’editoria.
Qualche anno dopo l’inizio di questa collaborazione, ho cominciato a lavorare anche con la Scuola Holden, grazie a un’iniziativa legata a Book Pride; le cose funzionarono e anche lì la collaborazione si è fatta regolare. Più recentemente ho cominciato a collaborare anche con la Scuola Belleville, e in passato ho lavorato anche con altre realtà come Fenysia o Semicerchio.
2) Ha frequentato a sua volta una scuola di scrittura?
No, l’ambito dove ho imparato a scrivere sono state le riviste autoprodotte. Ricordo però che in quei primi anni – ho cominciato a scrivere nel 2004 – mi fu regalato un breve laboratorio articolato in due pomeriggi, in cui dovevamo scrivere dei testi che poi venivano commentati in classe: mi parve divertente, ma non molto utile. Se si parla di narrativa, non credo nei “compiti in classe”, perché premiano su tutto la capacità di scrivere un testo compiuto in poco tempo, laddove un buono scrittore o una buona scrittrice può essere sia veloce che lenta: conta solo la qualità finale del testo e non il suo tempo di scrittura.
3) In base alla sua esperienza quali sono le aspettative di chi si iscrive a un corso di scrittura e quali gli obiettivi a cui un docente può ragionevolmente mirare? Insomma quanta possibilità di incontro esiste tra la molla che muove la “domanda” e le possibilità oggettive con cui l’”offerta” risponde?
Le aspettative degli studenti variano molto da corso a corso e da persona a persona, e non è neanche detto che un corso presentato come “avanzato” intercetti studenti più esperti di un corso presentato come “base”. Anche per questo, negli anni, ho cominciato a proporre i miei corsi avanzati – dove la teoria è ridotta al minimo e si lavora quasi esclusivamente sui testi degli iscritti – solo a studenti che avevano già concluso un primo ciclo didattico con me.
In una classe media di un mio corso tipico, come Iniziare un libro o finirne uno iniziato ci sono, normalmente, alcuni studenti e studentesse su un livello già alto o molto alto, in alcuni casi pure con pubblicazioni alle spalle; alcuni studenti completamente inesperti, magari privi anche del minimo sindacale di letture necessarie per pensare plausibilmente di scrivere; e un più vasto corpo intermedio costituito da persone che hanno già qualche piccola esperienza di scrittura e vogliono migliorarsi. Anche gli obiettivi personali sono variegati e non sempre legati al livello di esperienza: c’è chi viene per curiosità; chi per semplice crescita personale; chi perché vuole capire a che livello sta confrontandosi con un docente; chi mira esplicitamente alla pubblicazione.
In questi anni di insegnamento continuativo hanno esordito per case editrici grandissime, grandi, medie e piccole almeno una ventina di miei ex-studenti, mentre altri sono diventati editori, editor o insegnanti di scrittura a loro volta, quindi posso vantare un buon tasso di “incontro”, ma al di là dell’orgoglio del docente, è necessario sottolineare che, in genere, chi riesce a ottenere questi risultati in breve tempo arriva già al corso con un livello di consapevolezza letteraria superiore alla media e un bagaglio di letture importante.
4) Come i suoi studenti si approcciano al desiderio di esordire e, più in generale, come guardano al mondo editoriale?
Il gruppo di chi mira esplicitamente alla pubblicazione è in genere piuttosto nutrito. A volte ci sono anche persone che, dopo essere state truffate da pseudo-editori a pagamento, o aver preso vicoli ciechi come quelli costituiti dal self-publishing o dagli editori “free” in realtà privi di distribuzione, rete vendita e promozione, vogliono capire come arrivare a una pubblicazione vera. Come detto, non c’è sempre una corrispondenza tra livello dello studente e aspirazioni: ci sono persone che mirano ai migliori editori quando farebbero ancora fatica a pubblicare nelle riviste più di bocca buona, così come futuri autori molto umili ma in realtà già capaci. Questo, comunque, non è un problema una delle cose che può oggettivamente fare un corso di scrittura per i suoi studenti, è fornir loro una maggiore autoconsapevolezza attraverso il confronto col docente e, soprattutto, con i pari.
5) Quale peso ha, nell’attività didattica, il momento della lettura? Quali opere si leggono?
La lettura è tutto. I miei corsi si basano sulla lettura: durante le lezioni, e poi di nuovo a fine corso, assegno in genere un centinaio di libri da leggere, di cui almeno la metà da considerarsi fondamentali. In pratica, un paio d’anni di letture. Va da sé che non mi aspetto che i libri vengano letti durante il corso: li cito, li porto a esempio, li commento, ma la chiave della mia didattica consiste nel fornire dei percorsi e degli approcci di lettura che poi dovranno trovare continuità anche a corso finito. Reputo questo aspetto essenziale, perché ho visto quanto spesso le persone si iscrivano a corsi di scrittura senza avere un background di letture sufficiente, né rispetto ai classici, né rispetto al meglio della letteratura contemporanea. Aiutarli a costruirlo è una delle cose più utili che possa fare, anche perché la professionalizzazione di una scrittrice o di uno scrittore passa attraverso la capacità di costruire propri percorsi di scrittura che siano poi funzionali a ciò che si vuole scrivere. Una capacità che può essere sviluppata solo attraverso la lettura – anzi, attraverso un deciso, immediato e prolungato innalzamento del “tasso proteico” delle proprie letture.
Venendo a quali opere far leggere, è chiaro, anzi lapalissiano, che sarebbe meglio aver letto tutto, ma è altrettanto chiaro che è impossibile. Chi si iscrive a un corso di scrittura, che non è un corso di laurea in Lettere (o un dottorato) cova del resto la legittima aspirazione di essere messo in condizione di scrivere qualcosa di almeno decente in un tempo sì lungo ma non lunghissimo: imporre dieci o venti annidi letture di un certo tipo prima di provare a scrivere qualcosa, sarebbe chiedere troppo. Così, di corso in corso, ho selezionato le letture da assegnare in base a un principio di efficacia didattica, trovando che, per chi scrive o vuole scrivere oggi (e in genere questa persona vuole scrivere romanzi, come è logico vista l’attuale egemonia di questo genere), i “blocchi” più immediatamente utili sono il grande romanzo ottocentesco, il romanzo modernista, dove sono stati sviluppati dispositivi essenziali anche adesso, e il meglio della narrativa contemporanea. Va da sé che se potessi tenere gli studenti con me per qualche anno, invece che per corsi che durano, in genere, un paio di mesi, utilizzerei liste che vanno molto più indietro nel tempo, così come altre che andrebbero a indagare più profondamente determinate nicchie e sotto-generi. In un corso breve o di media lunghezza, l’obiettivo è invece quello di fornire una base di letture che unisca solidità e rapidità d’approccio. Nonostante ciò, i miei “listoni” a base di Dostoevskij, Flaubert, Eliot, Proust, Woolf, Faulkner, DeLillo, Tokarczuk, Bolaño…, dopo un po’ erano diventati così famosi nel giro letterario – testimonianza, forse, di quanto l’aspirante scrittore medio non sia uso a letture intensissime – da far percepire il mio approccio didattico come fortemente atipico, cosa che portò minimum fax a chiedermi di farne addirittura un libro, quel La scrittura non si insegna che di recente ha debuttato anche nel mondo ispanofono e francofono trovando riscontri interessanti, cosa che mi fa pensare che la diffusa volontà di scrivere e pubblicare, unita alla sorpresa nello scoprire che per farlo è necessario leggere moltissimo (il titolo del saggio nei paesi di lingua spagnola è Para escribir hay que leer, “per scrivere devi leggere”!) non sia una questione solo italiana.
6) Le parole-chiave della critica e i metodi della teoria letteraria vengono percepiti da chi insegna come strumenti di mediazione e di accesso al testo o come astrazioni non pertinenti a questa forma di insegnamento-apprendimento?
Utilizzo testi di critica e teoria letteraria nei corsi avanzati, ma non li reputo molto adatti ai corsi di base, per il semplice fatto che nella stragrande maggioranza dei casi ci sono da colmare, prima, significative lacune sul piano delle letture di narrativa.
Reputo, invece, né più né meno dannosi manuali e manualetti di scrittura e narratologia, che offrendo il miraggio di possibili scorciatoie attraverso le singole tecniche, allontanano dallo sviluppo di una vera sensibilità letteraria, la quale, di nuovo, può essere ottenuta solo leggendo capolavori su capolavori.
7) La nuova, diffusa confidenza con la scrittura acquisita sui social ha contribuito a “desacralizzare” una pratica tradizionalmente riservata a fasce più ristrette. Quanto la “graforrea” (Antonelli) dei media alimenta l’espansione recente delle scuole di scrittura? Fra i bisogni intercettati, quanto è dovuto alla “cultura del narcisismo”?
Quando lavoravo a La scrittura non si insegna ho indagato, tra le altre cose, proprio questo diffuso desiderio di scrivere e pubblicare, scoprendo che veniva già stigmatizzato da Dino Buzzati nel 1937 – «Si può calcolare che in Italia ogni giorno nasca un nuovo scrittore, quando non ne nascono due o tre. Centinaia di persone, delle più diverse categorie sociali, stanno oggi, a quest’ora, pensando intensamente al capolavoro che dovrà aprire loro le vie della gloria. Nessuna preoccupazione, come quella dell’aspirante letterato, è altrettanto acuta, insistente, inguaribile. Con una cieca fede nella propria opera, l’autore ha l’impressione che folle sitibonde attendano il suo romanzo e che a questa rivelazione si opponga, per misteriosi motivi, l’insipienza degli editori, che non sanno neppure badare al loro interesse. Oh, se gli scrittori, prima di sollecitare gli editori, chiudessero i loro scritti in un cassetto e li rileggessero dopo quattro o cinque mesi. Quante delusioni risparmiate, quanti libri inutili e brutti di meno sulle bancarelle.»1 – e ancora prima da Giacomo Leopardi, un secolo prima: «Oramai si può dire con verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacché gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive). Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in letteratura. In Italia si può dir che chi legge, non legge che per iscrivere; quindi non pensa che a sé, ecc.»2.
Se ne desume, credo, che le scuole di scrittura abbiano intercettato, e contribuito a strutturare, un desiderio diffuso da sempre, o almeno da quando esiste una circolazione di massa dei libri, e quindi non necessariamente legato a storture percettive contemporanee.
Non c’è dubbio, invece, che dietro al desiderio di pubblicare ci possa essere anche un elemento narcisistico, ma ciò non vale forse anche per alcuni dei massimi autori della storia? Certo è che il libro ha ancora la sua “aura”, per dirla con Benjamin, se il desiderio di apporre il proprio nome e cognome su una copertina è tanto forte e diffuso da alimentare una vera e propria industria truffaldina, quella dell’editoria a pagamento, non a caso chiamata dagli anglosassoni vanity press.
8) Chi scrive oggi spesso si attiene al livello standard dell’“italiano digitato”. In una scuola di scrittura quanto si lavora sulla lingua e sullo stile? Nei corsi che tiene lavora sui testi dei suoi studenti e come? Come cambia la cognizione di chi frequenta i corsi rispetto al fatto che la scrittura “non può insomma avere nulla di ingenuo o spontaneo ma deve essere il frutto di una consapevole ricerca stilistica” (Luigi Matt)?
Non potrei essere più d’accordo con Matt: il passaggio finale della professionalizzazione di una scrittrice o di uno scrittore avviene senza dubbio quando questa o questo trova la propria voce. Si chieda del resto a un editor cosa cerca in un nuovo autore: la voce, certo. Se ne ha prova anche nel ciclo di interviste condotte da questa stessa rivista. Tanto chiara è la necessità di trovare la propria voce, quanto sfuggente la definizione di questo concetto, che include prima di tutto lo stile e la lingua, ma anche la loro aderenza ai temi trattati, una certa e impalpabile sincerità, il saper cosa dire e come dirlo, eccetera. Va da sé che se uno studente arriva a questo punto durante un corso, significa solo che era già molto vicino, dato che nella maggior parte dei casi ciò è frutto di un processo di ricerca che dura anni e passa attraverso innumerevoli letture e altrettanto innumerevoli tentativi di scrittura.
Se ci sono infiniti modi per “scrivere bene”, e ogni buono scrittore ha, appunto, la sua voce, è altresì vero che le cattive scritture si assomigliano tutte, perché in genere la loro bruttezza deriva da un numero ristretto di errori molto comuni. Durante un corso si possono allora aiutare gli studenti che incorrono in essi – l’uso di cliché, l’assenza di specificità o conflitto, l’inesattezza terminologica, l’ingenuità nell’uso di determinati dispositivi testuali, ecc. – attraverso un’attività di lavoro “in diretta” sul testo analoga al cosiddetto editing minuto. Ciò ovviamente non porta una scrittura a essere buona, ma intanto le risparmia l’essere cattiva, ed è già molto. Il passo successivo non dipenderà mai dal lavoro di un docente, ma solo dal livello d’impegno che l’aspirante autore o autrice metterà nella lettura e nella scrittura: lì quello che può fare l’insegnante è suggerire (molte) letture e trasmettere un po’ di trucchi del mestiere, in genere frutto d’esperienza, che aiutino a trovare passo e disciplina nella scrittura, a effettuare una buona revisione, a costruirsi un gruppo di pari con cui confrontarsi sui testi e magari fondare una rivista, eccetera.
1 “La Lettura”, 1 giugno 1937
2 Zibaldone, 5 febbraio 1828
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