Del principe e delle lettere. Recensione ad Alzare lo sguardo di Susanna Tamaro
Gentile professoressa,
grazie per la sua lunga lettera, così ricca di intelligenza e profondità. Il primo sentimento che ho avuto, leggendola, è stato quello di una sottile invidia per i suoi allievi. Ricordando la mia penosa – e per lo più catastrofica – carriera scolastica, non ho potuto fare a meno di pensare come avrebbe potuto essere diversa se avessi incontrato sul mio cammino una persona come lei. Nel corso di una vita, avere avuto un professore piuttosto che un altro può fare una grande differenza. E la può fare soprattutto per i fragili, per i deboli, per quelli che non hanno alle spalle qualcuno in grado di sostenerli.
Che cos’è l’insegnamento infatti, se non un improvviso «vedersi» tra esseri umani? Il più grande vede il più piccolo e intuisce quale sia la strada da indicargli per permettergli di sviluppare la parte migliore di sé.
Un insegnante che ama il suo lavoro ha un compito molto importante: quello di trasmettere la sua passione. Può decidere di esporre il suo programma pedissequamente o può, percorrendo vie insolite, riuscire ad accendere di luce lo sguardo di chi lo sta ascoltando, ad aprire una piccola porta nella sua mente, e forse anche nel suo cuore, permettendo a quel ragazzo o a quella ragazza, un giorno, di salvarsi.
Un libro nella giungla
L’incipit dichiara l’appartenenza di questo libretto (122 pagine) al genere lettera ad una professoressa e nell’evocare don Milani suggerisce al lettore che si tratterà di una critica ai modelli educativi dominanti e alla pratica dell’insegnamento così come viene sviluppata oggi. La supposizione iniziale, il pregiudizio di chi ha iniziato la lettura, diventa man mano una certezza, dal momento che la Tamaro non intende minimamente nascondersi, anzi entra in dialogo esplicito con don Milani per contestarne la posizione: se il sacerdote di Barbiana lamentava le bocciature per alcuni, la scrittrice di Porano denuncia le promozioni per tutti.
Se si risvegliasse don Milani, che cosa direbbe della scuola di oggi? I «Gianni» che all’epoca venivano ripetutamente bocciati ora non incorrono più in quell’onta. In quello stigma sociale. Tutti promossi, ma con una promozione che ha l’effetto di un boomerang. […] La parte importante del suo metodo – il lavorare insieme creando un sapere che nasce dalle domande, dunque maieutico – è stata rapidamente archiviata. Travisato e manipolato, è rimasto soltanto il diktat: non bocciare i Gianni! Senza che nessuno abbia mai alzato la mano per dire che in questo sistema le vittime sono proprio loro, i Gianni, costretti a rimanere tali per sempre, mentre gli odiati «Pierini», i ricchi, i privilegiati, continuano imperterriti per la loro strada. Una strada fatta di sezioni migliori, di possibilità di ripetizioni, di scuola private, di soggiorni all’estero, di famiglie capaci di stimolarli, sottraendoli al giogo omogeneizzante imposto dai media. (pagg. 18-19)
L’ambiguità del discorso della Tamaro è evidente nel suo suggerire che la salvezza dei «Gianni» consista nel bocciarli, in modo da non «rimanere tali per sempre»: la spirale classista sembra non possa essere interrotta, «i ricchi, i privilegiati» hanno la meglio in un perenne presente, in cui i «Gianni» – sempre bocciati di don Milani o sempre promossi della Tamaro – hanno comunque la peggio. E questo accade perché
Ai tempi di don Milani la selezione era abbastanza spietata, ora è soltanto rimandata. L’importante è che lo studente riempia la statistica dei promossi, che scompaia dall’orizzonte.
Che poi sia la vita a bocciarlo non importa ad alcuno. (pagg. 26-27)
La sorprendente conclusione di questo ragionamento che potrebbe indicare che ancora molto c’è da fare nella scuola è che
Nessuno ha il coraggio di dire, come direbbe don Milani redivivo, che questa scuola ha un difetto fatale, quello di penalizzare gli intelligenti, i bravi, i meritevoli che hanno la sfortuna di nascere nel mondo dei Gianni attuali. (pag. 103)
Le vittime si sono così trasformate in carnefici e dunque diventerebbe ovvio, per garantire il progresso, che ci liberassimo una volta per tutte dei «Gianni» indigeni, visto che
Tra i Gianni che vengono da paesi lontani, molti sono spesso pieni di passione e di voglia di riscatto. (pag. 103)
Costoro non dovrebbero essere inseriti nella classe della loro età anagrafica per consentirgli di padroneggiare la lingua, e per evitare che siano discriminati nei fatti e non nella forma. La conclusione a cui giunge la Tamaro è che il futuro che ci aspetta è il suicidio di massa dei lemming, se non decideremo di gestire le cose in altro modo, il che si ridurrebbe, se non ho perso il filo, a valorizzare «gli intelligenti, i bravi, i meritevoli» bocciando i Gianni locali in attesa che quelli stranieri, animati da «voglia di riscatto», si impadroniscano della lingua. È il fardello dell’uomo bianco (e ricco) minacciato dai poveri.
Epistole
Le pervinche di stamattina mi hanno fatto capire che, da quando ho iniziato questa lettera, il tempo trascorso è quello compreso tra la brina del mattino e la comparsa dei fiori. Pensavo di scriverle due o tre pagine ma poi l’argomento mi ha preso la mano e la penna, anzi la tastiera, è andata avanti da sola. (pag. 97)
Il testo, perciò, si configura come risposta di getto ad una lettera ricevuta. Del mittente conosciamo la professione e un’abitudine
Lei regala, così mi scrive, a ognuno dei suoi alunni all’inizio di ogni anno scolastico una copia delle ‘Lettere a un giovane poeta’ di Rainer Maria Rilke. E la regala anche se i suoi ragazzi non sono studenti di un liceo ma di un istituto tecnico, suscitando ironie e critiche dei colleghi […] (pag. 11)
Ma il gioco di specchi tra le lettere della Tamaro e della professoressa attraverso Rilke si prolunga all’infinito:
Lei mi chiede che cosa può fare per rendere ancora più partecipi gli studenti alla sua materia e alla vita, ma la risposta è implicita nelle ‘Lettere a un giovane poeta’.
Spinga i suoi allievi a scrivere lettere. (pag. 97)
E questo perché la lettera è «la forma più profonda di apertura e di dono di sé all’altro.» (p. 97)
Dunque dobbiamo considerare questo libro, che è una lettera, «un dono» della Tamaro. Chi non dovesse accettare le tesi enunciate dalla scrittrice, si rivelerebbe perciò ingrato. Anche se per un insegnante, quale io sono, un dono inaspettato suscita il ricordo dei timori espressi da Laocoonte, secondo la scrittrice «la più alta realizzazione della vita è il dono» e quindi l’insegnamento deve contemplare «il dono di sé» (pag. 26). Forse è una variante dell’insegnamento come missione o forse l’insegnante è l’apostolo delle genti. È certo che si rende percepibile una tensione mistica, che ha per obiettivo la salvezza, come si legge alla fine della prima pagina citata all’inizio di questo articolo. Termini di uso comune, che a una prima lettura appaiono dettati dalla consuetudine, dal buon senso o dal luogo comune, sotto le dita della Tamaro, si caricano di significati trascendenti, come vedremo meglio più avanti.
Resistere alla fortuna
L’esperienza scolastica della scrittrice, come dichiarato fin dalle prime righe, è stata «penosa», «catastrofica», e i ricordi dolorosi si susseguono in pagine autobiografiche asciutte e sincere
Sono nata infatti con una sindrome autistica ad alto funzionamento. All’epoca queste cose non si conoscevano, passavo per una bambina patologicamente timida o maleducata o troppo capricciosa.
La scuola non mi è mai venuta incontro, non ha mai pensato di aiutarmi in qualche modo. Ogni giorno della mia vita è stato segnato dalla fatica di sforzarmi di essere come gli altri. Sono stata vittima di bullismo e di sarcastiche derisioni […]. (pag. 56)
Don Milani era il mio mito e non permettere a nessuno di soffrire sui banchi come avevo sofferto io lo consideravo la mia unica e assoluta missione. (pagg. 67-68)
Perciò, «per una parte importante della mia vita ho pensato che la mia vocazione fosse proprio l’insegnamento.» (pag. 19) La radice biografica della concezione dell’insegnamento come missione e vocazione viene messa lucidamente in luce, perché la spinta a discutere di scuola nasce da una sofferenza ancora viva. Ma in un sistema costruito su significati altri e alti, la vicenda biografica non può che essere proposta come exemplum. Rispetto alla facilità con cui oggi si concedono certificazione BES o DSA, la Tamaro rivendica la funzione dello sforzo, dell’impegno, della fatica che rafforza e corregge, per raggiungere il premio ch’era follia sperar:
Alla fine il dolore, la solitudine, la sensibilità, l’ossessività e l’inferno che avevo dentro mi hanno permesso di diventare una scrittrice conosciuta in tutto il mondo. (pag. 57)
La scuola diventa un luogo in cui lavorare su se stessi, soffrendo. È un’ottica espiativa in linea con l’impianto teleologico del discorso. Pazienza se non tutti riescono poi a diventare scrittori famosi. Saranno temprati o distrutti. Con buona pace di don Milani.
Educare
La tesi che man mano prende corpo nella consapevolezza del lettore, ma che la Tamaro esprime con chiarezza fin dal primo momento, è che la scuola odierna non educa più con effetti deleteri sull’intera società. Cosa intenda la Tamaro per educare è spiegato per mezzo di esempi che hanno a che fare con la coltivazione e l’architettura: educare un essere umano è come coltivare un albero
Sì, educare e coltivare sono due attività strettamente connesse (pag. 44)
o costruire un edificio
Per educare, per far crescere una persona, prima di ogni altra cosa ci vogliono le basi, e le basi devono essere costruite in maniera solida.
Seppure
Paragonare la scuola ad un edificio, di questi tempi, sarebbe un po’ troppo ardito, dunque […] mi sento di dire che questo sistema corrisponde più a una tenda issata senza picchetti: una semplice folata di vento o una pioggia improvvisa sono in grado di distruggerla. (pag. 51)
Sembra evidente che la scrittrice qui riecheggi le metafore nel VII capitolo del Principe: allo stato albero o edificio che deve resistere ai mutati venti di fortuna si sostituisce il bambino che deve diventare un adulto consapevole. Ma a che fine? «Siamo dunque arrivati al punto» (pag. 76): la costruzione e la coltivazione dell’individuo sono necessarie per discernere il male assoluto e il bene assoluto.
Che cos’è infatti l’educazione se non la più alta e raffinata opera di discernimento? Si riconosce che esistono due strade e si aiuta la persona a saper decidere quale imboccare. Se si tace, se si ignora che tutta la complessità umana si gioca nella scelta tra questi due cammini, se si lascia un cucciolo d’uomo in balia dei suoi istinti, è assai probabile che si comporti come gli scimpanzé della Goodall. (pag. 78)
Apocalisse
Il discorso sulla scuola che fa la Tamaro – ricco anche di affermazioni del tutto condivisibili relative al disinteresse sociale, alla mancanza di finanziamenti, alla difficoltà di insegnare, all’impegno di alcuni insegnanti – in realtà è un pretesto per il disvelamento: la scrittrice afferma che attraverso l’educazione i giovani superano i limiti della mente e della ragione, a suo dire portatrici di gravi danni, per scoprire e nutrire il «cuore». E il «cuore» ti porta ad aprire l’«anima». Nella gloria finale non c’è più spazio per le parole ma solo per la «luce».
E solo questa luminosità ci farà vedere la reale essenza delle cose, liberandoci dal giogo della prevedibilità e trasformando la nostra vita in un’avventura davvero degna di essere vissuta. (pag. 122)
E così, in un battibaleno, dalla pedagogia si approda alla teologia. L’esperienza scolastica, per l’alunno, diventa una prova da superare, le difficoltà diventano gradini di una scala che in climax allineano, faticosamente, mente, cuore, anima. Infine la salvezza.
Chi l’avrebbe detto che superando un concorso pubblico gli insegnanti sarebbero stati mandati in missione per conto di Dio.
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