Leggere i classici per l’infanzia a scuola
La narrativa è una bugia che dice la verità
Neil Gaiman
Torniamo un poco indietro
Ho esattamente chiaro in testa il momento in cui la mente si aprì e iniziai a “capire tutto”, o meglio a riuscire a collegare bene le relazioni tra le parole. Capitò al secondo anno di università, credo che la lettura integrale e lo studio della Commedia abbiano avuto il loro peso. Non dico che fino ad allora non capissi un tubo, solo che restava sempre qualcosa di invalicabile, di incomprensibile. I libri erano oggetti misteriosi: alcuni mi erano più chiari, altri erano oscuri. E ovviamente erano questi ultimi ad affascinarmi di più: il fascino della selva buia e intricata, rispetto all’assolata prateria. Non so perché iniziai a leggere in modo compulsivo: tutto partì dal Giornalino di Gianburrasca che divorai nell’estate della seconda elementare. Scoprii che quando leggevo nessuno mi disturbava, potevo starmene in pace e facevo qualcosa di difficile. Scavare nelle parole era esaltante: le parole mi piacevano più delle immagini. Leggevo, leggevo e quelle parole comprese a metà formavano persone e azioni: non leggevo per trovare me stessa, trovare la mia vera voce, riconoscermi e amenità varie che si tirano in ballo quando si parla di letteratura. No, io leggevo per conoscere le storie altrui, fossero inventate o reali: amavo le biografie. Non sognavo le vite di altri, le volevo conoscere, rivivere. Ricordo L’arpa d’oro, libro che romanzava le storie dei musicisti: il racconto del diavolo e di Paganini saprei ripeterlo a memoria. Volevo sapere come funzionavano il mondo e le persone, ma di contro volevo storie finte che sembrassero vere in cui perdermi: il sembrare vere me le faceva cercare e mi ci faceva immedesimare, il loro essere palesemente false mi rassicurava che quelle cose lì mica sarebbero successe. Leggevo a modo mio, al punto da storpiare i nomi e ancora adesso per me Gulliver è Giulliver. Leggere era la mia trasgressione, era il cuore che batteva forte la sera quando giravo le pagine di nascosto dopo aver promesso da tempo che avrei spento la luce: era evasione, spavento, lacrime, risate e coraggio.
Non ho avuto educatori alla lettura, leggevo tutto e in modo anarchico. La mia maestra ci leggeva Quasimodo, Ledda, Manzoni, De Amicis, disprezzava Rodari, Lodi e qualsiasi forma di nuovo; io rubavo di nascosto l’Intrepido di mio zio: ho ancora davanti agli occhi la tavola finale del fumetto ricavato dal gatto nero di Poe. I Quindici sono stati la mia iniziazione alla conoscenza, su tutti un libro sugli alberi, non so il perché; compravo i libri dalla cartolaia del paese, erano le edizioni Fabbri per ragazzi, le lessi tutte, solo il cucciolo lasciai a metà, morta di noia e mi sentii in colpa: abbandonare un libro mi è sempre sembrato un peccato mortale. Questo mi piaceva: la lettura era un mistero solo mio, potevo cercare liberamente, incocciare in libri non adatti, per i miei genitori era una meraviglia già solo il fatto che leggessi, non hanno mai controllato cosa. Dalla biblioteca portai a casa il Decameron, mi piacevano il titolo e l’odore di quel libro; credo non andai oltre le prime venti pagine, le parole mi andavan tutte insieme, ma fu bello uguale. Mi sentivo un’esploratrice. Per me leggere era libertà e mi piaceva, un piacere fisico, quello di sprofondare in un altro mondo. Odiavo ed odio essere interrotta: lasciatemi arrivare alla fine! Mi capita ancora adesso quando riesco a far tacere il lettore consapevole che vuole capire, indagare, smontare il testo. Quando mi abbandono, quando incontro libri che hanno bisogno di più letture e soprattutto con la poesia.
Classici per ragazzi
Perché ho scritto un paragrafo così auto centrato? Come sapete, per lavoro e piacere, leggo tantissimi libri per ragazzi, per poter allestire la mia biblioteca di classe, per trovare testi ad alta voce, semplicemente perché mi piacciono. Questa estate mi sono ripromessa di tuffarmi nei classici, di riflettere su come sono diventata una lettrice e su come possano diventarlo i miei studenti: anche per questo ho riletto Pinocchio. La prima questione che mi sono posta è stata: ma come ho fatti a comprenderlo quando avevo dieci anni? Passi la trama complessa, passino i personaggi e i simboli, ma la lingua? Tutti quei “punto” che a un lombardo nulla dicono? E le grucce, i babbino… Eppure l’ho letto e ricordo ancora perfettamente le parti più inquietanti che sapevano di morte, angoscia e dolore. Angoscia, morte e dolore sono lì a puntellare l’altro classico che ho divorato: la collina dei conigli di Richard Adams. C’è un capitolo meraviglioso, il venticinque, che non a caso sta a metà, all’apice della climax: Moscardo e i suoi amici hanno appena liberato i conigli in cattività, si apprestano a scappare, ma proprio quei conigli che nelle gabbie erano ansiosi di libertà, una volta fuori, si ritrovano in preda al panico, rallentano la fuga, desiderano di nuovo le gabbie. Qui Moscardo, l’eroe, decide di tornare indietro per salvarli, si sacrifica per gli altri “Una gelida stanchezza scese su di lui, e scivolò in un sapore inerte, sognante, pieno di crampi e dolori. Dopo un po’, un rivoletto di sangue cominciò a sgocciolare giù dall’orifizio della conduttura, nel fosso calpestato, deserto.” La forza del libro è nella sua dimensione epica che cattura il lettore, lo trascina con sé, senza pretesa di insegnare nulla né di risolvere i problemi.
C.S. Lewis, autore di un classico fantasy per antonomasia, le cronache di Narnja, scrive che un libro per ragazzi che vada bene solo per ragazzi è paccottiglia, credo abbia ragione. Un classico è un libro che non ha paura e ha un così grande rispetto per i suoi lettori che va verso di loro senza timore di travolgerli e di affrontare argomenti scomodi. Sono libri che descrivono la vita come è, la interpretano e non la edulcorano: non nascono per insegnare, ma per raccontare e lo fanno con una forma bella e ricercata, studiata. E se ne fregano ampiamente del politicamente corretto. Ne è un esempio Extraterrestre alla pari di Bianca Pitzorno, romanzo del 1979 che racconta la storia di un extraterrestre, Mo, in scambio culturale sulla terra. La rottura dell’equilibrio – e non può esserci storia per i ragazzi senza rottura dell’equilibrio – avviene quando i genitori terrestri scoprono che sul pianete di Mo non è dato sapere se si è maschi o femmine fino a 21 anni. Questi sono gli occhiali culturali con cui Mo osserva stranita noi terrestri che “anche nei giochi stabilite ciò che è da maschio e ciò che è da femmina, perché si deve imparare sempre cosa fare da grandi. Giocare per giocare, sia mai!” Sinceramente non so se questo libro oggi sarebbe stato pubblicato e non solo per il tema: ha una struttura complessa, continui cambi di punti di vista e un finale che è tutt’altro che pacificatore.
Danny Campione del mondo di Dahl è un romanzo d’avventura decisamente per più piccoli, ma anche qui c’è l’agrodolce: Danny è orfano, vive con un padre straordinario in una roulotte di zingari, con una sola stufa a cherosene e scatolette di fagioli per cena. Eppure per tutta la vicenda ridiamo a crepapelle, grazie alle invenzioni linguistiche di Dahl, alla scelta di capitoli brevi che spezzettano il ritmo della narrazione, al luminoso rapporto tra Danny e il padre. Dahl lavora togliendo del tutto l’enfasi, la retorica, il sentimentalismo e ci restituisce la parola nuda e l’avventura pura.
Lo stesso tono lieve corre insieme alle pedalate di Homer, protagonista di la commedia umana di William Saroyan; grazie al lavoro come portalettere di un’agenzia di telegrammi, Homer scopre che il mondo è un luogo complesso, né bello né brutto e le relazioni umane sono un gran caos.
Concludendo, cosa hanno in comune questi romanzi?
La distanza: in sé non basta che un libro sia vecchio per diventare classico, ciò che fa la differenza è il suo restare, la sua capacità di dialogare con lettori presenti e futuri. E questo perché? In virtù della dimensione eterna ed epica, della forza narrativa e dello stile. Provate a leggere ad alta voce uno di questi libri: vi accorgerete che non dovrete aggiungere nulla alle parole dello scrittore. Sono “semplicemente” belle storie.
La complessità: al punto che, spesso, mi trovo a dire che per i miei ragazzi non sarebbe comprensibile, e questo è un errore. Ci ho ragionato molto, anche questa estate. La forza di questi libri sta anche nell’essere complessi e misteriosi, nell’avventura che ti trovi a leggere, una sorta di miracolo, ma non sapresti dire qual è. Come quando vedi un gioco di prestigio, sai che il trucco c’è, ma non te ne curi e godi della sorpresa. Le parole sono magiche. Questi libri hanno in comune la scoperta di sé e del mondo, la crescita, la velocità dei sentimenti e delle emozioni. Tutti aspetti tipici dell’età dei loro lettori, non importa se millennials o meno. Sono libri in cui riescono ad identificarsi. E che noi guardiamo con invidia e la gioia del ricordo. Le più durature tra le opere per della letteratura per l’infanzia sono tali proprio perché attraggono, sia la cultura degli adulti che quella dei bambini e ragazzi.
In classe
E quindi cosa me ne faccio in classe dei classici per la letteratura per ragazzi? Non rischio di allargare così tanto il canone delle letture da non raccapezzarci più?
Come sempre li metterò nella biblioteca di classe e li presenterò: il lettore, soprattutto il lettore forte, deve poter trovare cibo per sé, letture sfidanti. Tutti i lettori devono essere liberi di esplorare in modo anarchico e sistematico. E visto che fuori è sempre più difficile, è importante che possano farlo a a scuola. Il bello della lettura è proprio la ricerca, il muoversi tra infinite possibilità. I miei sono lettori agli inizi: più che dare loro un canone rigido, devo fornire la possibilità di scelta e di crescita. Il grosso dei miei studenti arriva alla scuola secondaria di primo grado senza ascolto o lettura di fiabe, senza aver mai letto classici per ragazzi, per cui manca loro un sostrato fondamentale. Mancano anche delle storie religiose e delle leggende: è un mondo che devo ricostruire se voglio che a loro diventi comprensibili poi il testo letterario.
Nel mio tentativo di costruire lettori, non posso che riconoscere nella classe un valore aggiunto, un potentissimo strumento: leggere e provare a interpretare insieme è un’avventura piena di senso, tanto più se fatta con libri stratificati e complessi.
Quest’anno inizierò con una prima media, leggerò Danny campione del mondo così insieme indagheremo il sistema dei personaggi, le relazioni fra loro, cercheremo di capire come e perché Danny inventi parole nuove. O semplicemente discuteremo e vedremo dove andremo a parare.
La sfida successiva, perché di sfida si tratta, sarà Pinocchio, quello di Collodi con tutta la sua foresta di simboli, non prima di aver esplorato le fiabe italiane di Calvino.
Di certo è che i ragazzi arrivano ai classici, ma perché vi si fermino devono essere diventati lettori, devono fidarsi del libro e sapere che ne varrà la pena. I classici hanno bisogno di tempo e pazienza perché non sono costruiti per piacere ai lettori e titillarli, sono costruiti per raccontare, non forniscono una risposta, ma sono una lunga interrogazione. Un classico esprime un bisogno del narratore di raccontare, a sua volta legato al bisogno di un interlocutore, di un ascoltatore che si inserisca nel processo dello scambio narrativo. E nei libri per ragazzi l’interlocutore privilegiato è un ragazzo. I libri, la letteratura, non nascono dal nulla, rispondono a bisogni e riflettono la realtà in cui sono stati scritti, compreso il modo in cui i lettori li leggono. E oggi il bisogno e la realtà dicono: “corto, emotivo, veloce e frammentario”, i classici sono difficili per loro proprio perché legati a un altro modo di leggere, ad altre società, ad altri bisogni. Per questo che prima di interpretarli o usarli per altro vanno letti per quello che sono, storie.
Torniamo a leggere e raccontare storie ai bambini e ai ragazzi, senza paura di andare a pescare nella nostra tradizione, in quello che il tempo (e i lettori) hanno salvato.
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