La redazione di La letteratura e noi ha appreso con sgomento la notizia della morte di Luca Serianni, grande studioso e soprattutto prezioso interlocutore per il comune impegno nel mondo della scuola e per il modo sempre gentile e fraterno con cui lo esercitava. Distinguendosi tra i suoi colleghi, Serianni si è sempre occupato dell’insegnamento della lingua e della didattica della letteratura con altissima competenza e con straordinaria e continua passione. Potevamo essere d’accordo o in disaccordo con lui, ma lo abbiamo sempre trovato in prima linea e al nostro fianco nel lavoro quotidiano. Passato questo momento di sconcerto per la perdita improvvisa e assurda anche per le circostanze da cui è stata provocata, torneremo sulla sua figura di studioso e sulle sue proposte per la didattica della letteratura. Ma intanto vogliamo esprimere il nostro profondo cordoglio per questa scomparsa che ci rende tutti culturalmente e umanamente più poveri.
La direzione e la redazione di La letteratura e noi
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Caporedattore
Roberto Contu
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G.B. Palumbo Editore
E’ indiscutibile che Luca Serianni sia stato un grande linguista e storico della lingua italiana, nonché “un prezioso interlocutore per il comune impegno nel mondo della scuola”. Tuttavia, questo impegno non sempre si è esercitato in una direzione politicamente e culturalmente progressiva, se è vero, come è vero, che nel periodo del governo Conte-Salvini l’eliminazione del tema di storia dalle prove scritte – una scelta rivelatrice per la sua gravità e unilateralità – fu dovuta proprio al professor Serianni nella sua veste di consulente e collaboratore di quel governo.
“Un adeguato approfondimento delle materie disciplinari nel percorso universitario è indispensabile. Vi confesso di guardare con una certa preoccupazione all’idea ricorrente, oggi più che mai in auge, di deprimere le materie disciplinari a vantaggio dell’area pedagogica. La scuola, a qualsiasi livello, dalle primarie all’università, deve fondarsi su una gerarchia di valori, e deve lasciare al discente il tempo per riflettere su quel che via via apprende, senza comprimere gli spazi necessari per alimentare interessi autonomi.”
Dalla lezione di congedo di Luca Serianni, “Insegnare l’italiano nell’università e nella scuola” (14 giugno 2017).
In realtà, non ha eliminato un bel nulla. Ti prego, non unirti alla (per fortuna) sparuta schiera dei detrattori dell’illustre grande linguista (che per ora vedo rappresentata soprattutto da Paola Mastrocola, stranamente e poco coerentemente contraria all’analisi del testo, e dal filologo Walter Lapini, che ha del tutto frainteso alcune proposte di Serianni sulla didattica del latino), il quale semplicemente intendeva ricondurre anche “il tema di storia” al commento e all’analisi di fonti e testi. Serianni, presiedendo quella commissione, NON HA AFFATTO abolito il tema di storia (non ne avrebbe neppure avuto i poteri), ma ha semplicemente “suggerito” di accogliere tracce di storia all’interno della tipologia B, ossia quella dedicata al testo argomentativo. Perché parlare consapevolmente di storia vuol dire anche saper argomentare. Cfr.
https://www.famigliacristiana.it/articolo/tema-di-maturita-la-paura-del-foglio-bianco-si-supera-cosi.aspx
“Il nuovo tema ha sollevato polemiche riguardo alla cancellazione della precedente prova di argomento storico. Le simulazioni, però, dimostrano che la storia c’è, ma spalmata tra le altre tracce. C’è stato un fraintendimento?
«È una polemica non centrata, perché la storia è uno degli ambiti cui attinge la “tipologia B”, ma anche perché nelle simulazioni, di cui non mi sono occupato ma che hanno realizzato abbastanza fedelmente il nostro progetto, la storia era largamente presente con proposte interessanti, in tutte le tipologie, compresa la letteratura. Ritengo che lo studio della storia vada rafforzato, anche in funzione di questa prova, che la presuppone trasversalmente alle tracce proposte.”.
A ciò va aggiunto che la commissione Serianni non era un organo burocratico incaricato di definire i dettagli operativi della cosiddetta “somministrazione” delle prove d’esame. A ciò erano preposti funzionari e commissioni ministeriali. Quanto al cosiddetto “tema”, se per esso si intende una formulazione di una traccia “secca” (del tipo: “Il candidato analizzi le cause della I guerra mondiale”), non è un male che sia stato non abolito, ma ripensato: a parte la Mastrocola, ci sono ben pochi oggi a essere nostalgici del vecchio tema, che non era solo criticato da “iconoclasti” come Tullio De Mauro, ma anche da Giovanni Gentile e da Giorgio Pasquali, certo non accusabili di appartenere al novero dei novatori sedicenti di sinistra…
Forse in certi ambienti si sono un po’ confuse le posizioni (quelle sì piuttosto iconoclaste) di un altro grande linguista, Tullio De Mauro, con quelle di Serianni. De Mauro sì che perorava l’abolizione tout court del tema, mentre Serianni si limitava a proporre altre forme di scrittura saggistica e a valorizzare anche il riassunto. Forse l’equivoco deriva dal fatto che nei suoi ultimi anni, e soprattutto dopo la morte di De Mauro, Serianni ha avuto una semi-svolta “progressista”, avvicinandosi alquanto alle posizioni dell’illustre collega, quasi a volerne raccogliere l’eredità. Cosa che ho notato anche nel suo atteggiamento riguardante i neologismi e i forestierismi, come direttore di opere lessicografiche (il Dizionario Devoto-Oli): mentre il Serianni di 30 anni fa, da buon allievo del neopurista Arrigo Castellani, non avrebbe mai scritto “editing”, il Serianni recente lo ha sdoganato. Anzi, è arrivato perfino ad includere nel dizionario un termine ibrido come “friendzonare”, che probabilmente in passato avrebbe visto con diffidenza.
Rimane il fatto che, a mio modesto parere, il tema libero non è il migliore strumento di verifica delle capacità di scrittura. Già l’analisi del testo gli è ben superiore.
Sta di fatto che, nella prima prova degli esami di Stato attuali, la traccia di storia è stata eliminata e che a ciò si è giunti anche, se non soprattutto, con l’autorevole avallo del glottologo in parola. Sennonché a chi, come Orlando, sostiene che, comunque, i candidati non potranno prescindere dagli opportuni riferimenti storici nello svolgimento delle tracce corrispondenti alle tre tipologie previste dall’attuale normativa (e segnatamente, egli assicura, nello svolgimento della traccia B), si deve rispondere che per giungere a formulare un siffatto ragionamento occorre essere, sul piano intellettuale e politico, tanto masochisti o tanto acquiescenti quanto dimostrarono di essere quei convitati al pranzo di un ricco signore il quale, a loro danno e scorno, li convinse a mangiare un gatto facendolo passare per una lepre. Del resto, in Italia è ormai diventato arduo, a causa della imperante ipocrisia ideologica, non solo denominare correttamente oggetti ed eventi, ma perfino distinguere la natura, ed eventualmente il sapore, di un gatto dalla natura e dal sapore di una lepre. E tralascio la fallacia logica in cui il mio contraddittore incorre quando asserisce che “parlare consapevolmente di storia significa anche argomentare”: un truismo che rovescia il “thema probandum” generale, relativo alla legittimità didattica e culturale della eliminazione della traccia di storia, in quello particolare della modalità, che ovviamente non può non essere argomentativa, con cui viene introdotto in una trattazione di altra natura un determinato riferimento storico. Va detto allora che procedere di questo passo e in questa direzione significa esporre l’insegnamento della storia al rischio, se non dell’abolizione (come è avvenuto con quello della geografia), di una progressiva riduzione alla polimatia dispersiva e superficiale dei “riferimenti”. Laddove è in gioco tutta la nostra migliore tradizione culturale, i cui capisaldi, a partire da Croce per arrivare a Geymonat, sono costituiti, come tutti dovrebbero sapere, dal rigore logico e dal senso storico.
Inoltre, siccome nel precedente intervento si parla, in rapporto a Luca Serianni, della figura e dell’opera di Tullio De Mauro, mi sia concesso aggiungere qualche osservazione sullo stato catastrofico del rapporto tra la conoscenza della lingua italiana e le nuove generazioni, quale fu segnalato qualche tempo fa da 600 docenti universitari in una lettera aperta indirizzata alle istituzioni, che giustamente occupò un posto di rilievo nelle prime pagine degli organi di comunicazione del nostro paese. La questione sollevata tuttavia non era affatto nuova, poiché esiste da alcuni decenni ed è andata progressivamente aggravandosi negli ultimi anni. La realtà era da tempo sotto gli occhi di tutti, a cominciare da istituzioni prestigiose come l’Accademia della Crusca e da studiosi altrettanto prestigiosi come Tullio De Mauro. Orbene, secondo il mio sommesso avviso, alle une e agli altri va attribuita una qualche responsabilità non solo per la passività e l’acquiescenza dimostrate verso questo preoccupante fenomeno di regressione linguistico-culturale, ma addirittura per l’ottica ottimistica con cui, in certi momenti, hanno invitato a considerare tale fenomeno. Sotto questo profilo, va rammentato uno scritto paradigmatico dello studioso testé citato, dal titolo “Scripta sequentur”, in cui veniva tessuto l’elogio del primato del linguaggio orale sul linguaggio scritto come asse di un’educazione linguistica innovativa… Si è trattato, con tutta evidenza, di una forma di populismo linguistico che, insieme con la rivalutazione del dialetto, l’abolizione del latino e l’enfasi sproporzionata posta sull’inglese, ha spianato oggettivamente la strada alla deriva localista e ‘neo-primitiva’, inficiando una corretta e completa formazione linguistica delle nuove generazioni e determinando le perniciose conseguenze che sono ora oggetto di una denuncia tanto accorata quanto tardiva. D’altra parte, è difficile oggi scorgere nel nostro paese una sensibilità diffusa per questo problema e quindi una capacità di iniziativa che sia all’altezza delle sfide e delle insidie sottese al progetto di ‘snazionalizzazione’ perseguito dall’imperialismo euro-americano. Eppure la necessità di rispondere alle une e alle altre con un’azione energica e multiforme di difesa e valorizzazione della lingua italiana è riconosciuta da studiosi non solo delle discipline umanistiche, ma anche delle cosiddette ‘scienze dure’. Né è mancata l’individuazione del punto archimedico di una politica linguistica che ostacoli l’avvento di un “medioevo prossimo venturo”, in cui la comunicazione corrente sia assegnata al linguaggio tendenzialmente non-proposizionale degli ‘sms’ inviati con i cellulari e la comunicazione culturale al ‘basic english’. Certo, non si tratta di restaurare il purismo lessicale; si tratta però di garantire la centralità e l’efficienza della sintassi, vero sistema osseo di qualsiasi linguaggio, seguendo in ciò gli esempi di una lingua chiara, precisa ed elegante, che ci hanno offerto in questi ultimi decenni scrittori, poeti, saggisti e filosofi come Moravia, Calvino, Fortini e Bobbio, ciascuno dei quali ha mostrato di quali grandi potenzialità e di quale straordinaria versatilità sia dotato il dèmone che ci fa parlare e scrivere. Senza dubbio, come ebbe ad affermare Saverio Vertone in un appello diffuso alcuni anni fa per sostenere e promuovere la lingua italiana, la nostra lingua non è così lessicalmente ricca e duttile come l’inglese, non è così geometrica e apodittica come il francese, non è così produttiva di parole e di concetti come il tedesco, non è così magmatica e melodiosa come il russo; anzi, è una lingua un po’ rigida e non particolarmente ricca di sfumature espressive nella descrizione delle sensazioni, perché è una lingua fortemente controllata dall’intelletto. Tuttavia, se si sa usarlo, l’italiano può diventare espressivo, geometrico, sensuale, nitido, semplice e tagliente come nessun’altra lingua. E si dimostra di saperlo usare quando si rispetta la linearità, che è l’autentico nume tutelare della nostra lingua, la forza che fa di essa, una volta eliminate le ridondanze auliche, i vezzi snobistici e le oscurità burocratiche, una lingua dura, lucida e consequenziale: una spada, non solo un fodero. Pertanto, la fedeltà al genio segreto della nostra lingua e alla sua vocazione profonda e perenne, che è la sintassi, e la consapevolezza che i problemi linguistici sono, nella loro essenza, problemi che coinvolgono il ‘logos’, il ‘pathos’ e l’‘ethos’ (vale a dire il ragionamento, le emozioni e la moralità: quindi, l’agire politico nella sua espressione più alta) debbono essere il lievito di quella rinascita di interesse e di amore per la lingua italiana cui sono chiamate a contribuire tutte le istituzioni e, in particolare, la scuola. Non solo per impedire che, a causa della solidarietà antitetico-polare fra idolatria del globale e idolatria del locale, con la degenerazione della lingua degeneri la vita stessa, ma anche e soprattutto per contribuire, pur in un periodo così folto di spinte regressive, alla difesa e al rilancio dell’identità nazionale, che come trae la sua linfa vitale dalla lezione di Vico, di Croce e di Gramsci, così nella lingua di Dante, di Machiavelli, di Galileo e di Manzoni ha il suo presidio più saldo e il suo stimolo più potente.