Da Cento micron a In utero: romanzo e divulgazione scientifica. Intervista a Marta Baiocchi
A cura di Claudia Boscolo
Marta Baiocchi, biologa e ricercatrice romana, è autrice del romanzo Cento micron (minimum fax, 2012) e del saggio di divulgazione scientifica In utero (Sonzogni, 2018), in cui approfondisce la possibilità di fecondare l’uovo di una donna al di fuori del suo corpo.
In Cento micron Baiocchi ha raccontato la storia di Eva, una biologa, ricercatrice in un dipartimento universitario dove cerca di sopravvivere a rapporti di potere estenuanti. Nonostante ciò, mette passione e dedizione nel suo lavoro, non cogliendo appieno le dinamiche che la circondano. In questo romanzo viene descritto un catalogo di manifestazioni del potere, da quello accademico, a quello dei soldi, a quello dato dall’appartenenza a una fascia generazionale, e infine, il tema principale del racconto, cioè il potere che l’uomo esercita sulla natura. Quando una vecchia amica ricchissima e molto determinata decide di riavere indietro la cosa più importante della sua vita, cioè i suoi embrioni, sottratti in maniera illecita, Eva decide di darle una mano. Baiocchi esplora una materia delicata come la bioetica, vista da punti di vista diversi, incluso quello di una proprietaria di un colosso farmaceutico. Uno dei numerosi punti forti della scrittura di Marta Baiocchi consiste nella sua abilità nel dare vita a personaggi credibili, nel rendere la verosimiglianza delle ambientazioni, e inoltre nella limpidezza dello sguardo verso tematiche complesse che affronta dal suo punto di vista, cioè quello della scienziata. La qualità cristallina, precisa della sua lingua aiuta il lettore ad immergersi nelle questioni etiche che pone nel corso della trama. Si tratta di tematiche di grande importanza, in quanto pochi esseri umani oggi detengono il potere di sottoporsi a interventi, il cui fine è la trasmutazione da uomini a dei.
Il filone della ricerca scientifica che si occupa della procreazione negli ultimi anni ha scardinato una serie di convinzioni su cui si è basata la società per millenni. Oggi l’ovulo si può vedere, toccare, scambiare, vendere. Ma come funzionano davvero la donazione di sperma e di ovociti per alcuni, e la gravidanza per altri? Cosa sarà possibile scrutare e cosa modificare, nelle poche cellule di un embrione in vitro, in un futuro che è già quasi presente? Come sta cambiando, e come potrebbe ancora cambiare, il concetto di maternità e paternità?
Tutte queste questioni, che emergono nel romanzo, sono anche al centro del suo saggio. Abbiamo posto alcune domande all’autrice, per comprendere quanto la divulgazione scientifica oggi sia, nel panorama editoriale, un genere letterario più efficace e più amato del romanzo, in relazione alle grandi tematiche che occupano la nostra epoca, fra le quali la pandemia, che tuttavia non è l’unica.
Claudia Boscolo: Come sei passata dallo scrivere narrativa alla divulgazione scientifica?
Marta Baiocchi: Beh, in modo abbastanza semplice: mi hanno contattata da Sonzogno, chiedendomi se avevo voglia di scrivere un saggio sulle nuove tecnologie riproduttive. Sonzogno ha una collana di divulgazione pop, che affronta temi di salute e scienza in modo semplice, e soprattutto con uno stile diretto e colloquiale. Mi sono resa conto che, se chiedevano a me un saggio di quel tipo, era principalmente perché contavano sulla mia capacità di scrivere in un tono comunicativo, vivace, che sapesse raggiungere un pubblico ampio di lettori. L’idea mi è piaciuta subito, perché metteva insieme i miei interessi più grandi: la scienza e la scrittura. Una proposta impossibile da rifiutare.
CB: Trovi che la divulgazione risponda in modo più efficace a una tua esigenza di raccontare la scienza anche a chi non può accedervi attraverso le pubblicazioni scientifiche sempre più di nicchia e inaccessibili?
MB: Mi sono spesso chiesta se questa battaglia, che dura da alcuni anni e che in realtà si è mossa proprio dall’interno del mondo scientifico, per una maggiore accessibilità ai dati per il pubblico non specializzato, abbia davvero un senso. Ovviamente fa brutta impressione dire, lasciate perdere, vi confondete le idee e basta, e a volte addirittura vi spaventate inutilmente, però è quello che spesso ho visto succedere, e quindi corro il rischio di dirlo lo stesso. Del resto, è quello che succede anche a me, quando sbircio in campi diversi dal mio, come la fisica o persino alcune parti della chimica. Quando poi chiedo ulteriori spiegazioni a qualcuno del campo, spesso viene fuori che mi ero fatta un sacco di idee strampalate.
Però, ho avuto modo di osservare che la divulgazione può dare grandissima soddisfazione, fin da quando, tanti anni fa, mi capitava di parlare del mio lavoro e dei suoi problemi alle cene con amici che si occupavano di cose distanti. Il fatto è che ti accorgi che solo raccontando in modo semplice quelle che magari per te sono un paio di banalità, molti ti ascoltano con stupore, o addirittura affascinati. A volte sembrano essere trasportati all’improvviso in punti di vista che per loro sono completamente nuovi. Uno degli esempi più ricorrenti è quando racconto che i topi che vengono usati per la sperimentazione animale, non è che il ricercatore se li va a catturare uno per uno in campagna, ma li compra da aziende specializzate, che li fanno pagare magari cinquecento euro l’uno, e a volte anche molto di più. Questo può bastare da sé a far capire che nessun ricercatore ha voglia di usare animali da esperimento se non pensa che ci sia davvero una buona ragione. Specialmente con la scarsità di finanziamenti degli ultimi anni.
Scrivere un saggio poi è un’esperienza davvero affascinante, perché ti costringe a rianalizzare e rimettere in ordine concetti che per te sono ormai acquisiti e metabolizzati da tanto tempo. Devi identificare e isolare e scegliere quelli che pensi siano i punti chiave, da indicare a chi si affaccia a un certo argomento per la prima volta, e poi trovare un filo logico, lasciami dire addirittura narrativo, che faccia almeno intuire al lettore come alcune tecnologie, o più in generale alcuni argomenti di ricerca, si sviluppino da processi che durano da molti anni, o addirittura da secoli, attraverso ipotesi, ripensamenti, nuove scoperte. La ricerca e la tecnologia sono organismi pulsanti, vitali, in continua mutazione. Forse è questo che mi interessa di più trasmettere, e spero di esserci riuscita almeno un po’.
CB: Quanto credi che la scarsa dimestichezza dei lettori italiani con la divulgazione scientifica abbia influenzato la discussione pubblica sull’epidemia in corso?
MB: Le nozioni di scienza di base in generale in Italia sono scarsissime, eppure non è tanto quello il problema, secondo me. È piuttosto la mancanza della comprensione di un metodo, di un punto di vista, di un approccio alla realtà. Questo è vero non solo per i cittadini ma anche, disgraziatamente, per i governanti, e ad aggravare ancora di più la situazione ci si sono messi anche i giornalisti, la maggior parte dei quali ha mostrato enormi falle nella capacità di riconoscere e selezionare i punti chiave, le fonti, e i toni. Se mi permetti una battuta cattiva, il problema, nella pandemia come in molte altre circostanze, non è stato tanto che i cittadini abbiano una scarsa dimestichezza con la divulgazione, ma che la divulgazione ha una scarsa dimestichezza con sé stessa.
Quello che mi piacerebbe, per esempio, non è che tutti sappiano fin da piccoli cos’è l’Rt (numero di riproduzione di base) di un’infezione, ma che abbiano un’idea generale di che cos’è una crescita esponenziale, il che basterebbe a capire che le proiezioni statistiche su come si diffonderà un’epidemia hanno per natura una serie di limiti, ma la situazione è comunque preoccupante. Ma vorrei anche che tutti ricordassero che le malattie infettive sono state la prima causa di morte nel mondo, in Europa e in Italia, fino a meno di cento anni fa. Che i nostri bisnonni sono morti principalmente di sifilide, di tubercolosi, di polmonite, di vaiolo, di colera e tante altre di cui stiamo perdendo la memoria. E che tutti sapessero anche che i primissimi farmaci per le infezioni erano sostanze molto, molto tossiche, eppure la gente assaltava le fabbriche, pur di avere una speranza di guarire, per esempio, dalla sifilide. E che poi ci sono voluti decenni, prima di poter arrivare a molecole più sicure come quelle che abbiamo oggi. Queste, e tante altre nozioni generali aiuterebbero a capire che la natura quasi mai ti offre, come si dice, il pranzo gratis. Capire la natura e proteggersi dai suoi aspetti più violenti costa tanto tempo e tanta fatica, ed è un processo che non avrà mai una fine, finché esisterà un uomo.
Se questo tipo di consapevolezza sugli approcci della scienza fosse più diffuso, forse potremmo risparmiarci casi vergognosi come Stamina (che inizialmente, ricordo, ottenne un voto a favore praticamente unanime dal nostro Senato), oppure tante altre tristissime diatribe sull’ultima cura più o meno miracolosa.
Per estensione, mi allargherò a dire che forse riusciremmo un giorno addirittura essere più pronti a riconoscere e pretendere dai nostri governi proposte realistiche su molte altre questioni cruciali per la nostra società, e a controllare e pretendere che vengano rispettate dopo, invece di lasciarci offrire vaghe caramelle come spesso è accaduto.
CB: Quali sono, secondo te, i pregi e i limiti della divulgazione scientifica italiana?
MB: Sono problemi sfaccettati, che per brevità definirò problemi di competenza. Da una parte la scarsa confidenza con la scienza si estende ovviamente dai cittadini, ai governanti, agli scriventi. Dall’altra resiste ancora un antico problema, comune credo alla saggistica delle altre discipline: un’eccessiva ampollosità, una specie di curioso sentimento che più parli complicato più sei intelligente, e più l’argomento è importante. In realtà è vero esattamente il contrario: per spiegare bene una cosa, bisogna conoscerla a fondo, e poi aver riflettuto a lungo sui concetti chiave, e infine aver identificato il linguaggio più semplice e diretto per veicolare i tuoi concetti. Il linguaggio che usi è fondamentale, e in questo trovo che la lingua italiana stessa in qualche modo ci sia di ostacolo. La semplicità e l’economia della parola, il modo diretto di affrontare le questioni: questa è una cosa importantissima che ho appreso negli Stati Uniti, riguardo alla comunicazione scientifica, e non solo quella. Ma scrivere in modo semplice è difficile, richiede lavoro e molte capacità diverse. Qualche volta mi sono persino chiesta se in parte il nostro problema non sia anche legato al fatto che la lingua italiana è scritta, letta e parlata da un numero di persone molto più esiguo dell’inglese. Statisticamente, suppongo, sarà più difficile trovare qualcuno che raccolga sia una buona competenza scientifica, sia una buona capacità espressiva. In questo senso, forse sono di parte, ma in generale mi sembra che da noi riesca meglio chi ha una formazione scientifica e arriva successivamente al giornalismo o alla divulgazione, piuttosto che il contrario. E che questo dipenda almeno in parte anche dal fatto che oggi fare ricerca scientifica non può prescindere da un certo grado di addestramento all’uso della lingua inglese. O meglio ancora americana.
CB: Quando hai deciso di scrivere In utero qual era la tua principale preoccupazione?
MB: Beh, in fondo ti ho già risposto: farmi capire, farmi capire, farmi capire. Immedesimarmi in un lettore digiuno dell’argomento, e cercare di indovinare quali punti gli sarebbero potuti essere più ostici, e in quale modo renderli comprensibili. Avevo osservato spesso, leggendo libri o articoli di altri, che è molto facile dare per scontato che i lettori abbiano una certa nozione di base, che invece non hanno affatto. Insomma, rischi che la tua storia parta da troppo vicino. D’altra pare, c’è anche il rischio di partire da troppo lontano, cioè di spiegare cose che il tuo pubblico conosce già bene, col rischio di annoiarlo. Oltretutto, il tuo pubblico non lo vedi in faccia, il che ti consentirebbe di aggiustare il tiro. Al contrario, sai che è composto di tanti lettori diversi, con competenze di base e curiosità diverse. Perciò alla fine cerchi di fare una media, di correre sul filo. Devo aggiungere che un sistema che ho usato molto è stato quello di cercare di rimettermi nei panni di me stessa quando ero ai primi esami universitari: cercare di ricostruire quali concetti, all’epoca, avevo fatto più fatica a capire, quali mi avevano sorpreso, quali mi avevano divertito – perché ci si diverte – e quali fossero stati addirittura entusiasmanti da scoprire.
CB: Tornando alla narrativa, invece, ti sembra che la produzione italiana si stia aprendo in modo convincente alle tematiche importanti di questo periodo storico, cioè ai temi di quello che oggi viene chiamato il tardo Antropocene?
MB: Devo confessare che non sono mai stata un’appassionata del genere distopico, a meno che non si trattasse di scrittori con un grande valore intrinseco, come possono essere Huxley, McCarthy o Houellebecq. Trovo che la distopia sia sempre ad alto rischio di moralismo, oltre che a quello di dire sciocchezze. Probabilmente per la mia formazione, tendo più a vedere il mondo, e il genere umano su di esso, come componenti mutevoli, diretti da leggi fisiche di cui probabilmente non sappiamo ancora quasi nulla, e sulle quali abbiamo un potere molto, molto inferiore di quello che crediamo. Non sono una di quelli che si angosciano particolarmente per la possibile estinzione del genere umano: se pensi che, secondo alcune teorie, in alcuni periodi del passato remoto – decine di migliaia di anni fa – e probabilmente in più occasioni, la popolazione umana sulla Terra si è ridotta a poche migliaia di unità in seguito a catastrofi varie ed eventuali, capisci che mi è un po’ difficile mettermi in ansia. Più che da come le cose possano, e di solito vadano a finire male, io sono affascinata da come e perché qualche volta invece finiscano bene. Può sembrare l’affermazione di un’ottimista, e invece è esattamente il contrario. Io sono affascinata dalle capacità degli esseri umani (e di tutto il mondo vivente) di adattarsi praticamente a qualunque circostanza, dalla sia pur limitata capacità dell’uomo di conoscere il mondo in cui vive, e di difendersene entro certi limiti, dalla sua capacità di essere solidale, almeno entro certe circostanze, e sono affascinata persino dalla sua capacità di restare cieco di fronte a grandi orrori, pur di continuare a rimanere vivo. In sintesi, invece di chiedermi come e quando e perché il mondo salterà per aria, sono di quelli che tutti i giorni si sorprendono piacevolmente perché non è ancora saltato, e si interrogano sul perché.
CB: Fra le due modalità espressive, romanzo e saggio, quale senti più congeniale e per quale motivo?
MB: Devo dire che le amo di uguale amore, forse perché in realtà, pur non avendolo pianificato, mi accorgo a posteriori di lavorare alla narrativa e alla saggistica con animo sostanzialmente simile. Nella narrativa mi ritrovo a inserire inevitabilmente temi scientifici, perché sono argomenti di vitale importanza per me; nella saggistica mi lascio andare spesso (e volentieri) trascinare nella narrazione, che poi in fondo è il modo più potente di coinvolgere qualcuno nelle tue passioni, o in quello che ritieni importante comunicargli. In questa possibilità di saltare da un genere all’altro con uguale piacere e divertimento, credo di essere molto fortunata.
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