Parassiti, giochi della fame e calamari: il caso Squid Game e le frontiere del nuovo immaginario Netflix
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
In principio era House of Cards, poi venne Stranger Things e in ultimo La casa di carta: queste sono alcune delle serie Netflix più fortunate, tramite le quali è possibile demarcare tre diverse fasi dell’immaginario della piattaforma streaming. La prima serie canonicamente americana, vede al centro lo svisceramento delle logiche del potere politico: fu la prima serie Netflix, quando ancora il servizio on-demand non era arrivato in Italia, quando ancora il lancio mondiale non si era realizzato. House of cards ormai appartiene al passato, non solo perché la serie è naufragata ingloriosamente insieme al suo attore principale Kevin Spacey (licenziato in tronco dopo le denunce di molestie), ma proprio perché quel tipo di immaginario circoscritto a un orizzonte geografico e temporale preciso è stato surclassato da un altro. Questo non significa che ad oggi non siano presenti nel palinsesto serie attive strutturate intorno a un cronotopo realistico (la moltitudine di docu-serie che esce ogni mese e soprattutto The Crown sono lì a dimostrarcelo): ma ormai il modello dominante è un altro. È subentrata infatti l’era Stranger Things: un melting pot nerd nel quale viene condensato l’immaginario fantastico e fantascientifico degli anni Ottanta. Da mostri-pianta, a complotti governativi, fino a ragazzini telecinetici, la serie è un affascinante condensato in salsa vintage (ci sono anche russi cattivi ovviamente!). Il pubblico potenziale è sempre più ampio, l’orizzonte si allarga: adulti e ragazzi, tutti siamo passati per la strettoia dell’era Reagan. Eppure non basta: siamo in un mondo globale e interconnesso, abitiamo spazi e tempi distanti, oggi sempre meno stranianti. Ed è così che la programmazione Netflix si apre a un ventaglio di prodotti provenienti da ogni parte della terra: la Casa di Carta, Lupin, Dark e le nostrane Baby e Suburra, sono serie europee destinate però fin dall’inizio ad un pubblico mondiale. Anche in questo caso, ciò non toglie che coesistano serie americane di successo, Regina degli scacchi docet!, ma il fenomeno senz’altro più dirompente è quello dei prodotti glocal, nei quali la dimensione socio-culturale nazionale, molto stemperata, si offre a una ricezione globale. Il piacere è reciproco: un italiano può vedere una serie francese, quanto un francese una italiana. L’allargamento di orizzonte è evidente, qualcuno potrebbe dire anche il calo di qualità: la Casa di Carta, per quanto divertente e appassionante, non è all’altezza delle serie sopra citate; ha anche il “difetto”, enorme, di aver contribuito a diffondere in giro per il mondo la versione remix di Bella Ciao. Resta il fatto che ormai ogni nazione contribuisce ad accrescere un palinsesto composito, nel quale c’è spazio per tutti, anche per la Cina, nonostante il servizio streaming non abbia ancora oltrepassato la Grande muraglia.
La casa di carta e Lupin, ad esempio, sono diventati due fenomeni mediali dall’incredibile risonanza: il primo mette in scena le avventure di una banda di fuorilegge spagnoli al servizio un po’ di se stessi un po’ del popolo europeo, stremato dal debito bancario; il secondo ambienta ai giorni nostri le peripezie del ladro gentiluomo francese, che per l’occasione ha cambiato volto grazie al bravissimo Omar Sy. Ho scelto queste due serie non a caso, mi permettono infatti di introdurre il nuovo fenomeno Netflix: Squid Game. Con le altre due, questa nuova serie condivide la dimensione glocal (è prodotta e girata in Corea del Sud), quanto l’attenzione verso i diseredati di questo mondo: ladri, fuorilegge, persone bollate come diverse, i sommersi che, dopo tante traversie, sono pronti a un ultimo ed estremo tentativo di riscatto, a cui noi possiamo assistere, divertendoci e commuovendoci.
Squid game, stando a quello che si vede in rete e sui social, è già un cult, ed è già asceso nell’Olimpo Netflix dell’ultima generazione seriale. Ma di cosa parla? Nella Corea dei nostri giorni, Seong Gi-hun, con il vizio per le scommesse, ormai senza speranze, divorziato, costretto a vedere la figlia nei ritagli di tempo e a vivere con la madre, ma soprattutto sommerso dai debiti, viene avvicinato da un losco quanto elegante figuro. L’uomo gli offre la possibilità di partecipare a un gioco (nulla di meglio per un ludopatico), dovrà solo chiamare il numero su uno strano biglietto da visita e seguire le istruzioni. Da qui la discesa verso il grottesco e il surreale è assicurata. Il nostro protagonista si ritroverà all’interno di un ingranaggio diabolico, nel quale si dovranno superare sei giochi molto semplici tratti dal mondo dell’infanzia, per ottenere una ricompensa altissima (circa 33 milioni di euro). Ma la storia non è così naif, perché chi sbaglia o perde paga l’eliminazione con la morte. Insieme a Seong Gi-hun ci sono altri 455 concorrenti: una massa di persone disperate, con debiti, bisogno di soldi e la vita al tracollo. Tutti pronti (o quasi) a rischiare la vita per il violino più piccolo del mondo – per citare Steve Buscemi delle Iene – perché in un mondo basato sui soldi, il denaro può essere il grande balsamo riparatore, capace di lenire tutti i problemi: sanare i debiti, permettere una vita almeno agiata, può permettere anche a una madre rimasta in Corea del Nord di ricongiungersi con la figlia nella parte Sud della penisola. Due famiglie un tempo unite sotto il nome di Joseon. Nel mondo di Squid game infatti le antiche ferite convivono con quelle nuove: in una Corea che mette sempre più al centro della propria riflessione seriale, ma prima ancora cinematografica, la recessione, il blocco sociale, la marginalizzazione dei parassiti, il presente si muove in continuità con i torti del passato, come ci ricorda il personaggio di Kang Sae-byeok.
Vorrei ora provare a individuare in pochi punti come si struttura l’immaginario di Squid Game e avanzare le possibili ragioni del suo successo.
Il fattore (K)orea
Parasite, vincitore agli Oscar e a Cannes, ha dimostrato che il fenomeno Corea è transcontinentale e duraturo. Coinvolge il settore musicale (si pensi a Psy e al tormentone Gangnam che tutti almeno una volta abbiamo canticchiato storpiando le parole), quello culinario, l’elettronica, l’abbigliamento, fino a includere il campo cinematografico e televisivo. Il made in Korea per certi versi ha avuto e continua ad avere un successo simile al made in Italy con un pizzico di China, paragonabile al moto delle onde che inesorabili lambiscono le spiagge di tutto il mondo. Anche in campo seriale la Corea del Sud si è ritagliata una nutrita fetta di mercato, soprattutto tra le fasce d’età più giovani, avide consumatrici ad esempio dei K-dramas (solo su Netflix se ne contano a decine).
Sempre da Parasite, viene poi il motivo dei parassiti, quegli organismi ospiti dipendenti in tutto dalla generosità e la carità di coloro che invece per diritto biologico possono abitare gli spazi (come mostra il nuovo marito dell’ex-compagna del protagonista che tenta di espungerlo come un corpo estraneo). Un’occorrenza non genetica – l’ideatore Hwang Dong-hyuk ha dichiarato che ha iniziato a progettare la serie dal 2008- , semmai di intenti. Il cinema coreano, rimanendo al caso di due registi particolarmente celebri in Occidente, Bon Joon-ho e Park Chan-wook, ha dimostrato un’energia storica vivace e vitalistica. Le frontiere tra nord e sud, l’occupazione giapponese, l’ingerenza statunitense e per ultima la recessione economica, sono tutte piccole crepe nelle quali si incuneano film forti, politici (che ancora faticano qui in Italia), di cui anche la serialità si fa portavoce.
Ma non è solo la prossimità con la storia a rendere affascinanti i prodotti visivi coreani: nella grande lontananza di campo che permane, nonostante il web, tra il nostro e il loro mondo si consuma un piacere genuino di rapportarsi con un’opera originale, come fosse una ventata d’aria fresca. Il fascino esotico è tale da rendere nuovo anche ciò che in fondo non lo è (come si mostrerà più avanti). C’è poi un inevitabile diffrazione ricettiva che coinvolge sia la cultura alta sia quella media, tale da permettere, come nota Simonetti ne La letteratura circostante, che anche un autore come Roberto Bolaño sia letto proprio per il suo fascino esotico. Il titolo stesso è evocativo: lo Squid game, tradotto “gioco del calamaro”, è un gioco tipico per bambini coreano.
Il fattore Netflix
Il regista ha rivelato di essere totalmente esterrefatto del successo di Squid Game: si ritiene invece che Netflix lo sia meno. Lanciare una serie nuova è sempre una scommessa. Nonostante si possano realizzare campagne di marketing sofisticatissime, grazie anche agli odierni mezzi di analisi, capire come il pubblico reagirà non è mai un calcolo algebrico e meccanico. Si possono allora usare altri strumenti: non solo indirizzare al pubblico giusto l’offerta adeguata– a seconda della fascia d’età, l’occupazione, il genere ecc. ecc.-, puoi tu, distributore, creare il “caso” seriale, l’evento, ancora prima che il pubblico lo scelga tra le centinaia forse migliaia di prodotti in piattaforma, e tra le decine di uscite mensili. Su Netflix è stata creata da poco la sezione “Top ten”, diversa per ogni paese (giustamente il palinsesto cambia a seconda della nazione): ogni settimana la lista viene aggiornata in base ai dati di visualizzazione (utenti che l’hanno visto tutta la serie? Una puntata? Su questo Netflix non ha mai chiarito). Ma al netto della trasparenza dei dati, su cui la piattaforma può avere legittimità di riservatezza, all’inverso può colpire quando questi diventano abili stratagemmi per creare “l’evento del momento”. Squid game il 22 settembre, tre giorni dopo il lancio mondiale, era già entrata nella Top Ten aggiudicandosi il primo posto, così da essere la prima serie coreana ad accedere al podio.
Rimane comunque da capire quali prodotti siano indicati per il pubblico medio di Netflix. Senza voler fare un’analisi dettagliata, quanto esposto fin ora sembra sufficiente a delineare un tipo di serie che concorra ad abitare un immaginario globale, una zona franca ospitante parassiti, calamari, ladri, malavitosi, persone ghettizzate e senza patria. Persino gli eroi Marvel scelti da Netflix erano scorretti e ai margini.
Il fattore Battle Royale
La struttura narrativa di Squid game è a prima vista semplice: sei giochi carpiti dal mondo dell’infanzia, alcuni dei quali praticati anche in Occidente (come Un due tre stella), che scandiscono il procedere del racconto. Semplice la struttura, semplici anche le regole. Rispetto al mondo dei bambini però la posta in gioco è tutt’altro che simbolica, non solo perché chi perde muore, ma anche perché ha delle ricadute concrete e sociali.
Un lettore/spettatore avvezzo al mondo manga/anime oppure al fantastico occidentale riconoscerà che la matrice di Squid Game non è certo nuova: Battle Royale, Hunger Games, 3%, Alice in Borderland (queste ultime due sono serie sempre targate Netflix) e a modo suo anche il video gioco Fortnite, sono tutti prodotti nei quali si ritrova la stessa struttura. In contesti diversissimi, fantastici o reali, i personaggi si trovano intrappolati all’interno di ingranaggi, di sfide, nelle quali la vittoria implica la sopravvivenza, la sconfitta la morte.
Contrariamente a quanto si pensi, però, qui il proverbiale homo homini lupus è invertito di segno. Le persone, pur con le loro debolezze, i loro vizi, i loro debiti, nonostante insomma siano imperfette, sono umane, hanno affetti, passioni ma soprattutto sogni, è la gabbia infernale che li opprime a portarli alla degenerazione; e non mi riferisco tanto al gioco: l’inferno quello vero è proprio la società nella quale vivono, atta a mortificare e marginalizzare i deboli e i diversi.
Nessuno vuole perdere, tutti vogliono vincere: è vero. Ma è altrettanto vero che il gioco è truccato, concepito apposta per essere un tritacarne umano. Come si capisce fin dalla prima competizione: per ogni concorrente morto l’ammontare pro-capite aumenta, spingendo i giocatori gli uni contro gli altri. Così è anche in Battle Royale dove per sanare la piaga della disobbedienza giovanile, il governo giapponese decide di creare una competizione, nella quale i ragazzi di una classe scelta a caso dovranno uccidersi a vicenda: solo l’ultimo sopravvissuto potrà tornare a casa ed essere eletto vincitore. Le regole sono semplici, ma il risultato è duplice: creare competizione e conflittualità tra i giocatori e fiaccare eventuali resistenze nelle fasce reiette, dal momento che solo attraverso il battle royale si potrà ottenere il riconoscimento sociale, non essere più parassiti. Questa in fondo è la regola non scritta di ogni gioco che compone Squid Game: la porta che conduce al successo è stretta, una sola, e tanti quanti più saranno i compagni che intorno a te cadranno, tanto maggiore sarà il tuo successo. A fianco all’oligarchia dei ricchi e dei potenti si riproduce così in piccolo l’oligarchia dei vincitori della fame, come in Hunger Games, dove i sopravvissuti ai giochi sono ammessi alla Capitale, luogo simbolo e deputato del lusso e della ricchezza.
Le regole, che apparentemente giustificano il necessario vivere civile, si rivelano invece funzionali alla resistenza di un sistema gerarchico, piramidale, nel quale chi sta sotto è marginalizzato e umiliato, oppure dovrà essere pronto a rischiare tutto nei giochi della fame, nel gioco del calamaro, pur di contare qualcosa. Quello che sorprende, ma alla fine mica tanto, è che le giovani generazioni identificano queste narrazioni, questi prodotti, come costitutivi del loro immaginario. Basta inoltre scorrere di nuovo i titoli per vedere come queste opere vengano dai punti più diversi e sparsi del pianeta (Stati Uniti, Brasile, Corea e Giappone): una galassia di ragazzi che chiede riscatto e una possibilità di fuga da una società e da un mercato del lavoro competitivo, disumanizzante, mortificante per la nostra natura umana che al fondo non è per niente egoista o cattiva, vuole solo il pane. Nulla di meglio allora che creare dei miraggi per confondere e ottundere, sostituire a dei bisogni spontanei desideri falsi e mercificatori. Cosa vorranno invece i personaggi di Squid Game ve lo lascio scoprire vedendo la serie: riusciranno a vincere? Moriranno?
Questi prodotti ci ricordano che tutti giochiamo, non importa se si tratta di vita vera: lo schema è sempre quello; le regole semplici e letali. Marginalizzazione e conflittualità, guerra tra poveri e tra generazioni: il trucco è stato scoperto, ma il gioco continua.
Conclusioni
Ogni volta che esce una nuova serie, film o libro con al centro un personaggio che secondo la doxa sociale è etichettato come negativo, si utilizza subito la massima sempreverde di “fascino del Male”, (variante per “storie che fanno parlare il Male”), salvo poi andare vedere o leggere l’opera e scoprire che le cose non stanno proprio così. Che i malvagi abbiano fascino da vendere su questo non c’è dubbio (la lista è lunga), ma più spesso accade che le intenzioni di sondare il fondo oscuro della nostra anima si fermino a una soglia taciuta. Questo accade anche per le distopie fanta-politiche: in fondo sarebbe anche facile mostrare un mondo senza speranza, uomini totalmente corrotti o bestiali, perdersi nel cuore di tenebra. Tutte queste storie sono percorse da un male sociale apparentemente ineluttabile, ma le percorriamo insieme ai nostri anti-eroi nella speranza che se anche dovessimo perdere – forse meglio così! – troveremo un cuore gentile.
Tutte queste sono storie che provenienti da ogni parte del mondo vanno a comporre un quadro composito di riscatto (lo è anche la Regina degli scacchi in fondo), di parassiti (Squid Game, 3%), fuori legge (La casa di Carta), criminali (Lupin, Suburra, Baby), non scevre anch’esse di aporie e fragilità proprio come la società che denunciano; storie di cui ora Netflix si fa grande promotore e contenitore. E già questa potrebbe essere la prima aporia.
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