A bordo della Fortuna – Sull’ultimo romanzo di Valeria Parrella
La rotta era facile: andare dove nessuno sarebbe andato.
Navigando verso la nuvola ho capito che eravamo rapiti da essa, attratti come dietro un incantamento. La nuvola non era fatta di acqua, faceva piovere, sì: ma pioveva cenere, uguale a quella che resta alla fine della sera nei bracieri.
Quando si attraversa un banco di nubi, si va avanti a sbucare dall’altra parte per vedere la costa, e noi così abbiamo fatto. Ma era la costa che stava venendo verso di noi: il mare si era riempito di pietre e non c’era più pescaggio per le nostre chiglie. Le mappe non corrispondevano più al mondo, e il disegno della terra non assomigliava al mio ricordo. A quel punto i marinai sono impazziti per la paura e non potevamo che tornare indietro. Sotto i nostri scafi non c’era più acqua, dovevo impartire l’ordine, subito.
(Valeria Parrella, La Fortuna, Feltrinelli, 2022, pag.13)
Pompei, 62-79 d.C.
Lucio è nato a Pompei in una notte di terremoto; non vede da un occhio, ma non lo sa fino alle soglie dell’adolescenza; e si stupisce e si turba per non riuscire a fare i giochi e le imprese degli altri ragazzini. Lo racconta lui stesso, divenuto grande, ripercorrendo le tappe di un’infanzia e di un’adolescenza da giovane ricco e d’alto rango: il padre è proconsole di Cirenaica, la madre una malinconica ed elegante matrona; ha una nutrice, Ascla, che gli racconta i miti come fossero storie vere, ha un servo, Orazio, che è forse l’unico che ne comprenda la «stanchezza del figlio unico» (p.50) e il bisogno di trasgressione, ha un precettore, Alessandro, che è stato amministratore delle finanze a Smirne, ha compagni di giochi altolocati quanto lui con i quali trascorre momenti memorabili, nel bene e nel male – una notte brava senza dormire, con la bella Lavinia a cui dà i primi baci, la nuotata in spiaggia che gli sta per costare la vita e gli rivela il suo difetto visivo, l’impiccagione di un giovane schiavo, i giochi dei gladiatori… A cambiargli la vita, che sembra segnata, come si addice alla sua nascita, da un destino da senatore, è l’incontro quasi casuale con Cassio, un amico del padre, un armatore, proprietario di importanti cantieri navali; uno che ha «un mucchio di soldi e nessun prestigio» (p.45), a suo stesso dire: il padre di Lucio è l’unico fra i notabili che gli accordi confidenza. È lui che fa conoscere a Lucio le navi, il mare e il migliore fra i suoi comandanti: un marinaio divenuto cieco. Da quel momento per il ragazzo non c’è altra aspirazione che diventare comandante di una nave. Ma nessuno lo prende sul serio: il figlio di un proconsole, uno fra i «pochi ragazzi che partono dalla provincia e vanno a cena con l’Augusto» (p.45), cioè con l’imperatore in persona, non può pensare davvero di diventare soltanto il comandante di una nave. E infatti Lucio viene mandato a studiare nella Capitale, affidato, nel suo viaggio da Miseno ad Ostia e da Ostia fino a Roma, nientemeno che al prefetto della flotta, Plinio, in fama di comandante esperto ma soprattutto di profondissimo e raffinato studioso. Con lui, chino sui rotoli sino a notte fonda, alla vigilia del viaggio che lo porta per la prima volta lontano da Pompei, Lucio ha un breve dialogo, folgorante, prima di addormentarsi:
“Ho una domanda.”
“Dimmi.”
“Ma tu hai studiato per diventare ammiraglio?”
“No, io ho studiato per sapere le cose.”
“E perché sei diventato ammiraglio?”
“Perché sapevo le cose.” (p.67)
È la rivelazione: «se a un uomo così immerso nelle lettere avevano affidato un’intera flotta, a me che non avevo voglia di imparare neppure la centesima parte di quello che sapeva lui, almeno una triremi prima o poi me l’avrebbero passata» (p.72), pensa Lucio; e intanto, una volta a Roma, è accolto – facile a dirsi, considerato il suo rango – nella scuola del grande retore Quintiliano, dove ha modo di incontrare Marziale e dove ha per compagno di studi Secondo: è il nipote di Plinio, il figlio di sua sorella. È rimasto orfano di padre, lo zio l’ha adottato. I due ragazzi sono diversissimi: Secondo (ovvero Plinio il Giovane) è meticoloso, studioso, analitico; Lucio è irrequieto, curioso e abbastanza svogliato. Eppure i due si legano di intensa amicizia e la familiarità con la casa di Plinio il Vecchio diventa tale che una sera Lucio si ritrova a cena insieme a lui con Tito, in procinto di divenire imperatore (Vespasiano morirà di lì a poco). Ma Tito è «un uomo speciale », uno di quegli adulti che conservano dentro «un nucleo duro di giovinezza» (p.88). A lui il ragazzo confida di amare il mare. «Se la panca della scuola avesse una vela, risalirebbe il Tevere, questo qui» – aggiunge Plinio (p.89). E Tito – quasi un deus ex machina – decide la sorte di Lucio:
Con queste risposte saresti un perfetto senatore, che peccato. Da Quintiliano hai imparato abbastanza, mi sa. Tuo padre deciderà per te. Però io sono circondato di persone che vogliono sempre più di quello che hanno e di quello che di cui sono capaci: cattivi amministratori, cattivi governanti, cattivi uomini. E mi commuove incontrare un giovane uomo che sa quello che vuole, e quello che vuole è meno di quello che potremmo offrirgli (…) Facciamolo provare, mandiamolo a Miseno, se poi non va bene, nessuno gli toglierà quello che gli spetta per nascita. (pp.90-91)
È il 79: Lucio è con Plinio quando il Vesuvio esplode nella terribile eruzione che sommergerà Pompei. A Lucio Plinio affida l’ammiraglia, la Fortuna, prima di scendere a terra, nel tentativo di prestare soccorso, e di capire. Il resto sono i capelli di Lucio, «improvvisamente bianchi come quelli di un vecchio» (p.132), e il suo racconto doloroso, malinconico, delicato, gentile.
Il filo di Lachesi
È il racconto di un giovane uomo che ha scelto il mare, sfidando un limite fisico – non ci vede da un occhio – e un paradossale limite sociale – per nascita gli toccherebbe una carriera da senatore. Ma «un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò è niente» (p.50), gli suggerisce Plinio, e Lucio decide di tenere in mano il filo di Lachesi, la Parca di mezzo:
Credo che l’unica Parca con cui si possa avere a che fare sia quella di mezzo. Certo, quella che mi aveva iniziato la vita l’aveva dovuta cavar via dalla terra tremante, e quella che reciderà il filo… ma a quell’epoca, chi ci pensava? Io alla morte non ci pensavo mai, anche se tutto l’insegnamento della filosofia e ogni statua del foro stava messa lì solo per questo. Ma a me interessava avere a che fare con la Parca di mezzo, quella che tesseva per mio conto il filo. E c’è stato un momento in cui io ho capito che non la si poteva lasciar fare e che bisognava adoperarsi (p.33).
Ma prendere in mano il filo della propria vita non significa esclusivamente conquistare un ruolo, diventare comandante di una flotta anziché senatore; o genericamente diventare qualcuno. Quello significa soltanto mettersi su una traiettoria piuttosto che su un’altra. Scegliere Lachesi significa invece mettersi in prospettiva e riformulare gli strumenti di ricognizione degli oggetti, delle persone, degli eventi. Su una traiettoria definita, il parametro che seleziona uomini e cose è l’opportunismo; in prospettiva, ogni incontro assume invece profondità e, nel disegno complessivo di un’esistenza, imprime il proprio tratto opportuno. Questo vale per gli eventi consegnati alla memoria collettiva della macrostoria, così come vale per le microstorie degli uomini e delle donne comuni. L’età dei Flavi non è solo il fondale utile a consentire l’ambientazione a Pompei nel fatidico 79 d.C.: è un segmento difficile della storia imperiale, in cui l’urgenza (spesso intransigenza) del ritorno all’ordine dopo le derive neroniane (e non solo) si coniuga con le movenze trasgressive che attraversavano, davvero come scosse di terremoto, un territorio divenuto troppo grande da gestire e tenere insieme e in pace. Un’epoca che ha bisogno ugualmente della retorica composta di Quintiliano e dei versi obsceni di Marziale; così Lucio racconta l’incontro col poeta degli epigrammi:
Io lo trovavo spassoso e fu l’unico a parlarmi sinceramente: sollevò tra le mani i miei versi tenendoli con due dita come una toga sporca e chiese a Quintiliano:
“Ma che ci viene a fare a scuola questo qui?”
Poi me li fece cadere sulle ginocchia.
“Non ce l’hai un padre potente che ti faccia far carriera invece di questa merda?”
“Eh, purtroppo sì, maestro, ma mio padre crede che per far carriera questa merda serva.”
Dopo la lezione mi prese sotto braccio e mi portò a passeggiare nel portico:
“La merda serve per la merda, e la carriera per la carriera. Non è difficile, basta non confonderle. Ma tu non vuoi fare né la merda, né la carriera, che cosa vuoi fare?”
“Andar per mare, stare con l’orecchio teso e aspettare che soffi.”
“Questo è un bel verso. E tu sei troppo nobile per fare la vita che desideri.”
“Senti, maestro: io lo sto tenendo il filo della Parca, non gliel’ho ancora consegnato.”“E quale Parca?”
“Quella di mezzo.”
“Lachesi. Che fa?”
“Lei fila. Io sto cercando di capire che succede.” (p.74)
Lachesi fila e Lucio cerca di capire che succede: ogni incontro è buono dunque per capirci qualcosa e c’è in lui una straordinaria inclinazione ad apprendere, una sorta di radar interiore che gli consente di intercettare con esattezza le parole, gli oggetti, i volti, i gesti, i luoghi, le situazioni, le sensazioni che faranno il suo baule da viaggio, e che gli saranno preziosi, nella notte fatale e nella vita:
A questo serviva quel magazzino di vite altrui che Quintiliano ci ha lasciato in dote: a orientarci quando non si vedono le stelle, come stasera. (p.113)
Per questo, accanto ai maestri riconosciuti (il precettore, il grande retore, il poeta), altri e altre diventano maestri d’elezione: in testa a tutti Plinio il Vecchio, ma anche il marinaio cieco, il timoniere Porzio, la nutrice Ascla, e ancora Aulo, l’amante scaltro e ingenuo, e ancora il servo Orazio che lo conduce per la prima volta al lupanare, alla vigilia della partenza per la Capitale. Lucio impara più da loro che dalla prestigiosa scuola esclusiva dove l’ha iscritto il padre (e a noi piace sentire tra le righe una carezza alle nostre scuole, che esclusive non sono, ma sempre e orgogliosamente “sotto i portici”, aperte a tutti coloro che semplicemente vogliano imparare):
Perché la scuola dove andavamo non era come quella all’aperto sotto il portico della palestra che frequentavano gli altri. Era una specie di allenamento a essere più veloci degli altri, più scaltri degli altri, saperla più lunga non per saperla e basta, come avevo creduto fosse la natura del sapere dalle lezioni di Alessandro e dalle favole di mia madre, no no: era più simile alla truffa ai dadi di Orazio o al tirar sui prezzi di Ascla con i venditori. Quintiliano era un retore raffinatissimo e una persona perbene, non era sua intenzione scatenare tutto questo, ma intanto la sua scuola era diventata tutto questo, perché da lì uscivano uomini che avrebbero avuto incarichi a ogni angolo dell’impero, e quindi, nonostante non interessasse neppure a lui la competizione, e anzi fosse aborrita fra i suoi insegnamenti, di fatto a scuola si faceva a gara. (p.71)
Verba manent
«Restavo indietro perché mi incuriosiva tutto» – Lucio dice di sé, girando per il porto di Miseno (pp.65-66). E di questa inestinguibile curiosità sembra portare i segni anche la sintassi del suo racconto, con i periodi che procedono come se non fossero mai definitivi, e cercassero sempre un completamento in un dettaglio nuovo, e ancora in un altro dettaglio, da aggiungersi ancora a un altro; come chi alla chiglia di una nave aggiunga via via fasciami alternati, e la deriva, e le tavole del ponte fino al rostro. Lo spiega assai bene lo stesso Lucio:
Quando Quintiliano ci spiegava come costruire in ordine un discorso ci diceva che per funzionare deve essere come il corpo umano: non possiamo dimenticare la gamba o il collo. Allora noi sceglievamo le cose che ci piacevano di più o quelle che sapevamo meglio. Secondo lo erigeva come la villa di famiglia, dalle fondamenta al tetto. Invece io immaginavo la mia nave.
L’esordio era la chiglia, con il fasciame interno di serrettoni e serrette alternati.
Per la narrazione costruivo una buona deriva accresciuta.
Al momento dell’argomentazione poggiavo le tavole del ponte e le inchiodavo sui bagli.
E per la conclusione ci aggiungevo un rostro.
Aveva ragione marco Fabio Quintiliano? Aveva ragione Secondo? Io?
Non mi pare: le navi affondano, i palazzi crollano e gli uomini muoiono.
Vivono solo gli dei e ciò che gli assomiglia:
quando abbiamo riso per una sciocchezza. cercare la sua schiena nella notte. quella bracciata che mi fa tutt’uno con il mare. il momento in cui mia madre poggiò la sua mano sulla mia, guardando lontano oltre il davanzale. essere uomo e cavallo nel galoppo. la lama del primo gladio che mi fu regalato. e tu, lenta ginestra. (pp.72-73)
Di questa sintassi, che docilmente risponde all’andare curioso e inquieto di Lucio, costituiscono puntelli e viti le parole del dizionario speciale che Parrella ha regalato al suo personaggio (e a noi). I limiti imposti dalla verisimiglianza impediscono l’uso di vocaboli che afferiscono a un immaginario moderno o comunque datato, cosa che risulta particolarmente evidente per tutti quei termini che oggi usiamo comunemente per la rappresentazione del visivo, per noi fortemente condizionata (forse anche viziata) da tutto quello che è stato acquisito nel campo dell’ottica, dall’uso degli occhiali fino alla fotografia, al cinema, all’animazione digitale. Ma, al di là di questa necessaria (benché non scontata) accortezza, il dizionario di Lucio incanta anche perché include tanti termini legati a una oggettualità antica (e in particolare a una marineria antica) che lavora lungo tutta la narrazione come un insistente, malinconico richiamo, un invito sommesso a non perdere la memoria dei nomi solo perché di quei nomi si sono persi i referenti, per conservare così, attraverso il ricordo dei nomi, almeno un sentore delle emozioni e dei significati emanati da un mondo che non vive più. A meno di non essere dei o ciò che gli assomiglia; come la lenta ginestra e come tutte le voci importanti (Leopardi, certamente, ma pure Conrad, Pavese, Sontag e forse anche Ortese e Morante, accanto a Plinio, Marziale, Stazio, Svetonio, Apuleio) che Valeria Parrella libera leggere come da un suo personalissimo e originale otre dei venti.
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