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diretto da Romano Luperini

Soft skills /1. Character skills: un disegno di legge innovativo e salvifico. O no?

L’articolo è apparso il 22 gennaio 2022 su Scuola e Amministrazione. Mensile di cultura e informazione per DS, DSGA e Docenti, dove può essere visionato qui. Si ringraziano la direttrice della rivista e l’autrice dell’articolo per averne consentito la riproduzione.

Un voto quasi unanime

L’11 gennaio scorso è stato approvato alla Camera il disegno di legge relativo alla “Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche e dei centri provinciali per l’istruzione degli adulti, nonché nei percorsi di istruzione e formazione professionale”.

All’art. 1, comma 1, il ddl afferma che il Ministero dell’istruzione, dall’a.s. 2022/20023 “favorisce lo sviluppo delle competenze non cognitive (…)”, al fine “di promuovere la cultura della competenza, di integrare i saperi disciplinari e le relative abilità fondamentali e di migliorare il successo formativo prevenendo analfabetismi funzionali, povertà educativa e dispersione scolastica”.

Una legge dunque che mira a prevenire, attraverso la promessa di un successo formativo allargato, problemi complessi che da decenni il Paese non riesce a debellare. Gli obiettivi dichiarati sono di estrema rilevanza culturale e sociale. Chi potrebbe non essere d’accordo? E infatti, nel firmare il disegno di legge, i rappresentanti dei partiti sono stati quasi tutti d’accordo.

Gli articoli 2 e 3 annunciano un triennale piano straordinario di formazione dei docenti ed una triennale sperimentazione nazionale (ai sensi del DPR 275/99) che, a partire dall’anno scolastico 2022/2023 e per un triennio, sarà finalizzata allo sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi scolastici.  Formazione e sperimentazione si realizzeranno attraverso una collaborazione tra Ministero, Indire, Università, Istituzioni scolastiche, Enti accreditati. Un’operazione importante, insomma.

Le motivazioni che hanno spinto all’approvazione del disegno di legge (come si ricava dalle dichiarazioni di voto) sembrano riguardare la diffusa convinzione che lo sviluppo di competenze non cognitive nella didattica rappresenti un antidoto a tutti i mali della scuola italiana (anche quelli presunti, come appare da alcune dichiarazioni di voto): pare che il nostro sistema d’istruzione, per ammodernarsi, debba abbandonare la centralità delle conoscenze e delle competenze cognitive, e introdurre – dice ad esempio Valentina Aprea – “una discontinuità con il modo di apprendere e di valutare nella scuola italiana”. E continua l’on. Aprea: Affinché il sistema educativo possa essere volano delle economie innovative e creative, per poter consentire crescita, sviluppo e risoluzione dei problemi del nostro tempo con una prospettiva originale e diversa, occorre modernizzare il sistema educativo (…). Con il PNRR e la legge di bilancio non dobbiamo, dunque, limitarci a mettere risorse in un sistema superato, che si dimostra inadeguato ai nuovi bisogni formativi e inefficiente nella competizione globale, ma occorre investire sulle nuove competenze del ventunesimo secolo”.

Mi limito a riportare in grassetto senza commentare, lasciando al lettore tutte le possibili considerazioni e domande sul senso delle parole e sulle visioni che se ne ricavano.

Le dichiarazioni di Valentina Aprea, comunque, qui riportate solo per offrire frammenti delle motivazioni dichiarate, non sono le sole a contenere affermazioni “interessanti”.

Se il disegno di legge verrà approvato anche in Senato, partirà insomma un’operazione rilevante, resa possibile da recenti pubblicazioni di professori di economia e di statistica (come vedremo tra poco) e dall’arrivo dei provvidenziali fondi del Pnrr.

Le finalità della scuola pubblica tra cognitivo e non cognitivo

Superata la ideologica querelle tra scuola dell’educazione e scuola dell’istruzione, dalla fine degli anni 70 in poi i documenti e i programmi via via elaborati per i diversi ordini e indirizzi hanno definito i tratti di una scuola pubblica che persegue come finalità generale lo sviluppo armonico e integrale della persona, all’interno dei principi della Costituzione italiana e della tradizione culturale europea, nella promozione della conoscenza e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali …” (Indicazioni per il curricolo nella scuola del primo ciclo D.M. 254 2012).

Una scuola che, nei diversi ordini, risponde a paradigmi psicopedagogici in parte nuovi rispetto al passato e non ancora diffusamente interpretati, ma chiari: centralità dell’allievo che apprende, integralità della persona, integrazione dei saperi, orientamento e autorientamento, sviluppo di competenze e di cittadinanze. All’interno dei nuovi paradigmi, le discipline hanno un ruolo fondamentale, e con esse le relative abilità cognitive, specifiche o trasversali: il bisogno di conoscenze degli studenti infatti “si soddisfa solo con il pieno dominio dei singoli ambiti disciplinari e, contemporaneamente, con l’elaborazione delle loro molteplici connessioni” (Indicazioni 2012).

Al di là del ruolo centrale delle discipline, i principi della integralità della persona, dell’apprendimento come processo globale e dello sviluppo di cittadinanze, nel tempo hanno fatto sì che di competenze non cognitive le norme e le carte scolastiche siano piene da decenni.

Basti pensare alle declinazioni che nel tempo sono state date delle competenze chiave di cittadinanza, oggetto fin dal 2006 di diverse raccomandazioni del Parlamento europeo e comprensive di abilità palesemente non cognitive come la partecipazione, la collaborazione, l’azione autonoma e responsabile, la imprenditorialità…

Basti pensare alla letteratura, molto nota nel mondo della scuola, sul cooperative learning e sulle relative abilità sociali: relazionalità e interdipendenza, cooperazione per il conseguimento di obiettivi comuni, interazione efficace tra i membri di un gruppo, gestione di diversi tipi di leadership, negoziazione e soluzione costruttiva dei conflitti, processi decisionali…

Basti pensare alle indicazioni nazionali relative alle pratiche valutative, che segnalano la necessità non solo di valutare i prodotti realizzati dagli allievi, ma di osservare le modalità con cui ciascun allievo affronta il compito (autonomia, iniziativa, modalità di utilizzo delle risorse, divergenza progettuale e operativa, collaboratività…) e di stimolare la consapevolezza di ciascun allievo su caratteristiche, errori e modalità di svolgimento del compito.

Basti pensare al modello di certificazione delle competenze nella scuola del primo ciclo, che come indicatori/descrittori utilizza formule palesemente riferite alla sfera non cognitiva dello studente: dimostra originalità e spirito di iniziativa – si assume le proprie responsabilità – chiede aiuto quando si trova in difficoltà e sa fornire aiuto a chi lo chiede – è disposto ad analizzare se stesso e a misurarsi con le novità e gli imprevisti – ha consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti – orienta le proprie scelte in modo consapevole – si impegna per portare a compimento il lavoro iniziato da solo o insieme ad altri – rispetta le regole condivise – collabora con gli altri per la costruzione del bene comune.

La scuola è dunque consapevole, da molto tempo, del suo compito rispetto a soft skills o life skills che, indicate dalla letteratura psicopedagogica e da raccomandazioni europee, coinvolgono la sfera relazionale, emozionale, metacognitiva dello studente, incidendo sul complesso processo di apprendimento. Sono competenze di rilevanza personale e sociale e vanno perseguite come obiettivi in quanto coerenti con il fine della scuola pubblica, la formazione dell’uomo e del cittadino.

“Nuove” competenze non cognitive

Cosa c’è dunque di diverso nelle competenze non cognitive che, auspicate e promosse da accademici di economia e di statistica, la nuova legge vorrebbe inserire nel curricolo?

Illustrarne il significato in maniera non generica (ammesso che ne fossimo capaci) ci imporrebbe di entrare nel campo della psicologia della personalità, che non è di nostra competenza. Ci atterremo dunque ad informazioni essenziali.

Le moderne character skills sono state recentemente introdotte nel nostro lessico e nella nostra cultura dal volume “Formazione e valutazione del capitale umano – L’importanza del character skills nell’apprendimento scolastico”, di James Heckman (premio Nobel per l’economia nel 2000) e Tim Kautz. Lo studio contenuto nel volume, edito da Il Mulino nel 2017, è stato diffuso in Italia soprattutto dal prof. Giorgio Vittadini, ordinario di Statistica presso l’Università di Milano, padre della Fondazione per la Sussidiarietà, autore di una corposa introduzione allo stesso volume di Heckman e Kautz e coautore del volume Viaggio nelle character skills. Persone, relazioni, valori (Chiosso, Poggi e Vittadini, Il Mulino 2021).

Le character skills sono abilità legate al carattere della persona, ad aspetti emotivi e psicosociali della personalità, quali laflessibilità, la estroversione, la creatività, l’apertura mentale, la interazione, la stabilità emotiva, … Sono abilità che non processano le informazioni, ma incidono fortemente sul modo d’essere della persona, sulle sue scelte, sulla rappresentazione della persona a se stessa e agli altri.

Perché allora nascono tante domande?

Punti di vista diversi: nella scuola, l’egemonia del cognitivo ci sta bene

Le consuete soft skills, cognitive o non cognitive, come abbiamo più volte sostenuto, costituiscono obiettivi coerenti con la funzione della scuola pubblica o ne sono strumento.

Le possiamo sviluppare attraverso gli insegnamenti disciplinari in opportuni ambienti di apprendimento e attraverso opportune metodologie didattiche. Ne possiamo verificare l’acquisizione durante le prove di competenza o nelle situazioni di realtà. Ne possiamo individuare e condividere descrittori osservabili e valutabili. Con le “vecchie” soft skills ci muoviamo, cioè, entro gli orizzonti pedagogici che racchiudono il senso e la vita della scuola.

La ricerca di Heckman sulle character skills nasce invece come studio dell’evoluzione del capitale umano in rapporto ai cambiamenti del mondo produttivo. È interessata dunque, almeno inizialmente, a quell’insieme di abilità, conoscenze e competenze che determinano la qualità di una prestazione lavorativa concorrendo ad aumentare la produttività e la qualità di un’impresa e le risorse personali del soggetto.

Parlare con cognizione di causa di character skills imporrebbe di entrare nel mondo psicologico delle teorie sulla personalità, degli studi sui tratti, della differenza tra temperamento e carattere, del dibattito su quali elementi siano di origine genetica e quali derivino dal rapporto dell’individuo con l’ambiente, e quindi quali siano immodificabili e quali invece possano essere intenzionalmente sviluppati.

La tassonomia utilizzata da Heckman per classificare le character skills, cui Vittadini fa riferimento, è la tassonomia dei Big Five, secondo la quale i tratti di personalità sono raggruppabili in cinque grandi dimensioni: estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale (Lewis Goldberg, 1993). Non è difficile comprendere che queste cinque dimensioni della personalità individuale influenzano l’efficacia e la produttività nel lavoro: infatti la teoria dei Big Five è spesso adoperata, attraverso uno specifico questionario che è anch’esso oggetto di studi scientifici, per la valutazione della personalità nei contesti organizzativi.

In una intervista del maggio scorso sulla rivista del Terzo Settore vita.it Giorgio Vittadini spiega che “Le character skills (…) sono sempre più cruciali in una società complessa come la nostra. Sono, infatti, caratteristiche della personalità che riguardano la sfera emotiva e psico-sociale. Sono tratti che influenzano la capacità di orientarsi verso gli obiettivi scelti, la qualità delle relazioni e la capacità di prendere decisioni e far fronte alla realtà. Sono quindi parte integrante di un processo di apprendimento costante, continuo”.

Nella stessa intervista Vittadini auspica, nella scuola, un superamento della egemonia del cognitivo, ed una integrazione delle character skills con un “cognitivo” che dovrebbe consistere nelle abilità fondamentali del leggere, scrivere, far di conto, saper usare l’informatica e la lingua inglese.

È da tempo che le gravi carenze culturali dei nostri studenti, da più parti denunciate, vengono imputate da psicologi, filosofi, insegnanti, intellettuali in genere, non a carenze metodologiche, culturali, strumentali e organizzative della scuola, ma ad una carente relazionalità tra docenti e alunni e ad una eccessiva rilevanza data agli aspetti cognitivi del percorso scolastico.

“Indubbiamente – scrivevo qualche mese fa su questa rivista – le abilità cognitive, metacognitive, affettive e sociali, costituiscono tutte, per ciascuno di noi, un patrimonio unitariamente funzionale allo stare al mondo e ad orientare le nostre scelte nell’esperienza privata e sociale. Tuttavia alcune di esse sono particolarmente rilevanti ai fini di una cultura scientifica e di una cittadinanza etica e consapevole, e sono quelle che costituiscono ingredienti del pensiero critico: analisi, confronto di dati e punti di vista, individuazione e soluzione di problemi, valutazione, scelta, autoanalisi (…)”.

Per poter rispondere alle sue finalità istituzionali penso che la scuola pubblica debba fondarsi su conoscenze e competenze cognitive. Superare la cosiddetta egemonia del cognitivo significherebbe snaturare la sua stessa funzione di scuola “pubblica”.

Dall’approvazione del ddl sulle competenze non cognitive nascono interessanti spunti di dibattito, e tali vogliono essere le affermazioni che seguono:

  • Non mettiamo in discussione l’affermazione (non ne avremmo comunque la competenza) che le character skills possano o debbano essere parti integranti di processi di apprendimento continui: la domanda è se il loro apprendimento debba/possa diventare un obiettivo della scuola pubblica, o se debba/possa legittimamente e utilmente essere promosso in percorsi di specifica formazione professionale, dove peraltro diventerebbe più circoscritto e meglio definito il campo d’intervento, a seconda dei profili professionali stessi.
  • Se spostiamo il campo di osservazione e assumiamo il punto di vista non del lavoro, ma della scuola, è facile condividere che le stesse competenze non cognitive possono essere importanti fattori di successo anche nell’apprendimento scolastico. Ma i fattori di successo sono un’altra cosa rispetto agli obiettivi di apprendimento. La scuola, penso, ha da farsi carico di obiettivi formativi il cui raggiungimento dovrà essere oggetto di verifica e valutazione: i fattori di successo di cui ciascuno studente dispone potranno/dovranno costituire un interesse solo strumentale alla personalizzazione dei percorsi e delle relazioni.
  • La scuola pubblica certamente non è priva di colpe né di errori, ma l’egemonia del cognitivo non mi sembra un guasto da riparare: l’istruzione dei giovani si muove fondamentalmente entro orizzonti culturali fondati su conoscenze e abilità cognitive. Altre abilità e competenze, pur importanti nella formazione dei giovani, nella scuola pubblica non possono prevaricare conoscenze e competenze cognitive, che costituiscono il campo privilegiato del sapere formale.
  • Nel discorso sulle character skills, che nelle dichiarazioni di voto alla Camera sembra voler rivoluzionare il sistema d’istruzione per adeguarlo ai bisogni del mondo che cambia, non capisco dove si sia nascosto (e se esista ancora) il progetto culturale e sociale della nostra scuola attuale. Il cognitivo “residuo”, da integrare con le character skills, dovrebbe consistere, come nelle affermazioni di Vittadini, nel leggere, scrivere, far di conto, parlare inglese e usare la tecnologia?  Basta così? E intanto forgiare caratteri e curvare personalità? No grazie.

Character skills: fini, mezzi, modi?

La estroversione, la stabilità emotiva, l’apertura all’esperienza, la coscienziosità, l’amicalità, certamente sono caratteristiche rilevanti nei profili professionali. Anzi, ne sono spesso ingredienti costitutivi e il datore di lavoro può esigerli prima come condizioni di accesso all’incarico e poi come indicatori di qualità della prestazione, perché veicolano e realizzano la funzione sociale ed economica del contesto lavorativo stesso, e incrementano o decrementano, in caso di loro assenza, le risorse di cui il contesto lavorativo dispone, il cosiddetto “capitale umano”.

Per la scuola le cose non stanno come nel lavoro: i cosiddetti Big Five certamente influenzano l’apprendimento e le prestazioni richieste come manifestazioni di competenza, ma la competenza che via via l’allievo matura nella scuola non è quella richiesta da un profilo professionale: la sua acquisizione è dinamica, è legata alla variabilità della richiesta, ed è condizionata dalla qualità dell’offerta formativa. La sua valutazione, che va comunque integrata con quella delle conoscenze e delle abilità previste dal curricolo, ha una funzione formativa, orientativa.

Nella scuola i tratti di personalità di ciascun allievo vanno osservati dagli insegnanti per personalizzare le modalità di relazione e di affidamento di compiti, vanno proposti agli stessi allievi come oggetto di riflessione su se stessi ed eventualmente di “superamento” di se stessi, ma non possono costituire obiettivi formativi essi stessi, né indicatori di qualità della competenza acquisita.

Nelle verifiche, come i documenti nazionali ci invitano a fare, osserveremo le manifestazioni della emotività, della relazionalità, della autonomia, ma utilizzeremo le osservazioni a scopo formativo più che valutativo.

Dice Vittadini, nella citata intervista, che gli insegnanti tengono già conto di fatto delle character skills degli allievi. E in qualche modo è vero.

Ma il terreno è scivoloso e, a mio avviso, pericoloso.

La intraprendenza, la gradevolezza, la resistenza agli urti emotivi e agli insuccessi, la tenacia verso il risultato, la “coscienza di sé”, sono tratti caratteriali dei quali non è facile individuare descrittori condivisi: non accade forse che Pierino venga giudicato “timido” da un insegnante e “inerte” da un altro? che Pasqualino venga giudicato “libero e vivace” da un insegnante e “sfrontato” da un altro? che la originalità e la divergenza di Luisa vengano da qualcuno considerate im-pertinenza? Che la “tenacia” di Giorgio sia vista come “ostinazione”?

Le character skills, nella scuola e in un soggetto in crescita, si manifestano a seconda dell’ambiente, della situazione, del compito: Pierino è intraprendente quando è in un gruppo per svolgere certi compiti ed è restio quando è in un altro gruppo per svolgere altri compiti; Pasqualino è gradevole, simpatico ed estroverso in alcuni contesti, ma diventa cupo e silenzioso in altri contesti. E cosa dire della positività o negatività delle azioni e dei fini cui le character skills sono via via rivolte? È intraprendente colui che propone ai compagni e organizza una ricerca per approfondire un argomento di studio, ma anche colui che propone ai compagni e organizza un sistema per aggirare delle regole e scansare dei compiti. Cosa interesserà alla scuola: la ricerca attivata o il modo in cui è stata intrapresa? E, nel secondo caso, la scuola valuterà negativamente il raggiro o loderà l’intraprendenza?

È un terreno molto scivoloso, a scuola, quello del “carattere”, perché affonda le radici nel vissuto per lo più sconosciuto dell’alunno, perché il carattere è in continuo divenire, e perché si incrocia col carattere (anch’esso terreno scivoloso) degli insegnanti e con la loro incolpevole incompetenza nel settore specifico.

Penso che la scuola possa e debba rendere lo studente, per quanto è possibile, consapevole del suo carattere e della sua modificabilità, e possa e debba promuovere la sua riflessione sul fatto che diverse modalità di comportamento sortiscono diversi risultati, ma anche sul fatto che ciò che caratterizza la persona è l’azione che compie e il fine che l’azione persegue, più che la modalità dell’azione.

A scuola la chiamiamo educazione e parliamo di metacognizione. Ma sono cose diverse rispetto alla costruzione o trasformazione del character.

Il discorso contenuto nel progetto di legge andrebbe forse capovolto: il carattere dello studente (bambino, adolescente) influisce sul percorso scolastico dello studente ma a sua volta trae beneficio o danno dalla scuola a seconda della qualità delle relazioni, della “cura” rivolta o mancata a ciascuno, degli ambienti di apprendimento e dei climi in essi vissuti, dei compiti assegnati e dei feedback restituiti…

Per migliorare il carattere di ciascuno studente vanno dunque promossi percorsi formativi di qualità, che si dipanano attraverso occasioni cognitive e culturali proprie della scuola, attraverso metodologie e ambienti di apprendimento consapevolmente e intenzionalmente costruiti, attraverso la cura di insegnanti motivati e competenti.

Ma per questo occorrerebbero ben altre leggi.

È un punto di vista psicopedagogico, il nostro, che incontra qualche difficoltà ad entrare in sintonia con punti di vista dell’economia (Heckman) o della statistica (Vittadini).

Qualche domanda ai Senatori

Per concludere la mia riflessione provo a porre delle domande ai Senatori che dovranno approvare la legge.

Prima domanda

Quale si ritiene che sia il valore aggiunto delle character skills rispetto alle abilità e alle competenze trasversali già presenti nella norma scolastica e volte al conseguimento degli obiettivi istituzionali della scuola? Non sarebbe più utile focalizzare l’attenzione e l’intervento legislativo su abilità/obiettivi già presenti in indicazioni e raccomandazioni nazionali ed europee, ma spesso trascurate dalle scuole?

Seconda domanda

I dati raccolti con i questionari attualmente in uso per la ricerca sulle character skills, ancora non supportati da validazione scientifica e centrati su un’analisi fattoriale, come verranno utilizzati? Per individuare quali tratti di personalità negli studenti, e per utilizzarli come? Da parte di chi?

Terza domanda

Gli insegnanti verranno formati: ma quale rapporto, nel nuovo metodo, sarà posto tra insegnamenti disciplinari e sviluppo del character? Verrà forse introdotta una figura esperta in psicologia della personalità, che svilupperà a latere le nuove competenze non cognitive? E la cosiddetta “egemonia del cognitivo” da cosa verrà sostituita? Da addestramenti a quali “virtù”?

Quarta domanda

Gli insegnanti dei diversi ordini spesso non sono stati in grado, negli ultimi decenni, di convergere verso lo sviluppo e verso la valutazione/certificazione delle competenze trasversali indicate dalla norma nazionale ed europea: cosa dovrebbe renderli capaci, inesperti come sono di psicologia, di sviluppare le nuove character skills e quali condizioni renderebbero possibile il raggiungimento del nuovo obiettivo? Può bastare la lettura delle recenti pubblicazioni e la formazione prevista per la sperimentazione?

Quinta domanda

La presidente della VII Commissione della Camera, onorevole Casa, ha sostenuto che integrare nella didattica le competenze relative alla flessibilità, alla creatività, all’apertura mentale, alla stabilità emotiva, alla capacità di argomentare, interagire, discernere, è altrettanto fondamentale che apprendere i diversi saperi disciplinari, e che “si tratta di un seme d’innovazione della scuola italiana, un elemento di trasformazione che adegua il nostro sistema ai grandi cambiamenti in corso”. Il prof. Vittadini, nella nota e più volte citata intervista, accenna anche ad un possibile cambiamento dello scopo della scuola pubblica: quale potrebbe essere dunque la nuova funzione della scuola? Quella di forgiare i caratteri? Di chi? In che modo? In quali direzioni?

Sesta domanda

L’operazione prevista dalla legge (sperimentazione e formazione) avrà dei costi che graveranno sulle risorse del Pnrr: non sarebbe più utile potenziare la qualità del sistema esistente e recuperarne almeno in parte le carenze culturali e organizzative, piuttosto che vagheggiare fumose trasformazioni del sistema e pericolose inversioni di tendenza nel “modo di apprendere e di valutare”?

Settima domanda

Nei decenni scorsi la vivace dialettica sul primato dell’educazione o dell’istruzione è stata superata dalla generale convinzione della necessità di una formazione globale della persona e del cittadino. Nella auspicata (dal disegno di legge) trasformazione del sistema d’istruzione e del modo di apprendere e di valutare, e nell’auspicato superamento della egemonia del cognitivo, quali contenuti culturali e quali competenze, oltre alle character skills, sono ritenute importanti per le persone e per il Paese?

Ottava domanda

Non può essere pericolosa una legge che introduce innovazioni nei fini della scuola e nei metodi didattici prima di aver realizzato le necessarie sperimentazioni?

Si presenta come antidoto ai gravi e diffusi problemi della scuola italiana (dispersione, insuccesso, analfabetismo…) senza alcuna garanzia scientifica, senza alcun riferimento psicopedagogico, senza esplicite visioni culturali e sociali?

Snatura la funzione della scuola pubblica svilendone i fondamentali obiettivi culturali ed auspicando un superamento della egemonia del cognitivo in direzione di imprecisati obiettivi non cognitivi?

Promuove una sperimentazione ed una formazione che graveranno, senza garanzie di risultati migliorativi, su fondi nazionali potenzialmente destinati anche alle scuole del Paese che non avranno la fortuna di essere inserite nella sperimentazione?

Nona domanda

Da quali autentiche istanze sociali nasce il disegno di legge e chi ne trarrà beneficio?

Abstract

Il ddl approvato alla Camera l’11 gennaio 2002 sull’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi formativi delle scuole di ogni ordine e grado pone domande sulla correttezza psicopedagogica dell’intervento e sulla sua coerenza con i fini istituzionalmente assegnati alla scuola pubblica.

La scuola attuale persegue già molte competenze non cognitive, funzionali all’apprendimento e all’esercizio di una cittadinanza attiva e consapevole.

Le character skills di nuova introduzione, perorate da studiosi di economia e di statistica, rischiano di trascinare la scuola sugli scivolosi terreni della formazione del carattere e della valutazione delle personalità.

La egemonia del cognitivo su cui si fonda la scuola attuale, e che si vorrebbe superare con l’introduzione delle character skills, va riaffermata come carattere fondamentale di una scuola pubblica che intende formare la globalità della persona attraverso processi fondati sul sapere e su abilità prima di tutto cognitive.

Per recuperare carenze e guasti della scuola contemporanea occorrono leggi diverse, ispirate da principi psicopedagogici e da visioni sociali, non da studi di economia e di statistica.

Riferimenti

  1. DISEGNO DI LEGGE d’iniziativa dei deputati Lupi, Del Rio, Aprea, Toccafondi, Casa, Lattanzio, Garavaglia, Frassinetti, Palmieri, Cattaneo, Gariglio, Colucci, Calabria e Gelmini, trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza del Senato il 12 gennaio 2022, approvato dalla Camera dei deputati l’11 gennaio 2022.
  2. Dichiarazioni di voto finali per l’approvazione del ddl da parte della Camera dei deputati-
  3. Intervista di Marco Dotti a Giorgio Vittadini “Facciamoci guidare dalle character skills, per andare oltre l’egemonia del cognitivo”, Vita.it 26 maggio 2021.
  4. “Sì della Camera al ddl sulle competenze non cognitive a scuola. Al via la sperimentazione dal prossimo anno”, Salvo Intravaia, Repubblica del 16 gennaio 2022.
  5. Indicazioni per la progettazione curricolare nella scuola dell’autonomia. Antonio Santoro Scuola e amministrazione settembre 2021.
  6. Una formazione per la società complessa R. Bortone, Agorà Lecce 1998.
  7. Emergenze educative vecchie e nuove: R. Bortone, Scuola e Amministrazione ottobre 2021.
  8. Quale educazione nella scuola dell’istruzione. R. Bortone, Insegnare, Cidi, marzo/aprile 1992.

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