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diretto da Romano Luperini

Sostare nella Terra di Mezzo. A partire dal rapporto “scuola media 2021” della fondazione Agnelli

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A fine settembre è stato pubblicato il rapporto della fondazione Agnelli sulla scuola secondaria di primo grado dal titolo “rapporto scuola media 2021”.

Confesso il mio straniamento di fronte ai rapporti e le analisi: esse fotografano un dato, stanno lì incontrovertibili e hai la sensazione gli si possano opporre solo altri dati (che non possiedo) e che qualsiasi tua parola possa sembrare una difesa a prescindere.

Voglio invece provare ad allargare il discorso, a raccontare cosa voglia dire starci, nella scuola secondaria di primo grado: parlerò alla luce dell’esperienza, dell’osservazione, dello studio e del confronto quotidiano con docenti che lavorano alla scuola secondaria di primo grado. E, lo dichiaro già qui, proprio per questo non mi sarà possibile presentare soluzioni semplici, ma solo raccontare una realtà complessa e proteiforme.

Ma torniamo al rapporto, per il quale l’ordine di scuola in cui insegno è diventato il grande vuoto che crea disuguaglianze (per la verità la conclusione non è della fondazione Agnelli ma del quotidiano l’Avvenire che riporta la notizia).

La prima cosa che mi colpisce è il titolo: “Scuola media 2021”, in un documento che graficamente si presenta come moderno, accattivante e dinamico, non credo sia un caso la scelta di “scuola media” al posto di scuola secondaria di primo grado, come se già dal titolo si volesse sottolineare che questo ordine è antico, vetusto, sempre uguale a se stesso da anni. In effetti che siamo l’anello debole della scuola italiana me lo sento ripetere da quando sono studentessa: ma davvero nulla è cambiato? Davvero Il quadro non è confortante soprattutto per l’insoddisfacente qualità dei loro apprendimenti e la difficoltà a orientarsi nelle scelte future? Davvero gli alunni stanno male, molto peggio che nelle altre nazioni europee? E lo stress e il carico di lavoro sono troppo alti? Davvero rispetto ai docenti si assistono a criticità più gravi che negli altri ordini?

I dati sembrerebbero dire di sì.

I ragazzi nella terra di mezzo

I ragazzi e le ragazze di questa età vivono in mezzo alla perenne effervescenza emotiva, al desiderio spasmodico di vivere relazioni sociali intense, a una alternanza apparentemente illogica di accelerazioni e stasi.

Gli alunni della scuola secondaria di primo grado hanno tra gli undici e i quattordici anni: si tratta di tre anni molto diversi fra loro, tra l’infanzia e l’adolescenza, un’età di mezzo e di confine. Sono anni in cui, per usare le parole della psicoterapeuta Silvia Bignanimi, i ragazzi e le ragazze cambiano pelle come i serpenti:

 L’evento che occupa e organizza questa fase è la trasformazione puberale, cioè l’insieme dei cambiamenti fisici e biologici che conducono alla maturità sessuale e alla capacità di riprodursi. I preadolescenti possono essere chiamati mutanti proprio perché attraversano il periodo della muta, in cui lasciano i panni del bambino per divenire giovani uomini e donne, cambiando le forme del corpo, del viso, ma anche della mente. (Bignamini Sofia, I mutanti Come cambia un figlio preadolescente, Solferino, Milano 2018)

Il primo anno della scuola secondaria di primo grado è in continuità con la scuola primaria: i ragazzi sono ancora legati alla dimensione dell’infanzia, desiderosi di compiacere gli adulti e pieni di entusiasmo. Le differenze e le difficoltà solitamente esplodono a partire dal secondo anno, il dodicenne non desidera più compiacere l’adulto, con cui cerca lo scontro, la possibilità del confronto e da cui vuole essere compreso e non giudicato; le relazioni coi pari diventano sempre più strette e necessarie e sono per loro l’unico metro di giudizio che conta. Ogni anno cambiano radicalmente sia nel modo di apprendere sia nel modo di relazionarsi con quello che li circonda: se entrare in una classe di primaria è, per un adulto, venire a contatto con un mondo in cui prevalgono i gesti e le manifestazioni di affetto (“maestra come sei bella”, “ti ho fatto questo regalo”, “come sei vestita bene”, “mi dai la mano”…), farlo pochi anni dopo significa trovarsi di fronte un muro, musi lunghi, spallucce a fronte di qualunque proposta. E ciò spiazza un adulto non preparato a capire  questo modo di essere e quello che stanno vivendo. Qualunque ragionamento su questo ordine di scuola deve tenere conto di come sono i ragazzi, da lì dovrebbe partire qualsivoglia riforma, ma, più quotidianamente, ogni intervento in classe e fuori.

Un piccolo liceo

Per la serie i sondaggi senza alcun valore ma che ti forniscono idee, ho chiesto alla mia bolla di facebook un parere sulla secondaria di primo grado in relazione al rapporto Agnelli: la definizione più ricorrente è stata “è ancora un piccolo liceo”, ove liceo non è un complimento, figuratevi piccolo.

Proviamo a ragionarci su.

In un amen i ragazzi a undici anni passano da una scuola del tempo disteso, alla primaria il tempo scuola prevede giornate di otto ore e la presenza spesso di più docenti in classe, a una dal tempo compresso: 30 ore antimeridiane, molti docenti, molte materie, compiti e lavoro domestico a supporto delle ore di lavoro, ma spesso non sono ancora autonomi nel gestirlo.

Tre anni sono un tempo brevissimo nel quale il ritmo didattico si alza notevolmente, anche in funzione di quello che verrà dopo, in un contesto fortemente eterogeneo: è l’ultimo ordine in cui i ragazzi stanno in classe tutti insieme (e menomale!) e in cui si deve realizzare un’inclusione reale, difficile in classi che superano le 25 unità. E, sempre in tre anni, dovrebbero maturare una scelta che li orienti: l’obbligo scolastico è a 16 anni, si sa, ma non esiste un raccordo tra i due ordini, una progettazione unitaria, uno scambio che vada oltre il “non sanno riconoscere un predicato, vuol dire che gli avete spiegato male grammatica”.

Sì mi sento di dire che la scuola secondaria di primo grado è ancora considerata tre anni che dovrebbero preparare a, visti sempre in funzione di quello che verrà dopo (e, lo ammetto, a volte sembra ci sia solo il liceo) mentre è un ordine con una sua specificità e un suo profilo preciso a partire dalle persone che ci lavorano, da ciò che viene insegnato, dalle esperienze che si mettono in campo, dalla sua necessaria riorganizzazione.

Le persone che lavorano nella scuola

Non parto dai docenti, anche perché dal rapporto si evince che siano loro la causa di tutti i mali: si lascia intendere che basterebbe mettere docenti giovani, dinamici, aumentare il numero di maschi, le competenze tecnologiche, le metodologie attive, gli stipendi e avremmo la scuola perfetta. Non ne sono affatto convinta.

Lavorare alla scuola secondaria di primo grado è lavorare nella complessità, nell’emergenza e nella necessità di offrire a ciascuno il meglio: i docenti non bastano. Énecessaria la sinergia con i servizi sociali che operano sul territorio e con le famiglie ma soprattutto la presenza di professionisti dell’educazione altri dagli insegnanti e che con loro lavorino.

Faccio un esempio: Pierino disturba in classe, si alza manifesta il suo disagio, ti impedisce di far lezione. La scuola che ho frequentato io cacciava Pierino dalla classe, lo sospendeva e chi si è visto si è visto, magari anche lo bocciava due o tre anni e tutto bene. La scuola non lo fa più, e menomale, ma a fronte delle carte (identificazione come soggetto con bisogni educativi speciali, progettazione ad hoc del consiglio di classe) e delle intenzioni, restano sempre il disagio di Pierino che esplode e il resto della classe che ne subisce l’impeto. Il docente si trova a parlare con Pierino fuori dalla classe a farlo calmare ad accoglierlo, ma il resto della classe?

Questo è solo uno degli esempi che mostrano come ci sia bisogno di altre figure che lavorino in team, siano assegnate alla scuola e abbiano come mandato lavorare sugli aspetti educativi e relazionali: educatori, psicologi e pedagogisti. Che non siano però i soggetti a cui viene demandato l’accudimento del ragazzo difficile, ma parte di un progetto che ha come fine l’inclusione in classe e il diritto di tutti di imparare e di stare bene a scuola. Altri occhi che osservano le dinamiche relazionali e possano offrire un a punto di vista altro: so bene che aumentare i punti di vista aumenta la complessità e la difficoltà di gestione di un team di adulti, per questo i docenti devono essere preparati a questo tipo di lavoro e alla sua urgenza, come anche al lavoro in gruppo. Rispetto a questo, lo ammetto, non c’è mai stata una formazione di sistema vera dei docenti della scuola secondaria di primo grado, né disciplinare né didattica, nonostante sia l’ordine in cui andrà a insegnare la maggior parte dei docenti. C’è stata certo l’esperienza della SIS, ma sicuramente non orientata in tal senso (su come essa fosse una sorta di preparazione all’insegnamento liceale potremmo discuterne). Inutile girarci intorno: se i docenti della primaria hanno una loro formazione specifica e insegnare lì è una scelta fatta con cognizione di causa, per quelli della secondaria di primo grado spesso si tratta un passaggio verso la scuola sentita vera e appagante, quella del secondo grado. Già il fatto che i docenti della scuola secondaria di primo grado, a parità di formazione e di contratto, abbiano uno stipendio inferiore non concorre certo a farti sentire docente di serie A. Molto forte e radicata è ancora l’idea che il passaggio alla scuola secondaria di secondo grado non sia lavorare in un contesto diverso e fare un’esperienza diversa, ma compiere un vero e proprio avanzamento di carriera. Ma essere un docente della scuola secondaria di primo grado significa maturare una professionalità specifica nella didattica con i preadolescenti.

Per insegnare alla scuola secondaria di primo grado è  necessaria una formazione adeguata sui ragazzi, su come apprendono e su cosa significhi costruire con loro le competenze di base: le stesse discipline hanno bisogno di una impostazione e di un tipo di insegnamento diverso, non si tratta banalmente di semplificare (operazione tra l’altro complicata assai).

E non basta nemmeno il richiamo alla metodologia attiva come soluzione di tutti i mali se non è accompagnata da riflessione seria su quali siano gli epistemi della propria disciplina, su cosa dobbiamo insegnare e sul qualdo e perché usarle. Non è un caso che le esperienze virtuose di insegnamento vadano proprio in questa direzione, penso alla mia disciplina: insegnare a leggere e a scrivere come obiettivo prioritario prevede necessariamente una diversa organizzazione del tempo, ma anche lo studio della letteratura per ragazzi, il ragionamento su quale sia il canone di autori da affrontare, su come impostare la lezione (in termini di ritmo dell’insegnamento, tecniche didattiche, strumenti), sugli obiettivi in ingresso e in uscita, calibrati su ciascuno studente.

La questione vera è che non può essere solo la fortuna di trovare un docente o una realtà scolastica rispetto ad un altra, tutto questo dovrebbe essere messo a sistema e a contratto (formazione, lavoro in team, progettazione, relazione con il territorio).

E quindi?

Tra le varie proposte della fondazione Agnelli c’è l’aumento del tempo scuola e l’apertura pomeridiana con attività legate allo sport al teatro: piacerebbe sognare anche a me e non pensare che per questo ci voglia organico in più e preparato (se si vuole inserire teatro è necessario che si assuma chi lo sa fare) e soprattutto spazi adatti (poi, per carità, si può fare sport in una palestra con gli spogliatoi scrostati e in cui piove dentro e teatro in un’aula magna, è la nostra vita di tutti i giorni), ma vorrei provare a stare nel reale e nel qui ed ora.

Ho iniziato a lavorare nel 2002, negli ultimi scampoli del tempo prolungato: più ore per lavorare, aule generalmente meno affollate, classi aperte durante i laboratori pomeridiani, possibilità di affidarli anche alle educazioni (musica, arte, educazione fisica, tecnologia). Con la conseguente riduzione di ore e  organico della riforma Gelmini (di fatto le ore in più sono state assegnate a italiano e matematica e tolte alle educazioni), la possibilità per le famiglie di operare la scelta dell’orario e l’impossibilità di lavorare su classi aperte nel pomeriggio ma solo a classe intera, il tempo prolungato è finito. Ora la maggior parte delle scuole lavora su cinque giorni lunedì – venerdì, 8-14-, e per molti studenti significa tornare a casa, mangiare da soli e studiare da soli, subito, a undici anni.

Sarebbe importante tornare a una scuola con tempi più distesi e che accompagni i ragazzi in termini di tempo, di relazioni, di spazi, di esperienze fatte, meno basata su performance e analisi risultati: in cui siano previsti laboratori permanenti non solo (ma anche) di carattere digitale, in cui sia possibile pensare a quote di differenziazione del curriculum, dalla quale si esca non con una valutazione numerica ma con un portfolio delle competenze, in cui si lavori davvero insieme al biennio della scuola secondaria di secondo grado. Ma nel frattempo?

Ciò su cui ora si può agire, da docenti, è il clima di lavoro nel consiglio di classe e l’insegnamento in classe: ci vogliono tempo, fatica e costanza. Il consiglio di classe è il luogo della mediazione e dell’incontro, il momento in cui si scontrano spesso punti di vista diversi che però devono sforzarsi di fare sintesi: in questo senso non è tempo perso quello in cui ci si confronta sulla propria idea di scuola e su come concretamente la si possa realizzare nella nostra classe, il consiglio di classe non è e non deve essere solo il momento dell’assolvimento degli obblighi burocratici. É importante la figura del coordinatore come facilitatore della comunicazione che dia a tutti la possibilità di esprimersi, ma mantenga il focus della discussione su fatti, progettualità e obiettivi raggiungibili. I primi consigli devono servire a raccogliere le osservazioni di tutti (e in questo senso è importante chiarirsi su cosa osservare e come, giacché spesso gli occhiali che mettiamo per vedere influenzano quello che guardiamo, nel bene e nel male), a tenere la giusta distanza e a progettare azioni e obiettivi piccoli da raggiungere nel breve periodo e più ampi sull’intero triennio. Nei consigli successivi tali azioni vanno monitorate, calibrate e aggiustate: non dobbiamo mai dimenticarci di parlare dei ragazzi, ma anche di come noi stiamo e ci sentiamo con loro, un team di docenti funziona se riusciamo a neutralizzare i personalismi. I dipartimenti disciplinari in questo senso possono e devono diventare un laboratorio di discussione su come e cosa insegnare così da per poter progettare e sperimentare: non dico sia semplice, lo so benissimo. Ma trasformarli in comunità di pratiche è un’utopia concreta che ci deve guidare: si potrebbe partire da condividere buone pratiche, non per fare sfoggio di sé ma per mostrare il percorso seguito, i motivi da cui si è partiti, le tappe del percorso, gli obiettivi raggiunti: possiamo imparare tanto dalle esperienze degli altri, soprattutto nello stesso contesto in cui ci troviamo a lavorare.

I docenti da soli poi cosa possono fare? Quello che è la base del loro mandato istituzionale: studiare e imparare sempre, porsi domande concrete e trovare soluzioni. Esistono tante esperienze di didattica nella scuola secondaria di primo grado su cui interrogarsi e a cui guardare: non siamo un buco nero senza speranza.

Siamo la terra da cui Frodo partì, con poche speranze ma buoni amici, per una missione ritenuta da tanti l’anello debole.

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