Pentagramma di un canto: recensione a Lampo all’alba di Lea Goldberg
Fra tutti i miei torti forse
della gioia il Signore mi chiederà conto
il giorno del giudizio. Niente avrò da dire.
Gratuita mi fu donata (Era mirabile, I)
La recente pubblicazione di Lampo all’alba, raccolta della poetessa israeliana Lea Goldberg edita da Giuntina con la curatela e la traduzione dall’ebraico di Paola Messori, colma un vuoto di conoscenza rispetto alla voce, ora profonda e struggente, ora suadente e gioiosa, di questa autrice. Nata in Lituania nel 1911 impara, oltre al russo, il tedesco grazie alla madre; ma sarà la scoperta della cultura ebraica fatta a scuola – dalle Sacre Scritture alle poesie di Abraham Shlonsky – a diventare il “cerchio magico” – come lei stessa lo definisce – dal quale non potrà e non vorrà più uscire. Formatasi all’Università di Berlino, nel 1935 si trasferisce, suo malgrado, in Palestina-Eretz Yiśrael: ”Mi sento un po’ come lo schiavo che tale vuole rimanere e rifiuta la libertà dicendo ‘Amo il mio padrone, mia moglie, mio figlio’”, aveva infatti affermato due anni prima rimandando l’aliyà, termine con il quale si indica la scelta di un ebreo di tornare in Etretz Ysrael (p. 199). Così dal gennaio del ’35 Goldberg porterà sempre, nella sua poesia, due patrie. Ne è testimone il senso di duplice appartenenza espressa nella poesia Pino, la prima del trittico dedicato agli alberi, dove la pianta svetta nella terra della salvezza e le ricorda – intermittenza del cuore – “la voce del cuculo”, “un turbante di neve”:
Gli uccelli migratori sono forse i soli a sapere –
Fra cieli e terra sospesi –
Questo dolore che è avere due patrie.
.
Con voi due volte fui messa a dimora,
con voi, pini, sono cresciuta,
le mie radici in due paesaggi lontani. (p.70)
Vivere sospesa tra due culture e due mondi, entrambi vividamente interiorizzati, rende la poesia di Goldberg suggestiva, ricca di echi e di sfumature e al contempo rigorosa, frutto di un impianto compositivo che ha radici ben piantate nella stagione giovanile degli studi e nel continuo confronto con i poeti del circolo di “Yachdav” che conosce in Palestina e con i quali il dialogo sarà incessante e proficuo.
La raccolta italiana – frutto di una selezione delle poesie apparse in volume nel 1955 con il titolo Baraq baBoqer – comprende 79 liriche: un semplice sguardo all’indice permette di intuire come Goldberg ami radunare i suoi testi prevalentemente per trittici titolati ( “Ricordo di tre strade”, “Natura morta”, “Il coccio di creta”, “Per i miracoli”, “Visioni cittadine”, “Alberi”, “Poemetti”, “Canti sulla strada che volge alla fine”, “Frammenti di epigrafi”, “Dai canti dell’amata mia terra”) e, in misura minore, per dittici (“Al confine della luce”,” Sulla costa di Eilat”, “Vent’anni dopo”, “Canti d’amore”, “Era mirabile”). Ci sono poi alcune sezioni più ampie di testi poetici (“Incubi”, “Ferite d’amore”, “A proposito di quattro figli”) tra le quali spicca il canzoniere di ascendenza petrarchesca “L’amore di Teresa de Meung”, composto da dodici sonetti. Altre quattordici poesie autonome e dotate di un loro titolo completano l’opera.
La propensione di Goldberg ad agglutinare i suoi testi per piccole sezioni tripartite o bipartite restituisce al lettore squarci di vita e di pensiero che intrecciano storia personale e collettiva. Si pensi alle tre liriche essenziali e attonite del “Coccio di pietra” – correlativo oggettivo dello stato d’animo della poetessa alla morte inaspettata di Avraham Ben Yitzchak – che fissano lo sbigottimento della donna e il senso di perdita. Straziante ma composta è la voce che si accampa nella chiusa della seconda poesia del ciclo, nella quale spicca l’inchino alla “intelligenza impietosa” del poeta ebreo tedesco che per anni la donna ha amato in una relazione complessa (ben ricostruita nella postfazione di Giddon Ticotsky, cui si rimanda per un quadro complessivo sull’autrice e sulla sua opera):
Io sola, in spaventosa memoria,
labbra tremanti poserò su una mano fredda
e davanti a una intelligenza impietosa,
offrendo il collo al giogo, mi inchinerò. (p. 40)
Tuttavia, come si anticipava, oltre ai momenti personali e intimi, la poesia di Goldberg intercetta passaggi storici cruciali per i destini collettivi: dall’annientamento del popolo ebraico alla nascita dello stato di Israele, quest’ultimo ricordato in particolare nella poesia di apertura – “Lampo sul far del mattino” – e nel dittico che segue “Al confine della luce”. La perentorietà del tono di “Lampo sul far del mattino” (“Così nasce il giorno. Inizia il suo vivere / in luce bellicosa, con spada a due tagli”) si stempera nella domanda ripetuta identica nella chiusa, più incerta, degli altri due testi: “torneremo, fratello, / passeremo di là?”. Come ritiene Ticotsky le “domande con le quali si chiudono le poesie di questo ciclo […] alludono inevitabilmente alle questioni di capitale importanza che impegnarono la poetessa e altri intellettuali al sorgere dello Stato – in merito alla sua identità culturale, al suo posto fra i popoli e in generale a tutto quanto attiene all’identità ebraica dopo la Shoah.” (p.224)
Dal punto di vista ritmico, spesso i versi di Goldberg assumono un andamento salmodiante che, pur richiamando il senso di candore e di spontaneità tipico della tradizione popolare ebraica, non esclude l’espressione della complessità dell’uomo contemporaneo:
Qui, l’imperativo della luce: non chiudere gli occhi.
Nell’ambito di misure e rapporti
Qui, ogni movimento è pesato sulla bilancia
Secondo la legge crudele del paese dei non dormienti.
.
Qui, mai due diverranno una cosa sola,
qui, invalicabili sono fissati i confini
fra corpo e corpo, fra terra e cieli,
fra luce e ombra, fra pietra e uccello.
.
Qui, la sentenza è una bandiera issata,
e fra noi due la sentenza di divorzio è una spada.
Sotto una simile luce non s’innalza il miracolo.
Pieghiamo il capo e aspettiamo la sera. (p.60)
L’anafora, le iterazioni e le espressioni che implicano una negazione danno vita a una poesia epigrammatica, dettata da un’istanza razionale e, in qualche misura, didascalica: il tono è perentorio per una consapevolezza dettata dalla logica delle cose e del mondo, una logica che non conosce scampo, miracolo.
Tuttavia vi sono anche casi in cui questa concatenazione apparentemente ferrea viene ribaltata come quando – nella sezione “Visioni cittadine” – la comparsa di un orto in città, tra “metalliche forme e apatia di cemento”, tra soffocanti geometrie restituisce una possibilità alla vita, suggerisce una promessa, si fa “pentagramma di un canto”:
All’ombra di metalliche forme e apatia di cemento
Fra quadrati di case e triangoli di tetti
È un piccolo tratto di terra abbandonato
Tra la frescura di un viluppo di viti.
.
Nella luce di lievi lacrime di rugiada
Scorrono dai cieli azzurri luci di sorriso
E nell’usuale quiete domestica
La semplicità degli ortaggi nelle prode.
.
Come brandello di ricordo caduto
Da un’altra epoca è questo orto nel tempo
Urbano, stretto tra angustie quotidiane –
.
Come se qualcuno, fra gli esercizi
Di conti e geometria, avessi in chiara
Scrittura annotato il pentagramma di un canto. (p. 64)
Il vertice della raccolta e, in un certo senso dell’intera produzione poetica di Goldberg, nonché compendio delle sue caratteristiche strutturali più significative è senz’altro la sezione titolata ”L’amore di Teresa de Meung”. Si tratta di dodici sonetti composti sul modello di Petrarca, poeta che lei stessa ha studiato e tradotto in ebraico all’inizio degli anni Cinquanta. Durante un soggiorno a Londra in cui si è dedicata al petrarchismo europeo, si è imbattuta nella vicenda di questa poetessa provenzale del Cinquecento che scrisse una cinquantina di sonetti suscitati dalla passione amorosa per il giovane precettore italiano dei suoi due figli. Quando il giovane tornò in Italia, Teresa bruciò le sue poesie, che risultano per sempre perdute. Goldberg ridà voce alla donna, da una parte reinventando di sana pianta il suo canzoniere amoroso e, dall’altra, abbattendo “le barriere fra il sonetto e l’elemento popolare biblico” (p. 236):
VIII
Fili vibranti di pioggia come corde di violino
appese alla finestra. Accendi, amico, il fuoco
nel camino: fra luce e luce sediamo
riflessi ombrati fra noi giocheranno.
.
Ti si addice lo sfondo grigio d’un giorno
piovoso. Seduce la giovinezza dei neri tuoi capelli
nel doppio riverbero di autunno e di fiamma –
in me il cuore arde, la ragione è ghiaccio.
.
Quanto mi era dolce questa finzione:
il mio desiderio celare e il tuo candore
irretire nell’incanto d’una materna dedizione.
.
E non un sospetto la tua fronte
Rannuvolava che qui fra scintille turbinanti
Un’ora d’amore rubavo come ricordo. (p. 110)
La lirica – che riprende al v. 8 l’antitesi petrarchesca del sonetto 134 “.. et ardo, et son un ghiaccio” (v.2) mostra assai chiaramente gli intenti che Goldberg intende raggiungere in questo canzoniere e di cui parla a distanza di circa dieci anni in una registrazione radiofonica:
“[…] questa donna cinquecentesca, col suo amore disperato, la sua sofferenza silenziosa e i suoi sonetti bruciati, mi riusciva più vera e viva di tante persone rinomate di quell’epoca. […] E così i sonetti di Teresa li ho scritti io. Mi piaceva metterla in questa doppia luce del Cinquecento e del Novecento. Mi piaceva sperimentare la forma del sonetto dando a questo un senso moderno. E descrivendo il paesaggio tentavo di mischiare i mandorli e gli ulivi di Provenza con questi che avevo qui sotto gli occhi a Gerusalemme. […] Adesso, dove finisce lei e dove comincio io, non lo so.”
Tornano in queste parole, e sembrano trovare ricomposizione, le due patrie, le due anime e le due culture di Lea Goldberg: ebrea russa trapiantata in Palestina, ha ricomposto la vivida memoria della neve e delle bufere lituane con il calore del clima mediorientale, ha coniugato l’amore per la letteratura europea con quello per la lingua e la cultura ebraica. Sospesa tra poesia popolare e colta, tra cultura antica e moderna, la sua poesia restituisce tutte le sfumature dell’animo umano e, così come sa consegnare le emozioni della perdita e del lutto, così sa esprimere tutta la gratitudine per la rara gioia che è dato all’uomo di provare su questa terra.
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