Proust e l’abitudine al tempo della pandemia
Mai come in questo momento storico ci si è resi conto di quanto l’abitudine condizioni la nostra vita, del suo valore e dei suoi limiti. La pandemia ha comportato il suo infrangersi e l’impossibilità di fare quello che eravamo abituati a fare ha generato le più disparate, contraddittorie e talora inquietanti reazioni psicologiche: l’acuto desiderio (“mancanza”) delle attività un tempo ordinarie e la rivalutazione della loro importanza; il tentativo di continuare la vita di sempre; la scoperta di nuove attività; la loro trasformazione in altre abitudini (resisteranno alla fine della pandemia?); il capovolgimento delle vecchie; una diversa percezione del tempo – dilatato, vuoto, goduto come relax, riempito di passioni prima non coltivate o di “non importa che cosa” pur di “ingannarlo”, rivisitato come passato o avvertito come fine incombente -; le ansie incontrollate, la rabbia, l’ angoscia e la paura della morte per sé o per gli altri; la chiusura nella propria solitudine o il disperato tentativo di mantenere vive le relazioni sociali; l’attenzione esasperata e narcisistica al proprio “particulare” o un altruismo senza limite; lo sbalordimento rispetto a una tragedia collettiva e la pietà per chi soffre per la malattia o per la povertà che essa genera; le cadute nella depressione o l’accentuazione delle nevrosi…. Un elenco che ciascuno di noi potrebbe continuare all’infinito e su cui già molto è stato scritto. Aggiungo solo la notevole diversità di reazioni tra il primo e il secondo lockdown : la rottura dell’abitudine con effetti traumatici e vitali in febbraio e il suo oscillante e monotono reiterarsi in autunno.
In ogni caso, davvero, come abbiamo sentito dire, la pandemia, togliendoci le nostre abitudini, ci ha rubato un anno, speriamo non due, della nostra vita? Oppure la drammatica rottura dell’abitudine può comportare una diversa conoscenza di sé e del mondo? E che cosa ci dice in proposito la letteratura? Quali prospettive di elaborazione profonda, non semplicemente consolatorie, ci offre?
Lancio la proposta di aprire un confronto sui testi che possono offrire spunti di riflessione in tal senso.
Comincio io: ricordandomi che il tema dell’abitudine percorre la Recherche con continue variazioni di punti di vista, ho ricercato alcuni passi che qui propongo in lettura. Talora si riferiscono al protagonista o ai personaggi, talora sono considerazioni del narratore volutamente di carattere generale.
Il meccanismo dell’abitudine
Parto da quella che sottolinea, in modo immaginoso ma forte, la facilità con cui l’abitudine si sviluppa. Essa sorge spontaneamente come una pianta e non ha bisogno di particolari cure per crescere:
E poiché l’abitudine è, fra tutte le piante umane, quella che ha meno bisogno di nutrimento dal suolo e la prima a spuntare sulla roccia apparentemente più desolata….(La parte di Guermantes I, p.145)[1]
E’ scontato allora che caratterizzi il nostro comportamento:
proprio le sue abitudini consentivano al signor di Norpois di far fronte a tutte quelle occupazioni ed essere così ordinato nel rispondere, di piacere in società e mostrarsi così gentile con noi. (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.528)
capii che era una semplice abitudine mondana (…) priva del significato morale che, all’inizio, le avevo attribuito, una cosa puramente appresa, al pari dell’altra sua abitudine….( All’ombra delle fanciulle in fiore,p.888)
Se le relazioni di vecchia data hanno un po’ della dolcezza e della forza degli affetti familiari è perché una donna finisce col prenderne un’abitudine indulgente e amichevolmente canzonatrice, simile a quella che ne abbiamo noi stessi e i nostri parenti. (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.565)
Come si evince da questi passi, l’abitudine è un automatismo psichico che si concretizza e prende forma in rapporto alla realtà e alle relazioni in cui l’io si trova a vivere: qualcosa che si apprende all’interno della società e si stratifica facilmente sulla nostra identità più vera e profonda, divenendo una maschera che governa il nostro comportamento. L’ innata disposizione all’abitudine, il suo carattere familiare, la sua per così dire naturalità non contrastano perciò con il suo essere frutto di convenzione:
Cosa c’è di più abituale, si tratti di mascherare, per esempio, le debolezze quotidiane di una salute che si vuol fare credere robusta, di dissimulare un vizio, o di mirare, senza ferire l’altro, a ciò che si preferisce? E’, la menzogna, il più necessario e il più utilizzato strumento di conservazione. (La Prigioniera, p. 568)
La rottura dell’abitudine
Il tema dell’abitudine ricorre continuamente in tutta la Recherche, condizionando lo stesso procedere della narrazione, nell’ossessiva ripetizione delle nevrosi del protagonista, nel modo di agire dei personaggi dipendente dalle convenzioni sociali, nella ritualità della loro vita. Esemplare in questo senso può essere considerata la figura di Albertine, disponibile fin dall’inizio della vicenda a “adeguarsi” alla sua condizione di prigioniera:
Il suo fascino un po’ inquietante consisteva, insomma, nel suo stare dentro casa, più che come una fanciulla, come un animale domestico (…)(La prigioniera, p.395)
A tutto ci si può abituare. Ma se
la rassegnazione (…) è una modalità dell’abitudine (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.752)
il culmine dell’abitudine coincide con il suo infrangersi: le ombre di fuga di Albertine sono continuamente negate dai fatti, ma alla fine, quando meno il protagonista (e il lettore con lui) se lo aspetta, la ragazza se ne andrà dalla sua prigione. Se l’abitudine è dunque rappresentata come una forza negativa, la sua rottura può aprire a nuove prospettive: e il lettore stupefatto di fronte alla scomparsa di Albertine (che sul piano della struttura costituisce il movimento narrativo più sorprendente, originale e famoso di tutta la Recherche), spera per lei una vita migliore rispetto a quella di essere l’oggetto del patologico amore di Marcel.
Diversi sono i passi in cui si fa riferimento a questa opposizione: l’abitudine determina comportamenti inautentici e ripetuti ossessivamente, riduce la vitalità, assopisce le forze interne, sbiadisce i contorni della realtà, crea rassegnazione e passività, disgrega; al contrario
la cessazione momentanea dell’Abitudine (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.794)
potenzia le energie vitali e permette forse una conoscenza profonda di sé e del mondo. Il movimento e il viaggio sono strumenti di tale processo, determinando il variare del nostro punto di vista (La prigioniera, p.456):
Viviamo di solito, col nostro esser ridotto al minimo; la maggior parte delle nostre facoltà rimangono assopite, fidandosi dell’abitudine che sa cosa si deve fare e non ha bisogno di loro. Ma, in quel mattino di viaggio, l’interruzione della routine della mia vita, il cambiamento d’ora e di luogo avevano reso indispensabile la loro presenza. Sedentaria e tutt’altro che mattutina, la mia abitudine stava venendo meno, e tutte le mie facoltà erano accorse a supplirla, gareggiando in zelo tra loro, innalzandosi tutte, come onde, allo stesso inusitato livello, dalla più umile alla più nobile, dalla respirazione, dall’appetito, dalla circolazione sanguigna fino alla sensibilità e alla fantasia. (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.795)
noi conosciamo veramente solo ciò che è nuovo, ciò che introduce bruscamente nella nostra sensibilità un cambiamento di tono che ci colpisce, ciò che l’abitudine non ha ancora sostituito con i suoi pallidi facsimili. (Albertine scomparsa, p.136)
Dunque (….) avrei dovuto frequentare sempre nuovi alberghi, dove potessi pranzare per la prima volta, dove l’abitudine non avesse ancora ucciso, ad ogni piano, ad ogni porta, il drago terrificante che sembrava vegliare su un’esistenza incantata …?(Sodoma e Gomorra II, pp.925-926)
La memoria, l’amore e il dolore
Anche la memoria è governata da tale dinamica:
Ora, i ricordi d’amore non fanno eccezione rispetto alle leggi generali della memoria, a loro volta regolate dalle più generali leggi dell’abitudine. Poiché questa affievolisce tutto, quel che più ci ricorda una persona è proprio ciò che avevamo dimenticato (parendoci insignificante, gli abbiamo lasciato intatta la sua forza).… Alla luce piena della memoria abituale, le immagini del passato vanno a poco a poco sbiadendo, dileguano, non ne resta più nulla, non le ritroveremo più. O meglio, non le ritroveremmo più se qualche parola (…) non fosse rimasta accuratamente custodita nell’oblio (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.778)
E, naturalmente, l’amore implica la rottura dell’abitudine e perciò sconvolge :
la bella fanciulla, che scorgevo ancora mentre il treno aumentava l’andatura, faceva come parte d’una vita diversa da quella che conoscevo e da cui la separava una sorta di bordura: una vita dove le sensazioni destate dagli oggetti non erano più le stesse e uscendo dalla quale mi sarebbe parso, ora, di morire a me stesso. (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.796)
Lo sconvolgimento emozionale che l’amore provoca è indipendente dalla realtà della persona amata e è tutto giocato nella sfera psichica dell’io, ma, nato dalla rottura dell’abitudine, ricade poi nel circolo vizioso dell’abitudine stessa:
Il fatto è che la sua stessa persona non c’entra che per poco; per quasi tutto, invece il processo di emozioni, di angosce che determinate combinazioni ci hanno fatto provare un tempo nei suoi confronti e che l’abitudine ha connesso a lei.(Albertine scomparsa, p.21)
ciò che è pericoloso e ci procura sofferenze in amore non è la donna in se stessa, è la sua presenza di tutti i giorni, è l’essere in ogni momento curiosi di quello che fa; non è la donna, è l’abitudine. (Il tempo ritrovato, p.730)
Il dolore, ontologicamente connesso all’amore, provoca la rottura dell’abitudine e può generare conoscenza:
è il dolore a sviluppare le forze dello spirito. D’altronde, anche se non ci rivelasse ogni volta una legge, esso ci sarebbe pur sempre indispensabile per rimetterci ogni volta nella verità, per costringerci a prendere le cose sul serio, strappando via ogni volta le male erbe dell’abitudine, dello scetticismo, della leggerezza, dell’indifferenza.(Il tempo ritrovato, p.590)
L’ambiguità dell’abitudine
Tuttavia nella molteplicità dei punti di vista che caratterizza l’opera, la riflessione del narratore non si esaurisce in questa opposizione. A un certo punto è l’abitudine stessa a essere ambivalente con i suoi effetti scompensanti. E’ perciò impossibile da definire e viene rappresentata come una quasi divinità che ha il volto del doppio e della contraddizione:
E se gli effetti dell’Abitudine appaiono contraddittori, è per la molteplicità delle leggi cui essa obbedisce. A Parigi ero diventato sempre più indifferente nei riguardi di Gilberte grazie all’Abitudine. Il mutamento delle abitudini, vale a dire la momentanea cessazione dell’Abitudine, perfezionò l’opera dell’Abitudine quando partii per Balbec. Essa indebolisce ma stabilizza, apporta la disgregazione ma la perpetua all’infinito. (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.779)
L’Abitudine, di colpo, mi appariva con un nuovo volto. Fino a quel momento l’avevo considerata soprattutto come un potere annichilente, che sopprime l ’originalità e fin la coscienza delle percezioni; adesso la vedevo come una divinità temibile, così ribadita su di noi, col suo volto insignificante così incrostato nel nostro cuore, che quando si distacca, quando si distoglie da noi, ci infligge -questa divinità che quasi non distinguevamo- sofferenze più terribili di qualsiasi altra, ed è tanto crudele, allora, quanto la morte.(Albertine scomparsa, p.6)
La rottura dell’abitudine e la letteratura
Da un lato l’amore e dall’altra il dolore hanno il potere di sconfiggere l’abitudine e di essere strumento di conoscenza e di ricerca di autenticità. Ma qual è il rapporto tra letteratura e abitudine? Proust non può omettere il valore conoscitivo della letteratura, che apre a nuovi mondi, ma nello stesso tempo sembra essere consapevole della sua fragilità, di quanto la consolazione che deriva dalla lettura sia labile, della sua debolezza di fronte al carattere soverchiante dell’abitudine che ne uccide la vitalità:
Altre volte, la lettura di un romanzo un po’ triste mi riportava bruscamente indietro, perché certi romanzi sono come grandi lutti momentanei, aboliscono l’abitudine, ci mettono in contatto con la realtà della vita; ma solo per qualche ora, come un incubo, perché le forze dell’abitudine, l’oblio che esse producono, la gaiezza di cui sono portatrici grazie all’impotenza del cervello a lottare contro di loro e a ricreare il vero, prevalgono di gran lunga sulla suggestione quasi ipnotica di un bel libro, che ha, come tutte le suggestioni, effetti molto brevi.(Albertine scomparsa II, p.175)
Si tratta di una nota negativa sulla funzione salvatrice della letteratura, che si coniuga con il senso di impotenza che il protagonista esprime nel Tempo ritrovato rispetto al compimento della sua opera. Noi lettori possiamo però forse contrastarla nella consapevolezza non solo ovviamente del valore conoscitivo della Recherche, ma anche dell’importanza della letteratura per Marcel (rappresentato fin da giovane come ossessivamente votato alla lettura e alla scrittura) e di conseguenza del carattere metaletterario dell’opera.
Ancora una volta la letteratura non dà risposte univoche, ma problematizza e induce a pensare. E a me sembra che questi passi si adattino quanto mai al tempo che stiamo vivendo e che possano innescare una riflessione sui meccanismi che ci governano nella tragica rottura delle nostre amate abitudini. L’ unica, ma non indifferente lezione che ne possiamo ricavare è la lucida consapevolezza della tragedia nella speranza di non abituarci al numero di morti giornalieri: sarebbe davvero la tremenda e letale abitudine che si incrosta.
[1] Tutte le citazioni sono tratte dall’edizione Meridiani: M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, traduzione di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1986
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Caporedattore
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Il tacchino induttivista
Contro i rischi che comporta l’abitudine, mi viene in mente il famoso e significativo aneddoto di Russel che ci racconta la fine che ebbe a fare un tacchino ‘induttivista’ il quale, poiché ogni mattina gli veniva somministrato il cibo, finì per adagiarsi su questa certezza, finché giunse il giorno di Natale in cui dovette sperimentare sulla sua pelle quanto fosse pericoloso e inopportuno non contemplare la possibilità del cambiamento . Una storiella non banale e non necessariamente luttuosa se la morte del nostro povero tacchino viene intesa metaforicamente come la possibilità che l’infrangersi dell’abitudine possa uccidere la parte di noi cristallizzata nell’ovvietà dell’esistente, per risvegliare invece quelle possibilità che sono sempre aperte ma spesso dimenticate.
L’elaborazione
Articolo molto bello, che ci invita ad un raccordo tra letteratura e attualità.
L’abitudine è certezza, nelle sue diverse rappresentazioni, dall’ innocente conforto di gesti consueti, fino all’ ossessiva ricerca di pace nel reiterarsi di rituali. Quando l’abitudine si spezza ecco l’ inquietudine, il disordine, l’ignoto. Come ritrovare allora quella “diversa conoscenza di sé e del mondo” di cui ci parla l’ autrice?
Spulciando tra le mie povere conoscenze di letteratura non sono riuscita a trovare le ” prospettive di elaborazione profonda” che si suggeriscono. Il tema mi affascina e chiedo aiuto a lettrici/ lettori più documentati e sensibili . Grazie