L’estremo Occidente: su Verde Eldorado di Adrián N. Bravi
Leggere l’ultimo romanzo di Adrián Bravi, Verde Eldorado (Nutrimenti, 2022), non è semplicemente un piacevole passatempo, che riconcilia con una forma arcaica di intrattenimento, ma è una esperienza di viaggio a più livelli.
Si tratta, da un certo punto di vista, di una sorta di biografia traslata e capovolta dell’autore: un ritorno alle sorgenti per chi, argentino, racconta la storia di un personaggio veneziano che va nell’altro mondo, l’America – che noi oggi chiamiamo latina – e scrive prima un diario di bordo andato perduto, poi una biografia, ed infine una testimonianza in cui la memoria personale si stempera nella memoria collettiva.
Si tratta anche di un discorso metaletterario: l’avventura del viaggio per mare verso l’ignoto attinge all’epica, e allude al nostos dell’autore, perciò il ritorno alle origini è anche del genere romanzo, che trascina gli dei sulla terra e mescola i piani della vicenda umana accedendo in una zona grigia, quella tipica di questo scrittore, in cui il vero della storia non ha sostanza diversa dell’invenzione. Se diventa indistinguibile l’uno dall’altra, allora, l’incredibile è la materia della storia e il racconto è l’unica verità possibile nel tempo della lettura.
Si tratta di una trama che avvince pur essendo chiaro sin dall’inizio come la vicenda sia andata a finire. Del resto, Bravi pone in capo ad ogni capitolo un vero e proprio sommario che, pur suscitando curiosità, concede al lettore quasi soltanto il piacere del già noto. Ma il sottotesto, implicito ed evidente, è che il colpo di scena è fuori del libro, là dove si è consumato lo sterminio.
Si tratta anche della consolazione della filosofia, per quanto il protagonista non legga Boezio, ma il Periphyseon di Scoto Eriugena, «narrazione favolosa» come quella in cui è contenuta, «manoscritto» di cui si parla nel romanzo, e che appassiona anche l’autore, secondo un gioco di specchi che, significativamente, chiude l’intera narrazione.
La storia vera
Il protagonista si chiama Ugolino, il nome evoca immediatamente il fiero pasto dantesco, perciò il lettore a questo primo indizio sospetta sviluppi cannibaleschi della vicenda. Ma l’avvio pare contraddire la prefigurazione, Ugolino è un giovane, appartenente ad una famiglia di commercianti di tessuti nella Venezia del XVI secolo, «destinato allo studio della filosofia», perché inadatto alla mercatura. La notte di San Lorenzo (e non può essere un caso) va in fiamme la sala delle stoffe, mentre Ugolino, in una sala attigua, ha compreso «la faccenda delle quattro nature» nel primo libro del Periphyseon. Sorpreso dall’incendio «all’ultimo piano del palazzo», per mettersi in salvo deve attraversare la sala delle stoffe in fiamme. «Arrivato in fondo alle scale, ormai» è «diventato una torcia vivente.» La sua pelle e il corpo devastato vengono curati, e il volto, «irrimediabilmente» sfigurato, verrà coperto da un cappuccio per impedire che alla sua orribile vista qualcuno possa fuggire inorridito. Rimarrà recluso in una stanza fino a quando il padre, per non vedere più suo figlio «trasformato in una specie di lucertola gigante», decide di affidarlo al Piloto Mayor delle Indie, Sebastiano Caboto, in procinto di salpare, per conto della corona spagnola, da Sanlúcar de Barrameda verso le isole Molucche. «Il 3 aprile dell’anno del Signore 1526, i quattro vascelli» mollano «gli ormeggi, con circa duecento uomini a bordo» e un ragazzo incappucciato che deve registrare la cronaca della spedizione. Il viaggio è un fatto storico, ed è veramente accaduto che Caboto abbia preso la decisione di cambiare rotta, alla ricerca della città del Rey Blanco «un posto lastricato di argento, oro e pietre preziose», di cui parla nel romanzo Francisco del Puerto, «che aveva vissuto dieci anni in mezzo agli indios», confermando quanto raccontato da altri superstiti, «due ciarlatani ambiziosi e avidi». Dopo aver abbandonato il luogotenente e il capitano di una delle navi, contrari alla decisione di Caboto, la flotta risale il Rio de la Plata e poi il Paranà e il Paraguay. È un fatto storico che i viaggiatori europei cercassero l’Eldorado e seguendo un miraggio spesso trovassero la morte. È storico il fatto che la popolazione indigena banchettasse con le carni di incauti uomini bianchi, e il romanzo diligentemente registra che quattro compagni di Ugolino vengano mangiati in una «grande grigliata» (San Lorenzo e Ugolino non potevano essere casuali). In questo romanzo storico, dunque, Ugolino svolge l’essenziale funzione di colmare una lacuna della storia, dal momento che di questa spedizione di Sebastiano Caboto non abbiamo il diario di bordo, che doveva esserci. La letteratura integra la storia. Fortuna che c’è avvezza.
Un romanzo di (de)formazione
Decapitati i miei quattro compagni, un indio – non so se uno dei due che aveva ucciso gli altri, non riuscivo più a distinguerli – mi ha levato il cappuccio, e prima di decapitarmi ha studiato per bene la mia testa. Mi ha scrutato da vicino, come una belva davanti alla preda. Dopodiché è indietreggiato di qualche passo, senza staccarmi gli occhi di dosso, e ha proferito una frase che poi ha iniziato a ripetere senza interruzione: “Kulumanè-Jajary-Karai, Kulumanè-Jajary-Karai…” (pag. 87)
Altri indios ripetono la stessa frase incomprensibile e non uccidono Ugolino. Mangiano, invece, il diario di bordo
Avevo scritto diverse cose nel diario che i selvaggi stavano distruggendo, alcune delle quali non riuscirò mai più a fissare di nuovo sulla carta. Tutto ciò che era successo dalla nostra partenza da Sanlúcar de Barrameda in poi, la bonaccia senza venti che afflosciava le vele, la tempesta, le onde che riempivano la stiva della nave, il panico dei marinai – era tutto lì, concentrato in quei fogli. Anche la luna, che stendeva sulle creste delle onde uno strato sottile d’argento. E mi piaceva quando il Piloto Mayor si avvicinava a me per assicurarsi che avessi scritto tutto. A volte mi chiedeva di leggergli qualche passaggio: “Ricordati”, diceva, “che anche l’immaginazione fa parte della realtà che viviamo, è una delle sue possibilità”. (pag. 88)
I selvaggi si prendono cura di Ugolino, lo nutrono, gli costruiscono una capanna, e una donna, che lui chiama Giorgina, come il perduto amore veneziano, lo ama senza alcuna remora per il suo aspetto. Il mostro italico è il miracolo amerindio. Ugolino scopre di essere considerato il tramite tra gli uomini e gli dei, i Karai, le divinità del fuoco, che lo hanno marchiato e consacrato: diventa il protettore della comunità quando riesce «a fermare il fuoco che stava distruggendo un pezzo di foresta e rischiava di divorare l’intero villaggio». Nella sua terza vita, dopo Venezia l’infanzia e il fuoco, il viaggio la giovinezza e il mare, Ugolino ha nel nuovo nome la dimensione della diversità come privilegio. Del resto, a Venezia incontrava i morti che gli facevano compagnia e gli parlavano. Nella nuova terra accanto al fiume, in una capanna invasa dai pappagalli, legge Scoto Eriugena, miracolosamente risparmiato, e impara a vivere nel presente pur non dimenticando nulla del passato. Scrive, anche.
E quando resto da solo sulla soglia e contemplo la luce che filtra dai rami degli alberi, spero sempre che l’unico occhio che mi è rimasto in vita, quello sinistro, e con la palpebra che scende giù da sola, resista e riesca a concedermi ancora la vista di questi colori e di questo volto sformato restituitomi dallo specchio minuscolo che era nel taschino dello strumentalista. (pag. 168)
Ugolino ha imparato a guardare l’io e il mondo. Questa è la conclusione del romanzo che entra in dissonanza e stride con quanto è accaduto nella storia. Lo sterminio degli indios, l’avidità, che ancora oggi minaccia il verde eldorado amazzonico in nome del profitto e del benessere del civile uomo bianco.
Un centro di gravità provvisorio
La vicenda che racconta Bravi sembra dominata dal caso, come appare casuale a noi, molto spesso, ciò che ci accade. Eppure, Ugolino alla fine compie una scelta definitiva, quella che solitamente si chiama una scelta di vita, e per il personaggio è davvero, profondamente, tale. Tornare indietro sarebbe un arretramento che lo confinerebbe nel lazzaretto dei malati, dei diversi, degli esclusi di cui il nostro occidente non vuole occuparsi se non per stabilire la loro invisibilità. Sceglie di vivere nella foresta con i selvaggi nonostante possa tornare a Venezia: in un altro mondo, con un altro nome, trova la sua dimensione, il suo posto come persona e non semplicemente come corpo deturpato. Ugolino sceglie la libertà di esistere senza vergognarsi di essere come è. Sarebbe un lieto fine, ma è amaro perché ciascuno di noi sa che cosa è poi accaduto a quelle terre ed a quella gente. Ed anche noi, chiusi nelle nostre stanze, ascoltiamo la voce dei morti guardandoci allo specchio.
Quella volta […] avevo cercato la voce dei morti […] senza ottenere risposta. Allora mi ero avvicinato allo specchio per rimirarmi. Mi sarebbe piaciuto rivedermi com’ero stato sulle ginocchia di mia madre, con i ricci che circondavano il volto ormai perduto, gli occhi simmetrici con le sopracciglia a mezzaluna, le guance paonazze e sane. Ma nello specchio non c’era nulla di tutto ciò: solo una faccia sfigurata che mi faceva più paura delle voci che risuonavano e si azzittivano all’improvviso. […] L’attesa del loro arrivo, a prescindere da quello che dicevano, mi teneva compagnia. […] Erano, anche quando non si facevano sentire per qualche giorno, i miei compagni fedeli. (pag. 26)
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