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diretto da Romano Luperini

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Perché leggere Il levitatore di Adriàn N. Bravi

 Le storie delle mie levitazioni sono iniziate quasi trent’anni fa, in un modo del tutto incidentale. Avevo compiuto da poco quattordici anni ed ero un ragazzo piuttosto gracile, sempre con il mal di testa e il raffreddore addosso. A casa, in particolar modo mia nonna materna, mi aveva vietato di fare qualunque tipo di esercizio fisico per via dello streptococco, di cui credo di non avere mai sofferto, salvo un paio di polmoniti e una scarlattina che mi aveva lasciato il torace simile a una fragola. Lei se la prendeva con quei ragazzi della strada che tossivano o starnutivano senza mettersi la mano davanti alla bocca. […] A me dispiaceva molto non poter disporre della stessa libertà che avevano i miei amici, soprattutto quando sentivo dalla finestra della mia stanza il baccano dei ragazzi che si rincorrevano l’un l’altro. […] Quando, però, tempo dopo, avevo scoperto la levitazione e mi ero visto sollevare da terra da una misteriosa forza cosmica, mi verrebbe da dire oggi, in una circostanza del tutto inattesa, mi ero convinto anch’io che quelle sudate improvvise, quelle zuffe e quella sporcizia tra le unghie non facessero per niente bene, né alla salute né allo spirito.

Durante quel periodo di chiusura e di solitudine, mentre ascoltavo i rumori e le urla dei compagni che provenivano dalla strada, era iniziata la gestazione di una fase interiore che poi, più tardi, si è manifestata attraverso la sollevazione del corpo.

(Adriàn N. Bravi Il Levitatore, Quodlibet, 2020; pagg. 11-13)

Perché tutti hanno bisogno di leggerezza

Il racconto fantastico ha una lunga serie di nobili antecedenti letterari e tra le auctoritates del genere alcuni scrittori sono considerati dei veri e propri numi tutelari; tra gli antenati Adriàn N. Bravi sembra scegliere Calvino, e non tanto il romanziere, quanto il metanarratore delle Lezioni americane, teorico della «sottrazione di peso» utile a distanziare la scrittura da «pesantezza» «inerzia» «opacità del mondo». Costruisce così la vicenda su un personaggio, Anteo Aldobrandi, io narrante della sua  storia vera, che ha la naturale capacità di levitare se solo viene lasciato nella possibilità di stare tranquillo a casa sua e sedersi su un «cuscino mezzo indiano» per staccarsi da «questa terra maledetta, come diceva in versi sciolti un poeta veneziano» (pag. 97). E se Calvino ricordava il mito di Perseo, il protagonista tiene a precisare la dimensione della sua realtà in opposizione alla mitologia:

A margine di tutto questo vorrei aggiungere che io, a differenza dell’altro Anteo, quello gigante della mitologia che mangiava carne di leone cruda e si fortificava a contatto con la terra, sua madre, la dea Gea, mi indebolisco se trascorro troppo tempo in piedi, senza levitare, […] nel senso che io mi rafforzo di più per aria. E se Eracle, nemico di Anteo, era riuscito a sconfiggere il gigante e a strozzarlo sollevandolo da terra per indebolirlo, a me, lo stesso Eracle, avrebbe solo rafforzato, perché se qualcuno mi tira su e mi stacca da questa superficie che ci imprigiona, mi fa solo un piacere. (pag. 199)

Del resto, questo Anteo antifrastico ha tutte le caratteristiche dell’antieroe: dotato di una robusta dose di inettitudine, rimane disorientato dalla normalità degli altri con cui rimane in straniata relazione. Ma il suo equilibro viene rotto dall’arrivo di una «busta verde pastello» consegnatagli da un maligno postino (perfetta antifrasi dell’angelo). È l’inizio della «questione Ginetta». L’ex moglie di Anteo, Ginetta Guerra, comincia la sua opera di persecuzione giudiziaria dell’ex marito accusandolo di stare appostato vicino la sua casa, di assillarla di telefonate, di avere atteggiamenti morbosi nei suoi confronti: di essere un pericoloso stalker. Così ogni «busta verde pastello» che gli viene recapitata è una stazione della via crucis che conduce dall’ammonimento del questore fino al processo penale. Ovvio, perciò, che Anteo non riesca più a «sgravitarsi»: non riesce più a sollevarsi da terra, tirato com’è verso il basso dal venticello della calunnia.  E il fatto più strano in questa normale follia legale, come rileva Fiorella Testa, l’avvocato a cui si rivolge Anteo, è che il matrimonio tra i due è finito da cinque anni e che da due anni sono divorziati. Ginetta, peraltro, ha un nuovo compagno, seppure «monociglio», e l’unico contatto tra gli ex coniugi è costituito da Plotina, «metà golden retrive e metà un’altra razza […] color nocciola» (pag. 41), che Anteo può avere con sé soltanto in giorni e orari stabiliti prelevandola da casa di Ginetta. E per quanto Anteo si disponga ad osservare scrupolosamente (per quanto gli è possibile) le prescrizioni e con rammarico le limitazioni, Ginetta lo accusa di maltrattamenti nei confronti di Plotina. È assolutamente normale, perciò, che

mentre facevo i miei ragionamenti e mi domandavo delle cose che non avevano risposte, ho pensato a quella santa di Douceline, una santa levitatrice, che se ne andava in giro per la Provenza con un mantello di pelle di maiale addosso. Si racconta che un giorno Carlo d’Angiò, conte di Provenza e figlio del re di Francia, Luigi VIII, detto il Leone, aveva trovato per aria Douceline, che se ne stava lì a levitare per i cavoli suoi. Il conte l’aveva tirata giù di malo modo poiché pensava che lo stesse ingannando per fare la furba, invece no, lo faceva per elevarsi dal mondo ostile che calpestava ogni giorno. Dunque, quasi offeso, aveva ordinato a qualcuno di fondere del piombo e di gettarlo sui piedi della santa in modo da legarla al pavimento. Sembra che Douceline non sia riuscita a camminare per molto tempo, per quanto le faceva male la scottatura. Quando, però, Carlo d’Angiò aveva capito quali fossero le virtù e le fatiche della santa, aveva finito per diventare un suo devoto. (pag.73)

Perché non tutti hanno un santo in paradiso

Anteo rivela un ulteriore (profondo) legame con l’ex moglie «con quel nome adespota uguale al mio, perché anche Anteo è un nome adespota come Ginetta» (p. 46). Se gli ex coniugi sono «uguali» per il «nome», ho pensato che Bravi volesse indirizzare l’attenzione del lettore sui cognomi. Che Ginetta si cognominasse Guerra, rientra in substatia rerum, e questo è il livello più ovvio. Ma Guerra e Aldobrandi mi hanno condotto nel XVI canto dell’Inferno dove Dante è circondato da Guido Guerra (v. 38) Tegghiaio Aldobrandi (v. 41) e Iacopo Rusticucci, il quale afferma che «[…]certo / la fiera moglie più ch’altro mi nuoce.» (vv. 44-5). Quanto dice Iacopo Rusticucci, nel girone dei sodomiti, suona come beffarda iperbole se rivolta ad una donna, per quanto ex moglie: sembrerebbe così feroce (fiera) da rendere preferibile alla sua compagnia l’omosessualità e la croce della punizione eterna…

E rispetto ad una condizione del genere, diventa comprensibile che si impari a levitare. Sempre che qualcuno non ti versi piombo fuso sui piedi, o ti invii buste verdi pastello. Lo sguardo pietrificatore di Medusa ha mille possibilità di realizzarsi, tarpando le ali dei sandali di Perseo o lasciando Anteo adagiato sul suo cuscino. A meno che qualcuno non venga a salvarti.

Perché l’immaginazione può salvare

In esergo Bravi fa precedere la narrazione da una citazione di Ugo di San Vittore: «Ascendit corpus, / et descendit spiritus». Si tratta  in realtà di una pseudo citazione monca, il testo originale recita infatti: «Corpus sensu ascendit, spiritus sensualitate descendit.» (De unione corporis et spiritus, PL 177, 85). Una vera auctoritas è sempre utile per cedere realtà ad una narrazione fantastica. E un dottore della Chiesa, uno dei capisaldi delle filosofia medievale, determinante anche per la successiva Summa di Tommaso, sembra possedere tutte le caratteristiche utili per svolgere la funzione di garante della veridicità di quanto viene poi narrato. Ma Bravi è uno specialista di filosofia medievale e dunque perché ha cassato «sensu» e «sensualitate»? Ugo di san Vittore in questo passo del suo trattato dal titolo emblematico parla della scala di Giacobbe utile agli uomini per ascendere a Dio, il quale la usa per mettere in comunicazione l’alto con il basso: la scala che mette in comunicazione la terra e il cielo, per Ugo, è il simbolo della comunicazione tra corpo e spirito. Il «senso» e la «sensazione» sono i mezzi che consentono il passaggio da corpo a spirito che poi, attraverso la contemplazione e la rivelazione, si congiunge a Dio.

Il «senso è lo strumento della sensazione e l’origine dell’immaginazione» e l’«immaginazione esiste [est] nella sensualità». Se dunque ricomponiamo la citazione avremo che il corpo ascende attraverso il senso che è l’origine della sensazione che consente allo spirito di discendere nel corpo. L’immaginazione è il primo passo dell’ascesa: noi non siamo angeli capaci di volare grazie alla contemplazione divina, per questo noi abbiamo bisogno di una scala. Anteo non è un angelo (né uno dei tanti santi che cita nel suo racconto), dunque per levitare ha bisogno dell’immaginazione di cui parla Ugo. E con l’immaginazione ognuno di noi può levitare come Anteo. Forse non lo abbiamo mai fatto ma lo abbiamo sempre saputo. O forse lo abbiamo sempre fatto e non l’abbiamo mai saputo.

non ho mai capito se era una forza proveniente dal basso che mi spingeva verso l’alto o era una forza di attrazione che dall’alto mi tirava verso di sé – sono dinamiche difficili da comprendere (pagg. 197-8)

Perché abbiamo bisogno di un lieto fine

Non dirò come si conclude la «questione Ginetta», ma alla fine Anteo dimostrerà di non essere in grado di stabilire una relazione amorosa con una donna, per quanto si chiami Letizia Cavalcanti (garanzia di gioiosa leggerezza, come insegnerebbe Calvino). Finito il rapporto sessuale si esaurisce il contatto   

A notte fonda, però, sono tornato a casa (mi pare di avere detto che a me, dormire fuori casa, nei letti degli altri, non mi ha mai entusiasmato, e quel giorno in particolare, […] più che mai, avevo bisogno di infilarmi sotto le mie lenzuola). (pag. 196)

Rimane invece l’amicizia. Ad un «amico orologiaio», voyeur come «il Jeff di Hitchcock» (pag. 199), che ha scoperto ciò di cui è capace, Anteo insegnerà l’arte di levitare.

Avrei voluto specificargli, ma non ho fatto in tempo a dirglielo, che levitare è come volare verso una luce incerta, uguale agli insetti nella notte, che a forza di gironzolare nel buio, cercano la vita, invece trovano la morte. Poi mi sono seduto sul cuscino, ho chiuso appena gli occhi e ho continuato a levitare. (p. 201)

Anteo, chiuso in una casa, cerca la salvezza personale

Mi sentivo felice quando ero per aria e siccome la felicità è un sentimento che è meglio non svelare per non attirare l’invidia delle persone, ho trascorso molto tempo della mia vita a nascondermi; non volevo che nessuno mi vedesse fare quella cosa, nemmeno i miei genitori (pag. 21)  

Nel tempo del Covid-19, quando ognuno ha sperimentato suo malgrado l’attualità del Viaggio nella mia camera di Xavier de Maistre, avremmo bisogno di innalzarci dalle bassezze del mondo attraverso la forza della solidarietà: stare chiusi nella nostra stanza a gustare la nostra solipsistica felicità è davvero viaggiare verso la morte: rimanere pietrificati da quel volto che vorremmo fuggire e verso cui andiamo come insetti accecati dall’istinto. Il richiamo alla ragionevolezza, al pensiero, così autorevolmente ricordato da Romano Luperini, mi conduce a Paul Valéry: «Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume.» Lo cita Calvino nella sua Leggerezza, lo cita Luperini nel suo L’uso della vita. 1968. E il riferimento a Fortini e alla necessità politica di non chiudersi in una dimensione privata, mi fa sperare che Bravi non voglia indicare  la via di fuga solitaria, ma la necessità, per non morire, di trovare una qualche ragione di stare qui su questa terra desolata, e non maledetta, come diceva l’inventato poeta veneziano, anche se esistono le ex mogli.

Planare sulle cose dall’alto, come voleva Calvino, ci servirà a non farci sballottare come una piuma dai venti insensati del caso. Ma nessuno si salva da solo. Se questo avremo compreso allora sarà un lieto fine. Bravi mi ha condotto a riflettere su tante suggestioni culturali, a recuperare tutta una linea di interessi medievali e perciò voglio chiudere con la gaia scienza di Ugo di San Vittore «omnia disce; videbis postea nihil esse superfluum: coartata scientia iucunda non est.» Si tratta di un passo del  Didascalicon, che ha come sottotitolo de studio legendi: la nostra usuale capacità di levitare.

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