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diretto da Romano Luperini

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Perché leggere Aspettando i barbari di J. M. Coetzee

 Mai visto niente del genere. Due dischetti di vetro cerchiati di metallo davanti agli occhi. È cieco? Capirei se fosse cieco, se volesse nascondere occhi che non vedono. Ma non è cieco. I dischetti sono scuri, dall’esterno sembrano opachi, però lui ci vede attraverso. Mi spiega che sono un’invenzione nuova. – Proteggono gli occhi dal riverbero del sole, – dice. – Sarebbero utili qui nel deserto. […] Siamo seduti nella stanza migliore della locanda, davanti a un fiasco e a una ciotola di nocciole. Non parliamo del motivo per cui è venuto. È qui a causa dello stato di emergenza e tanto basta. Invece parliamo di caccia. Mi racconta dell’ultima battuta a cui ha partecipato: migliaia di cervi, di cinghiali, di orsi abbattuti. Talmente tanti che hanno dovuto lasciare lì a marcire una montagna di carcasse («un peccato»). […]

Si muove a tentoni tra l’arredo che non conosce ma non si toglie gli occhiali scuri. Va a letto presto. Alloggia qui nella locanda perché è il posto migliore in città. Ho spiegato bene al personale che si tratta di un personaggio importante: – Il colonnello Joll è della Terza Divisione, – ho detto. – E la Terza Divisione oggi è la sezione più importante della Guardia civile –. O almeno questo è quanto ci dicono le voci che ci arrivano con molto ritardo dalla capitale. (Aspettando i barbari, Traduzione di M. Baiocchi, Einaudi, 2016, pagg.3-4)

Nel 1980 esce il terzo romanzo di Coetzee, che scrive la sceneggiatura del film omonimo del 2019. Evidentemente questo libro continua a voler dire qualcosa anche a chi l’ha scritto. Sembra che la tensione non si sia depositata sulla pagina: la scrittura sembra non abbia trovato compimento nella quiete della stampa. La storia – anche per l’autore – deve continuare ad essere raccontata. Il racconto ci riguarda, in effetti, come esseri umani e come specie: dal tempo arcaico della preistoria, in cui agricoltori stanziali si contrappongono a cacciatori nomadi, e «Quelli che chiamiamo barbari in realtà sono nomadi» (pag.63), fino ai nodi contorti dell’attualità, a quell’odio insensato che tinge la storia di razzismo, di violenza gratuita nei confronti di qualsivoglia diverso. Il barbaro è l’oscura perenne minaccia che giustifica l’aggressione più crudele: è accaduto ieri, accade oggi. Per questo il romanzo è collocato in un tempo indeterminato ed in uno spazio che è il confine, di fronte al deserto, nell’attesa di una apocalisse, che non si sa se sarà una palingenesi o soltanto una fine. È il mito della nostra storia alla ricerca di una rivelazione di senso.

Perché esiste l’impero

Il protagonista, pensiero pensante di questo racconto, è un magistrato, «uomo di mezza età»  (pag.29) che vorrebbe vivere «nel tempo lento, ricorrente, circolare delle stagioni» in un’apparente aurea mediocritas fatta di azioni ripetitive e di blandi amori occasionali con le donne, sguattere e cuoche, della locanda. Ma l’arrivo del colonnello Joll lo pone di fronte al dilemma di non essere complice di una violenza insensata nei confronti di un vecchio e di un ragazzo, imprigionati perché barbari. Sa che la «procedura» di cui parla Joll è la tortura, e cerca di non occuparsene e di non sentire le urla che il granaio contiene. Ma la sera non riesce a trattenersi, prende «la lanterna» e scopre il cadavere del vecchio cucito in un lenzuolo accanto al ragazzo che dorme con le «mani legate» «gonfie e violacee»: lo tocca e quello «sussulta e comincia a tremare».

Non volevo impegolarmi in questa cosa. Sono un magistrato, un funzionario responsabile al servizio dell’Impero; faccio il mio lavoro in questo pigro territorio di frontiera e aspetto di andare in pensione. Incasso tasse e decime, amministro le terre demaniali, mi assicuro che la guarnigione riceva rifornimenti e controllo i giovani funzionari, […] tengo d’occhio il commercio e presiedo il tribunale due volte a settimana. Per il resto guardo l’alba e il tramonto, mangio e dormo, e mi accontento. […] Non ho chiesto altro che una vita tranquilla in tempi tranquilli. (pag.11)

Ma i tempi non sono mai tranquilli: «a ogni generazione, a un certo punto si diffonde una specie di isteria sui barbari» (pag.11) e questa volta «l’Impero» doveva necessariamente prepararsi alla guerra per evitare «che le tribù barbare del nord e dell’ovest potessero riunirsi» (pag.12). Si tratta di una necessità ineluttabile e incomprensibile, tanto più per il magistrato, che crede  «nella pace, forse addirittura nella pace ad ogni costo» (pag.18). Cerca perciò di resistere alla successione degli eventi, sentendo sempre più ambigua la sua collocazione di funzionario dell’Impero e di oppositore dell’Impero. Dal cortocircuito non può che derivare un oscuro senso di colpa. Un sottofondo kafkiano innerva in effetti questo racconto che sembra in dialogo, in prima battuta, con La costruzione della muraglia cinese in cui l’edificazione «contro i popoli del nord» è voluta non da un transeunte e mortale imperatore ma da un perenne impero: «Fra le nostre istituzioni più oscure vi è certamente l’impero» scrive il narratore kafkiano. E Il magistrato senza nome del nostro racconto, in verità, deve costantemente fare i conti con il potere oscuro e senza volto dell’Impero emblematicamente incarnato dal volto senza sguardo di Joll. La violenza del potere è la violenza della storia, che è nel tempo dell’Impero:

Che cos’è che ci ha impedito di vivere nel tempo come i pesci nell’acqua, come gli uccelli nell’aria, come i bambini? È colpa dell’Impero! L’Impero ha creato il tempo della storia. L’Impero ha deciso di esistere non nel tempo lento, ricorrente, circolare delle stagioni, ma in quello acuminato del trionfo e della sconfitta, del principio e della fine, della catastrofe. L’Impero si condanna a vivere nella storia e complotta contro la storia stessa. (pag.167)

Il tragico destino della condizione umana è nel tempo lineare della storia che spezza la circolarità del tempo della natura qui evocata nei suoi tratti evangelici. Alla fine della sua vicenda il magistrato tenta di scrivere quanto è accaduto. «Per un bel pezzo fisso quello che ho scritto» (pag.191)

Penso: «Volevo vivere fuori della storia. Volevo vivere fuori della storia che l’Impero impone ai suoi sudditi, anche a quelli perduti. Non ho mai augurato ai barbari il fardello della storia dell’Impero. Come posso pensare di dovermi vergognare di questo?» (pag.192)

Ma è un’illusione vana poter scrivere la storia, che lascia emergere dal deserto soltanto reperti incomprensibili come «le tavolette di pioppo», che il magistrato colleziona, «su cui erano tracciati caratteri di una scrittura mai vista.» (pag.19) Perciò:

Penso: «Un giorno, quando verranno a rovistare tra queste rovine, saranno più interessati alle vestigia del deserto che a qualunque cosa io possa lasciare scritta. E giustamente.» (Così passo le sere a ungere le tavolette una per una con olio di semi di lino e poi le avvolgo in tela cerata. Appena cala il vento, mi dico, andrò a seppellirle dove le ho trovate). (pag.192)

È inutile pretendere di raccontare la storia. A meno che non si dica «la verità». 

Perché il dolore è verità

Quando rivedo il colonnello Joll, appena ha un momento libero, porto la conversazione sulla tortura. – E se il suo prigioniero dice la verità, – chiedo, – e tuttavia gli succede di non essere creduto? Non è una condizione terribile? Pensi un po’, essere pronti a cedere, cedere e non avere più niente da cedere. Essere ridotti allo stremo ed essere forzati a cedere ancora! Che responsabilità per l’inquisitore! Come fa a sapere se un uomo le ha detto la verità?

C’è un tono particolare, – dice Joll. – Un tono particolare nella voce dell’uomo che dice la verità. L’allenamento e l’esperienza ci insegnano a riconoscere quel tono.

Il tono della verità! Riesce a riconoscerlo nella normale conversazione? Riesce a capire se dico la verità?

No, lei adesso mi fraintende. Mi riferisco ad una situazione particolare. A una situazione in cui cerco la verità e in cui devo esercitare una certa pressione per scoprirla. In principio mi dicono solo bugie, capisce… […]

Il dolore è verità; tutto il resto è soggetto al dubbio. È questo che ricavo dalla mia conversazione col colonnello Joll. (pagg. 7-8)

Il lettore, all’inizio della vicenda, potrebbe credere al colonnello Joll e attribuire alla tortura il significato limitato di questa massima sapienziale, si tratta invece del significato della storia del magistrato, che solo attraversando il dolore nel corpo irreparabilmente danneggiato di una ragazza e sperimentandolo poi nella propria carne scoprirà in sé la verità. E si tratta – più profondamente – del significato della storia che sta intorno e fuori al romanzo, nel tempo del lettore, in cui, per esempio, esiste Guantanamo e muore Giulio Regeni.

Perché non riusciamo a comprendere l’Altro                                                           

Una donna barbara lasciata lì dopo che il trattamento di Joll l’ha tramutata in una mendicante, cieca e storpia, viene accolta in casa dal magistrato che cerca di celebrare un rito espiatorio sul suo corpo offeso: è la lavanda dei piedi, poveri piedi rotti, che irrigidisce le distanze tra l’uomo-celebrante e la donna-vittima in ruoli incomprensibili ad entrambi. La donna manipolata continua ad essere nelle mani della giustizia dell’Impero: «La distanza tra me e i suoi aguzzini, mi rendo conto, è insignificante. Rabbrividisco.» (pag.36) Il magistrato dal contatto evangelico dei piedi passa a lavare tutto il corpo della ragazza e cosparge di olio una nudità che gli rimane estranea specialmente quando è distesa come un cadavere accanto a lui nel suo letto.

Sdraiarmi a letto vicino a lei e addormentarmi oppure avvolgerla in un lenzuolo e seppellirla sotto la neve, mi sembra identico. (pag.55)

La donna barbara dal corpo martoriato nasconde il segreto della propria interiorità che il magistrato cerca di scoprire ma da cui è inesorabilmente respinto, rivelandosi a se stesso uguale ai «devoti servitori della verità, dottori dell’interrogatorio» (pag.12), uno che appartiene ad un mondo diverso da quello dei barbari, che ne è attratto, forse, ma che non capisce.

Non sono in grado di stabilire un rapporto tra il suo essere donna e il mio desiderio. Non posso neppure dire con certezza se la desidero oppure no […] con questa donna qui è come se non ci fosse un interno, solo una superficie sulla quale faccio avanti e indietro inutilmente, cercando un ingresso. È così che si saranno sentiti i suoi torturatori quando andavano a caccia del suo segreto, qualunque esso fosse? Per la prima volta sento nei loro confronti una forma di arida pietà […] (pag.54)

 Per cercare di svelare il mistero di quel corpo barbaro che lo attrae e lo respinge il magistrato alla ricerca di un’anima assume il comportamento di Psiche che spia Amore.

Accendo la candela e mi chino sulla forma della quale sembra che in qualche misura sia diventato schiavo. Seguo con dita leggere i contorni del suo viso, la mascella squadrata, gli zigomi alti, la bocca larga. Le sfioro appena le palpebre. Sono sicuro che è sveglia anche se non si muove.

[…] Eppure quando mi chino su di lei e le sfioro la fronte con la punta delle dita, sto attento a non far gocciolare la cera. (pagg.54-55)

Perché esiste la dignità del corpo

Constatata l’impossibilità di stabilire una relazione con la donna, il magistrato decide di riportarla tra la sua gente. Organizza una spedizione, attraversa il deserto, e per la prima volta, quando sta per perderla, fa l’amore con lei. Le chiederà di tornare indietro con lui, ma lei silenziosamente sceglierà di essere ai suoi occhi soltanto

una ragazza tarchiata, con la bocca larga e la frangia che guarda il cielo dietro di me, una straniera venuta da luoghi sconosciuti che ora se ne torna a casa dopo un periodo tutt’altro che felice. (pag.92)

Ma la spedizione costa cara al magistrato che al suo ritorno viene accusato di collusione con il nemico. Viene arrestato, abbrutito dapprima nella prigionia, subirà, poi, tutta la violenza che il suo corpo sarà in grado di sostenere. Diventerà per volontà di Joll il divertimento dei suoi aguzzini che lo condurranno a sperimentare attraverso il dolore la più profonda umiliazione dell’essere umano. Lo strazio insopportabile a cui è sottoposto il magistrato sollevato dal suo incarico evoca in certi tratti il supplizio di Cristo schernito dai suoi aguzzini e il suo grido prima di spirare che nel Vangelo di Marco (15, 34-5) viene frainteso:

grugnisco, grido. – Sta chiamando i suoi amici barbari, – commenta qualcuno. – Quella che sentite è la lingua dei barbari -. Ridono. (pag.152)

Ma nel romanzo di Coetzee non c’è resurrezione a giustificare la morte. Rimane solo la sofferenza degradante che ha tanto spazio nella narrazione. Finché il magistrato ritornerà alla sua funzione dopo la fuga di Joll e dei suoi soldati. Allora al protagonista sarà evidente di essere sempre stato complementare a Joll

Perché io non ero, come mi piaceva credere, l’opposto indulgente ed edonista del gelido, rude colonnello. Ero la menzogna che l’Impero si racconta quando le cose vanno bene, e lui la verità che l’Impero dice quando comincia a soffiare vento di tempesta. Due facce dell’Impero, né più né meno. (pag.170)

Per questo la donna barbara non poteva stare con lui. I barbari sono solo un pretesto. Per questo Coetzee intitola il suo romanzo con le parole di Kavafis. 

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