Tra memoir e romanzo familiare – Su “I Moosbrugger” di Monica Helfer
Nei Moosbrugger, tradotto da Scilla Forti e pubblicato da Keller nella collana “Vie”, la scrittrice austriaca Monica Helfer trasfigura in romanzo corale la sua storia familiare, ripercorrendone un tratto cruciale coincidente con la chiamata alle armi del nonno Josef tra il 1914 e la fine della guerra. La vicenda si svolge in un paesino sperduto nelle Alpi austriache dove, isolati dal villaggio, vivono gli Emarginati: così infatti è soprannominata in paese la famiglia di Maria e Josef Moosbrugger e dei loro numerosi figli.
Josef proviene da una famiglia di braccianti ed è abituato al duro lavoro della vita di montagna, tra terra e stalla: è un uomo di poche parole, di certo non avvezzo a dimostrare i suoi sentimenti; intimorisce gli estranei con la sua diffidente riservatezza e si distingue dalla sciatteria, comune tra i popolani, per l’attenta pulizia che dedica al corpo e il lindore delle camicie che esibisce ogniqualvolta scenda al villaggio. Su di lui girano voci che lo dipingono come un uomo con “traffici strani, loschi”: di certo è uno che sa menare le mani, se messo alle strette. Maria è una donna di una bellezza così fuori dal comune da suscitare inevitabilmente il desiderio altrui: gli uomini si domandano come possa vivere soddisfatta con un uomo dal contegno così freddo; a molti fa comodo pensare che gli sia fedele per paura e, se non le fanno delle avances, è solo per timore delle reazioni di lui. Tuttavia Helfer chiarisce fin dalle prime pagine che le illazioni paesane sono fondate sulla semplificazione e sull’invidia: “Non erano per niente una di quelle coppie che spegnevano la luce andando a letto. Per niente. E quando alla fine la spegnevano, capitava che parlassero ancora a lungo.” (M. Helfer, I Moosbrugger, Rovereto, Keller, 2022, p. 16).
La caratteristica più rilevante del libro è la sua natura ibrida; Helfer infatti attinge al patrimonio di testimonianze domestiche, la cui custode è zia Kathe ma, al contempo, crea una messinscena narrativa grazie alla quale i suoi avi sono come personaggi di romanzi: dei nonni e degli zii – in particolare Lorenz e Heinrich – il libro restituisce carattere, movenze, comportamenti, pensieri, desideri. Si tratta, dunque, di un memoir nutrito degli “artifici della non-fiction” (S. Ricciardi) frequenti in quella narrativa contemporanea che contamina vicende realmente accadute e finzione. La scrittrice si pone al crocevia della sua famiglia, testimone di secondo grado rispetto alla zia che, ormai novantenne, ha voluto fare chiarezza su quanto di chiacchierato o poco chiaro ci fosse nel passato della madre Maria:
Quando la zia Kathe si decise e raccontare degli Emarginati, vedeva già la morte davanti a sé che le faceva cenno. Usò queste parole. «È lì» disse, le parole scaturirono dal suo viso non appena la bocca si mosse, un viso che sembrava di cuoio, ero seduta di fronte a lei nella piccola cucina del quartiere sudtirolese e avevo l’impressione che alle sei spalle ci fosse qualcuno che parlava e che lei gli prestasse soltanto il volto, «la morte è lì» disse, «a un paio di metri da me, un piede davanti all’altro, un po’ ingobbita, l’ossatura, si gira verso di me e mi fa cenno di avanzare» (p. 138)
La rievocazione del passato mira a mettere a fuoco in particolare proprio la figura della nonna materna e la nascita della madre, Margarethe, detta Grete. Il fulcro della vicenda, e il vulnus familiare, sta, infatti, in una gravidanza che prende avvio durante l’assenza di Josef: l’uomo, una volta rientrato dal fronte, non rivolgerà mai né una parola né un gesto di affetto nei confronti della bambina, considerandola “figlia della colpa”.
Helfer non si prefigge, né si preoccupa qui di sciogliere l’enigma: di chi è davvero figlia Grete? Di Josef, tornato a casa per tre volte in licenza militare? O dell’uomo affascinante, Georg, che Maria ha incontrato a una fiera di paese e che ha osato salire fino alla casa fuori dal villaggio? Zia Kathe, pur testimone del “grande bacio” che Maria e Georg si scambiano, non mostra alcun dubbio rispetto alla consanguineità che la lega alla sorella minore Grete.
La scrittura di Helfer mira piuttosto a consegnare l’affresco di un’epoca in cui le donne vivono ancora in uno stato di minorità e tratteggia il campo di forze, in buona parte maschili, in cui Maria si trova tiranneggiata una volta che Josef parte per il fronte. La giovane donna, infatti, viene “affidata” dal marito allo sguardo vigile del sindaco, Gottlieb Fink, l’unica persona in paese con cui intrattenga qualche affare più o meno lecito:
Josef andò dal sindaco e chiese: “Potresti badare a Maria mentre sono al fronte?” Il sindaco sapeva cosa significasse “badare” in quel caso. In pratica, pensò, Josef intende dire che non può fidarsi della moglie. E la moglie poteva fidarsi di sé stessa? Era quella la domanda! In fondo ogni mattina si vedeva pure lei allo specchio. Non era presente nessun altro quando fecero quel discorso. Un discorso delicato, che non voleva testimoni. (Ivi, p. 22)
Il dialogo tra i due è rilevante dal momento che mette a fuoco la rete dei desideri che circola intorno alla bellezza di Maria: oltre al sindaco, che arriverà al punto di stravolgere la custodia della donna in un tentativo di violenza sessuale, vale la pena ricordare lo sguardo delicato e rispettoso del postino che, solo quando è necessario, si inerpica fin dagli Emarginati pensando “Se non altro oggi posso guardarla”. Ma il desiderio si nutre evidentemente del suo contrario, se lo si teme. L’avversione nei confronti di Maria diviene denuncia aperta e giudicante agli occhi della comunità quando il parroco si reca dalla donna con la pretesa di confessarla e, di fronte al diniego di questa, arriva al punto di far togliere il crocifisso dalla casa degli Emarginati:
L’indomani il parroco si ripresentò, non da solo stavolta, ma insieme a un ragazzo, al quale ordinò di recuperare la scala del fienile, salirci e rimuovere il crocifisso vicino all’entrata con lo scalpello. […] La notizia si sparse e non ci fu anima viva che non spesso di Maria e del bambino nella sua pancia, e che non conoscesse quei calcoli che andavano completamente e inequivocabilmente a sua sfavore. (Ivi, p.166)
La ricostruzione procede tra andirivieni temporali fino agli anni più recenti e fonde alle testimonianze di zia Kathe i ricordi dell’autrice. Grazie agli uni e agli altri la storia degli Emarginati si ricompone fino a delineare le vicende anche adulte dei figli di Maria e Josef e viene consegnata a colei che sembra la vera destinataria dell’opera: Paula, la figlia di Helfer morta a soli ventun anni. Nonostante i destini diversi, spesso infelici dei nonni e dei numerosi zii, il romanzo familiare di Helfer trova infine un’immagine unitaria e rasserenante nell’ekfrasis su cui si chiude: l’autrice ricorda di aver guardato al quadro “Giochi di bambini” di Brugel il Vecchio come a una riproduzione ante litteram degli Emarginati, attribuendo gli schiamazzi, le urla festose, i piagnistei e i ruzzoloni lì dipinti a Lorenz, Heinrich, Walter, Kathe, Grete, Irma e Seppele. In questa identificazione sta dunque il segreto di un libro in cui la microstoria di un gruppo escluso dal consorzio sociale e altrimenti destinato all’anonimato si fa protagonista di una narrazione che lo sottrae per sempre all’oblio.
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