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diretto da Romano Luperini

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Perché leggere Uomini e topi di John Steinbeck

 Poche miglia a sud di Soledad il fiume Salinas arriva a lambire i fianchi delle colline e scorre verde e profondo. La sua acqua è tiepida, perché prima di raggiungere quella stretta pozza è passata scintillando sopra le sabbie gialle alla luce del sole. A un lato del fiume la collina dorata sale verso i possenti e rocciosi monti Gabilan, ma lungo l’altro lato l’acqua è delimitata da una fila di alberi: salici freschi e verdi ad ogni primavera, con le forche dei rami più bassi cariche dei residui delle piene invernali, e sicomori con i rami ricurvi screziati di bianco e fronde che si inarcano sopra la pozza. Sulla riva sabbiosa sotto agli altri alberi le foglie formano uno strato così spesso e crocchiante che se una lucertola lo attraversa di corsa produce un forte fruscio. Di sera i conigli escono dalla macchia per accoccolarsi sulla sabbia, e le lacche umide vengono ricoperte dalle impronte notturne dei procioni e da quelle più larghe dei cani dei ranch, e dai cunei bisulchi dei cervi che col buio arrivano a bere. Fra i salici e i sicomori c’è un sentiero, ben battuto dai ragazzi che sciamano dai ranch per nuotare nella profonda pozza, ma battuto anche dai vagabondi che di sera arrivano stanchi dalla statale per accamparsi vicino all’acqua. Di fronte al basso ramo orizzontale di un sicomoro gigantesco c’è un mucchio di cenere dovuto a molti fuochi; e il ramo è diventato liscio tanti sono gli uomini che vi si sono seduti sopra. […]

Per un attimo il posto fu inanimato, quindi, sbucando dal sentiero, due uomini arrivarono allo spiazzo di fianco alla pozza verde. Sul sentiero avevano camminato in fila indiana, e anche all’aperto rimanevano uno dietro l’altro.

Indossavano entrambi calzoni di tela, e di tela erano le camicie, con i bottoni d’ottone; entrambi avevano un cappello nero e informe, entrambi portavano sulle spalle delle coperte strettamente arrotolate. Il primo uomo era piccolo e lesto, scuro in volto, con occhi acuti e irrequieti, e lineamenti affilati e marcati. Ogni suo tratto era definito: mani piccole e forti, braccia sottili, naso stretto e ossuto. Dietro a lui procedeva il suo opposto: un uomo enorme, dal volto senza forma, con occhi grandi e chiari, e ampie spalle ricurve; camminava pesantemente, quasi strascicando i piedi, al modo in cui un orso trascina le zampe. E anziché dondolargli ai fianchi, le braccia gli pendevano fioche.

(J. Steinbeck, Uomini e topi, Milano, Bompiani, 2019, traduzione di Michele Mari, pp. 23-24)

Per la complementarietà dei protagonisti

Uomini e topi è un breve romanzo di John Steinbeck dal plot molto semplice: George Milton e Lennie Small sono due bindlestiff, lavoratori stagionali che vagano di ranch in ranch scambiando la loro manodopera per un misero gruzzolo di denaro nell’America della Grande Depressione. Quello che li caratterizza è il fatto di costituire una coppia complementare e per questo inscindibile: George è la mente pensante, proiettato in avanti al punto da progettare l’acquisto di un piccolo appezzamento di terreno che li renda autonomi; Lennie, invece, è dotato di un corpo incredibilmente poderoso ma ha la mente di un bambino: tutto ciò che sfiora, attirato dalla sua morbidezza, – prevalentemente i topolini di campagna – viene involontariamente schiacciato per l’incapacità di dosare la forza delle sue carezze. Il primo si è fatto carico di Lennie e vigila su di lui per evitare che si metta nei guai con la sua innocente stupidità: il mondo degli uomini – basato su rapporti di forza grossolani e primitivi – non può comprendere e accogliere le parole e i gesti di Lennie Small (“Mi piace carezzare le cose belle con le dita, cose morbide”, confessa candidamente.).

L’arrivo dei due nel ranch di Curley conferma il senso di tragedia che incombe sul romanzo fin dalla prima pagina e, sullo sfondo di luoghi marginali come il dormitorio e la baracca attigua al granaio, quel dramma può crescere e compiersi.

Sono Curley e la moglie a costituire la coppia antagonista rispetto a George e Lennie: lui, attaccabrighe e manesco, manifesta con i lavoranti un atteggiamento minaccioso; lei istiga apertamente gli uomini stuzzicandone il desiderio. Dunque, mentre George e Lennie rappresentano rispettivamente la Carità e l’Innocenza, Curley e la giovane moglie sono figure del Dominio e della Tentazione.

Tra i comprimari – oltre a quelli di cui si dirà tra poco – spicca Slim, il capo degli operai, uomo giusto e in grado di intuire la natura e il carattere degli individui che lo circondano: infatti di Lennie ripete più volte “Non è cattivo […] Si vede che Lennie non è cattivo per niente”. Slim lascia cadere le minacce e le provocazioni che Curley e la giovane donna disseminano tra i lavoranti; viceversa è uomo disponibile all’ascolto (centrale in questo senso il cap. 3): sa affiancare George nelle dolorose righe conclusive del romanzo, con un’immagine in dissolvenza che lascia aperto il finale.

Per il naturalismo mitico

L’agile narrazione – che si sviluppa nel corso di sei brevi capitoli – è condotta con un linguaggio secco, asciutto: i frequenti inserti dialogici, utili a mettere a fuoco le psicologie dei personaggi, si alternano alle parti descrittive, volte a delineare gli effetti di realtà: gli uni e le altre fanno pensare a una tipo di narrazione condotta in chiave naturalistica. Tuttavia di frequente si è parlato, per Steinbeck, di naturalismo mitico dal momento che “il suo modo di scrivere […] è animato da un impulso che va oltre la cronaca degli eventi […] e mira a enucleare via via simbolicamente, girandovi attorno, le forze che condizionano il comportamento degli uomini”, scrive Sampietro nell’Introduzione alla nuova edizione (Ivi, pp.13-14).

In effetti il romanzo di Steinbeck presenta una serie di isotopie figurali elementari che con ogni probabilità sono legate all’intento dello scrittore che “credeva di aver scritto un libro per bambini” (F. Pivano, Libero chi legge, Milano, Mondadori, 2010, p. 256): Lennie è un personaggio inconsapevole e fragile che fin da principio viene sentito come vittima sacrificale. La sua creaturalità si riverbera in altri personaggi, più consapevoli di lui, ma comunque marginali: in primis Candy, l’inserviente che vive nel terrore di essere cacciato dopo aver perso un braccio in un incidente sul lavoro. Allo stesso modo Crook, lo stalliere di colore storpiato dal calcio di un animale, è doppiamente emarginato, tanto da non essere neppure ammesso nel dormitorio dei lavoranti stagionali (“Ma supponi di non avere nessuno; supponi che non potevi andare nel dormitorio a giocare a carte perché sei nero. Come la prenderesti?). Tutti e tre – Lennie, Candy e Crook –  rimandano all’incapacità del microcosmo del ranch di accogliere chi viene percepito come un incapace o come un peso. Eppure tutti e tre nutrono la speranza in un futuro diverso, che si sustanzia nel sogno di quel pezzo di terra dove dar vita a una compagnia di liberi ed eguali. Il dialogo tra Candy e Crook è emblematico:

– […] Ma adesso ci riusciremo, ci puoi scommettere. […] Io, Lennie e George. Avremo un posto tutto nostro. Avremo un cane, e conigli e polli. Avremo il grano in erba, e forse una mucca o una capra.

[…]

– Non ho mai visto nessuno riuscirci, […] disse. – Ho visto la gente diventare pazza dal desiderio della terra, ma ogni volta un bordello o una sala da gioco han portato via tutto. – Esitò – Se voi…se voi volete un aiutante che lavora per niente…solo per il mantenimento, be’, potrei venire a darvi una mano io. Non sono così sciancato da non poter lavorare come una bestia, se voglio” (J. Steinbeck, Uomini e topi, cit., p. 105)

Altra isotopia figurale del romanzo è costituita dal cane cieco e sdentato di Candy: la sua uccisione prefigura quella con cui si chiude il romanzo, a rinforzare l’immagine di Lennie come “pietra d’inciampo evangelica sulla quale misurare la pazienza e la carità di chi ha a che fare con lui” (Ivi, p. 15).

Dunque, dietro all’impianto naturalistico del romanzo, c’è un afflato mitico che trasferisce questa storia di ingiustizia e sopraffazione in una dimensione senza tempo.

Perché costituisce un modello letterario per i narratori italiani

Leggere Uomini e topi con studenti di classe quinta può essere interessante non solo per la riproposta di un classico americano, ma anche per evidenziare il clima di un’epoca – il “decennio delle traduzioni”, come lo definiva Pavese –  e l’impatto che la letteratura statunitense ha avuto sulla sprovincializzazione della nostra.  Pubblicato nel 1937 in America e tradotto da Cesare Pavese già l’anno successivo, il caso di Uomini e topi è esemplare di un momento storico in cui la “letteratura americana non era ancora popolare tra noi, e anzi era molto malvista dalle autorità; e come tutte le cose più o meno proibite attirava moltissimo l’interesse, specialmente tra i giovani” (F. Pivano, Libero chi legge, cit., p. 255). La traduzione è infatti una delle strade attraverso le quali l’Italia conosce una “letteratura di straordinaria potenza metafisica” rileva Sampietro (Ivi, p.7): sono questi gli anni in cui si pubblicano Moby Dick, ancora grazie al lavoro di Pavese (in due distinte edizioni, nel ’32 e poi nel ’41) e l’antologia Americana (1941), curata da Vittorini e presto censurata dal regime. Nella prefazione di Emilio Cecchi alla riedizione del ’42 si legge:

L’inizio della guerra 1914-1918 trovò i lettori di tutto il mondo a testa china sui romanzi russi. E l’inizio della nuova guerra, 1939, li ha ritrovati a testa china sulle novelle e sui romanzi americani. (Introduzione all’edizione del 1942 di Emilio Cecchi in E. Vittorini, Americana, Milano, Bompiani, 2002, vol. II, p. 1037).

La penetrazione di queste pagine tra gli intellettuali dell’epoca eserciterà un ascendente sulle generazioni più giovani cosicché Pavese e Vittorini saranno sentiti come padri dagli scrittori più giovani del cosiddetto Neorealismo, “un’epoca letteraria piena di vita”, in cui “era naturale che la nostra passione per la letteratura diventasse una cosa sola con la nostra passione per le sorti del mondo” (I. Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 48):

I motivi politici negli ultimi anni del fascismo si intrecciarono ai motivi letterari: l’America era una gigantesca allegoria dei problemi nostri, di noi italiani d’allora, del nostro male e del nostro bene, del nostro conservatorismo e del nostro bisogno di ribellione […] era un teatro dove si rappresentava in forme esplicite ed estreme in dramma non dissimile al nostro dramma nascosto, di cui ci era proibito parlare. (Ivi, pp. 47-48)

A ottant’anni di distanza dalla versione di Pavese, il romanzo si può ora leggere nella traduzione di uno scrittore raffinato come Michele Mari e se ne possono senz’altro apprezzare le scelte linguistiche adatte a conferire “ai personaggi una lingua molto più consona alla loro condizione di illetterati, ovvero più asciutta e quasi bruta, ignara del congiuntivo e tenacemente radicata nell’imperfetto” (T. Pincio, https://ilmanifesto.it/il-naturalismo-mitico-trova-la-sua-ruvida-lingua-ideale/ ).

In un percorso didattico che apra lo sguardo degli studenti ai modelli d’oltreoceano che hanno contato per gli scrittori del secondo dopoguerra, Uomini e topi di Steinbeck può dunque costituire una chiave d’accesso preziosa.

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