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diretto da Romano Luperini

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Rileggere Stanisław Lem. Solaris, ovvero le angosce della civiltà della scienza

 Lo scrittore polacco Stanisław Lem (Leopoli 1921 – Cracovia 2006) è oggi in Italia poco conosciuto dal grande pubblico e le sue opere quasi tutte fuori catalogo. La divulgazione dei suoi romanzi di fantascienza nel nostro Paese iniziò nella prima metà degli anni Settanta grazie al successo del film Solaris di Andrej Tarkovskij del 1972. Nel 1973 la casa editrice Nord pubblicò l’omonimo romanzo di Lem da cui era stato tratto il film; seguì la pubblicazione da parte di vari altri editori, tra cui soprattutto Mondadori e Editori Riuniti, delle più importati opere dello scrittore, che vennero in parte ristampate fino all’inizio degli anni Novanta. L’interesse per Lem declinò poi parallelamente all’interesse per la letteratura fantascientifica e i suoi libri scomparvero dai cataloghi. Si ebbe una breve ripresa di interesse subito dopo la morte dello scrittore, quando Bollati Boringhieri e Marcos y Marcos rieditarono qualche titolo. Attualmente l’unico libro veramente importante di Lem reperibile in Italia è il citato romanzo Solaris, che Sellerio ha ripubblicato nel 2013 in una nuova traduzione. Sarà quindi esclusivamente di Solaris che si parlerà qui, non perché sia l’unico testo di Lem degno di interesse, né perché sia necessariamente da considerare come il migliore: semplicemente perché la sua lettura è l’unica che il lettore italiano può intraprendere senza problemi.

Solaris venne scritto tra il 1959 e il 1960, e pubblicato a Varsavia nel 1961. Prima di addentrarci nell’analisi del romanzo, è necessario far cenno all’ideologia tecnologica diffusa nel periodo storico in cui il libro venne ideato, alle idee e alle aspirazioni della civiltà alla quale Lem si rivolgeva. Sono cose note, ma vale sempre la pena rammentarle quando si parla di fantascienza. Per rievocare il clima di quel periodo, basti ricordare che già dalla fine degli anni Cinquanta aveva avuto inizio l’invio di satelliti artificiali nello spazio circostante la Terra sia da parte dell’Unione Sovietica sia degli Stati Uniti e che tali ricerche sembravano progredire in modo sorprendentemente rapido. Concepire la fantascienza come semplice proiezione fantastica degli sviluppi delle esplorazioni spaziali appare, tuttavia, molto limitante. Erano i presupposti di fondo della società ad essere messi in scena nella science fiction. L’idea di progresso era il cardine su cui si reggeva l’ideologia di quegli anni; progresso della civiltà tutta, che però poneva le proprie basi concrete sul progresso tecnico: gli esseri umani sarebbero stati sempre più capaci di progettare il proprio futuro grazie alla scienza, che permetteva il controllo sulle forze della natura e il loro pieno sfruttamento. Su questa mentalità, che potremmo definire sviluppista, ebbe grande impatto il progresso nell’impiego dell’energia nucleare, che lasciava ipotizzare la rapida soluzione del problema del reperimento delle fonti energetiche. A questa civiltà del progresso dava voce la letteratura fantascientifica. Se leggiamo la raccolta di racconti Io, robot dello statunitense Isaac Asimov, pubblicata nel 1950, un testo fondamentale per lo sviluppo della fantascienza, vediamo già ampiamente espressa questa visione. Nei Paesi socialisti l’egemonia del marxismo dava ulteriore profondità e peso all’idea della costruzione della civiltà del progresso fondata sulla scienza. Secondo il marxismo infatti la liberazione dell’essere umano dallo sfruttamento e la costruzione della società socialista è possibile solo grazie al progresso tecnico dei mezzi di produzione: la scienza renderà possibile la liberazione degli esseri umani e permetterà l’edificazione di una civiltà fatta dagli esseri umani per gli esseri umani. Nei Paesi socialisti, quindi, alla scienza veniva assegnata una centrale funzione liberatrice e il cammino dello sviluppo era il cammino verso la nuova civiltà: l’uomo scientifico era l’uomo nuovo.

Il romanzo di Lem è interno a questa civiltà e ne esprime le angosce profonde e i dubbi. La scienza umana è capace di comprendere l’intero universo naturale? È possibile capire e quindi controllare fino in fondo la natura? L’essere umano è all’altezza del compito che si pone? Può essere veramente un homo scientificus o in realtà è tuttora limitato dalle fragilità che lo hanno ottenebrato nei secoli? Il romanzo di Lem, come un incubo in cui ciò che temiamo si realizza, mette in scena da una parte l’arrestarsi del processo di conoscenza di fronte ad un’entità inconoscibile, intrinsecamente aliena, dall’altra l’insufficienza degli individui che vorrebbero compiere quest’atto di conoscenza, la loro fragilità, che li fa naufragare e li rende inani.

Il pianeta Solaris è completamente ricoperto da un oceano di plasma, un unico immenso essere vivente. Il romanzo si apre con il protagonista, lo psicologo Chris Kelvin, che giunge sulla base posta sul pianeta per unirsi agli altri tre ricercatori che vi soggiornano, Gibarian, Snaut e Sartorius. Lem immagina che la scoperta di Solaris risalga a moltissimo tempo prima rispetto al momento in cui si svolge la vicenda narrata e in ben due capitoli del libro riassume e discute, per bocca del suo personaggio, la grande quantità di teorie e di studi compiuti, studi che hanno dato origine ad un vero e proprio ramo della scienza umana: la solaristica. Anni e anni di ricerche, tuttavia, non sono riusciti a stabilire quasi nulla di certo sull’entità aliena studiata e il lettore, nell’addentrarsi nella selva delle teorie e dei nomi di studiosi (tutti, ovviamente, inventati da Lem), ha la disorientante sensazione che l’enorme sforzo conoscitivo, i fiumi di inchiostro versati, non rappresentino di fatto nessun sapere, non portino a nulla. In particolare le ricerche si sono concentrate nell’individuare e comprendere le ragioni di Solaris, ossia gli scopi per cui esiste e fa ciò che fa. In questo senso risultano particolarmente significative le pagine in cui vengono descritte le gigantesche formazioni che continuamente l’oceano crea, allucinanti strutture formate dal plasma. Il dare un nome alle cose è sempre stato percepito dall’essere umano come un primo e fondamentale atto di conoscenza e di appropriazione della realtà. Il linguaggio scientifico ha sviluppato fino al parossismo questa intrinseca attitudine umana. Lem immagina che gli scienziati si siano profusi in immense catalogazioni delle concrezioni solariane, ma questi nomi (“longoidi”, “mimoidi”, “simmetriadi”, “asimmetriadi”, “vertebroidi”, “agiloidi”), lungi dal rappresentare un atto conoscitivo, mettono piuttosto in luce la miseria di tali sforzi: le ragioni e la natura delle formazioni rimane del tutto incomprensibile. Queste formazioni esistono; ecco tutto ciò che anni di ricerche hanno potuto stabilire: si è rimasti al punto di partenza.

Nei fatti incomprensibile resta anche la vicenda narrata, il cui protagonista è Chris Kelvin. Alcuni scienziati della base, Gibarian e Sartorius, hanno deciso di sottoporre l’oceano vivente ad intense radiazioni. Dopo questo esperimento, un fenomeno imprevisto e devastante ha cominciato a manifestarsi: i visitatori. Si tratta della materializzazione del pensiero più intimo e recondito della propria mente, la manifestazione dell’inconfessabile. Ogni membro della base se ne trova uno al proprio fianco. Queste entità sono vive e praticamente indistruttibili; se annientate, si rigenerano identiche dopo poche ore. Sono sicuramente un prodotto di Solaris, il quale deve aver sondato in qualche modo le menti degli uomini della base, individuato il pensiero o il ricordo più intimo e intenso, dandogli poi forma. Ma perché l’oceano ha prodotto queste creature? Rappresentano semplicemente un fenomeno o la manifestazione di una volontà? Sono una vendetta? Un esperimento? Oppure, non conoscendo la natura umana, l’oceano ha pensato di fare un dono? Queste domande resteranno senza risposta sicura. Il problema, tuttavia, non consiste soltanto nell’impossibilità di comprendere il senso del fenomeno, come degli altri che riguardano Solaris: la cosa ancor più grave è che gli scienziati della base, di fronte al materializzarsi dei propri pensieri più nascosti, crollano e si immergono, ognuno per proprio conto, in una spirale senza via d’uscita. Ecco che il rappresentante della civiltà della scienza, l’uomo scientifico, scopre improvvisamente di portare dentro di sé una profondissima fragilità; l’essere razionale che dovrebbe compiere l’atto supremo della conoscenza si rivela inadeguato al proprio compito. Gli scienziati cominciano a comportarsi in maniera imprevedibile: Gibarian si suicida, Snaut è immerso in una sorta di cinica apatia; Sartorius, descritto come il prototipo dell’uomo di scienza, è il più infantile: quasi terrorizzato dalla possibilità che gli altri membri della base possano vedere il suo visitatore, vive rinchiuso nel laboratorio in cui non fa penetrare nessuno. Kelvin stesso entrerà presto in questo incubo, quando si materializzerà al suo fianco Harey, la donna che lui ha amato e che, a causa sua, si è suicidata molti anni prima; ricomparirà come visitatore, come materializzazione del ricordo di lei. Paradossalmente Harey, la replica di un essere umano, è forse il personaggio più vivo e dinamico del romanzo: in quanto diretta emanazione del pensiero di Chris, è, come tutti i visitatori, incapace di separarsi fisicamente da lui e prova per lui un amore assoluto e incondizionato; presto però, non solo si renderà conto della propria natura di replica, di non essere veramente Harey, ma capirà di essere un peso, se non una tortura, per l’uomo che ama e dal quale dipende in modo viscerale. Questa lacerazione, questo dissidio insolubile, verrà attraversato con disperata vitalità da Harey e ciò porterà Chris ad amarla, non in quanto riproduzione della donna morta, ma per quello che lei è.

Harey, tuttavia, resta comunque una creatura di Solaris e, quindi, pur nella sua vitalità, mantiene un fondo inconoscibile. In un episodio del romanzo, Chris analizza il sangue di questa figlia dell’oceano, ingrandendolo sempre di più per analizzarne la struttura profonda; è l’unico brano del testo che vorrei citare, in quanto, mi sembra, simbolicamente racchiude quasi il senso di tutto il libro:

Tenendo al centro dell’incrocio un groviglio di albumina guasta continuai a girare lentamente la manopola di ingrandimento: da un momento all’altro sarei dovuto arrivare al termine di quel viaggio nell’abisso. L’ombra appiattita di una molecola invase l’intero campo visivo e all’improvviso si dissolse. Ma non accadde niente. Invece di vedere la nebbiolina degli atomi vibrante in un tremolio gelatinoso, non vidi niente. Il campo visivo era di un argento immacolato. Girai a fondo la vite. Il brusio crebbe rabbiosamente ma non apparve niente. Un ripetuto segnale di allarme indicava che il circuito era sovraccarico. Contemplai ancora una volta il deserto argentato e staccai la corrente. (p. 145)

Al fondo Chris non trova ciò che si aspetta, ossia gli atomi. Egli non vede nulla. Nella parte successiva del romanzo la cosa verrà spiegata dallo scienziato ipotizzando che i visitatori siano composti da particelle subatomiche: i neutrini, invisibili al microscopio. Qui però interessa cogliere l’episodio nella sua portata simbolica: c’è al fondo della realtà, quindi della natura, un’intrinseca alterità, ossia qualcosa che ci sfugge e che non siamo in grado di vedere né di conoscere. Il nostro viaggio conoscitivo si arresta davanti a un «deserto argentato» e non riesce ad andare avanti.

Questo sembra essere il significato di fondo del romanzo, come di altre opere di Lem. Un concetto che potremmo quasi definire tragico, in quanto l’autore non propone vie d’uscita alle laceranti contraddizioni della scienza umana che mette in scena. Lem resta infatti interno all’ottica scientifica. Il suo discorso non porta alla conclusione per cui non è la scienza il mezzo per spiegare l’essenza della realtà, ma lo sono l’intuito, o la religione, o lo spirito. Dietro il deserto argentato non si cela l’anima o un dio. Lem parla molto più semplicemente, ma in un certo senso tanto più tragicamente, di contraddizioni e di limiti umani che non possono essere superati. Questa è, mi sembra, la consapevolezza che l’autore voleva trasmettere ai propri lettori.

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