La “maturità” della scuola. Un secolo di esami di Stato tra scuola, letteratura, politica, e società / 2
Pubblichiamo la seconda parte di Un secolo di esami di Stato tra scuola, letteratura, politica, e società, un saggio sulla storia dell’esame di Stato dalla “riforma Gentile” ai nostri giorni scritto da Mario Ambel e Annamaria Palmieri. Ringraziamo vivamente l’autore e l’autrice che hanno voluto destinare in anteprima ai lettori di LN questo lavoro, importante per ampiezza, spessore, implicazioni e spunti di riflessione. La prima parte si può leggere qui.
Parte seconda. L’inclusione per lo sviluppo e la democrazia (1963.1969)
3. La nascita della scuola media unica
Il dopoguerra segna un ritorno al passato per l’esame di maturità: nel 1951 Guido Gonella ripristinò l’esame di maturità di Giovanni Gentile, sia per il numero delle prove scritte e per l’orale che per la formazione della Commissione. Unica novità furono l’introduzione dei membri “interni” (prima due e poi soltanto uno) e la limitazione dei programmi ai due anni precedenti l’ultimo, per i quali venivano richiesti soltanto “cenni”. Se guardiamo ai numeri, nell’ anno scolastico 1951/52 su 47.516.000 abitanti, i candidati alla maturità furono solo 63.666.
Il Paese si confrontava intanto con il diritto/dovere all’istruzione di tutta la popolazione sancito dalla Costituzione: la scuola obbligatoria e gratuita per otto anni, che mirava ad elevare il livello di alfabetizzazione delle masse, rappresentava una meta difficilmente realizzabile, come ben racconta nelle sue cronache di maestro elementare Leonardo Sciascia:
“Vengono a scuola i ragazzi dopo che la famiglia riceve la cartolina di precettazione con citati gli articoli di legge e ricordata la multa; la posta non porta loro che di queste cartoline, per andare a scuola per il servizio di leva per la tassa. Spesso la cartolina non basta, il direttore trasmette gli elenchi degli inadempienti all’obbligo scolastico al maresciallo dei carabinieri; il maresciallo manda in giro l’appuntato a minacciare galera e –io vi porto dentro- i padri si rassegnano a mandare a scuola i ragazzi. C’era un maresciallo che questo servizio lo aveva a cuore, mandava a chiamare i padri e sbatteva in camera di sicurezza, per una notte che avrebbe portato consiglio, quelli che più resistevano. E allora a me maestro, pagato dallo Stato che paga anche il maresciallo dei carabinieri, veniva voglia di mettermi dalla parte di quelli che non volevano mandare a scuola i figli, di consigliarli a resistere, a sfuggire all’obbligo. La pubblica istruzione! Obbligatoria e gratuita, fino a quattordici anni; come se i ragazzi cominciassero a mangiare soltanto dopo e mangerebbero le pietre dalla fame che hanno.”
Nell’anno scolastico 1957-58, solo il 50% degli allievi delle scuole di avviamento aveva conseguito la licenza al termine del triennio, contro il 72,9% degli alunni della scuola media. Dunque un doppio filtro separava le classi sociali. Si noti che i tassi di abbandono o bocciatura erano altissimi nell’avviamento (1 allievo su 2), come spesso è avvenuto e ancora avviene nel canale più professionale del sistema scolastico, ma anche più consistenti (1 allievo su 4) nell’altra.
Il cambiamento giunge negli anni successivi: la L.1859 del 31 dicembre 1962 istituisce la scuola media unica, obbligatoria, gratuita, oggi definita secondaria di primo grado. Essa supera la bipartizione dell’istruzione post-elementare in scuola media, destinata a chi voleva proseguire gli studi, e scuola di avviamento, destinata alla maggioranza degli allievi di estrazione popolare, che funzionava secondo rigidi meccanismi di selezione sociale, cui si accompagnava una forte differenziazione anche negli esiti finali.
Ci si arrivò con grande fatica, tra partenze e frenate…e, per quanto possa sembrare incredibile, con il latino al centro del dibattito! Tutto ebbe inizio con una circolare dell’allora Ministro per la Pubblica Istruzione, Aldo Moro, nei primi mesi del 1959. La circolare prevedeva che, a partire dalla successiva sessione di esami, fosse abolita la prova scritta dall’italiano in latino nell’esame per la licenza della terza media. Sembrerebbe un intervento di poco conto: in realtà era solo l’apice di una battaglia che aveva visto fino ad allora la scuola oggetto di un acceso confronto ideologico tra due campi definitivamente e ideologicamente contrapposti. Il professor Concetto Marchesi, militante del PCI e latinista di chiara fama, fu tra i più critici sulla messa in discussione del latino. Marchesi, come altri intellettuali comunisti, guardava, sulla stregua dell’insegnamento gramsciano, alla costruzione di un uomo nuovo, ancorato a una profonda cultura critica (di cui per alcuni il latino doveva far parte) e non solo orientato precocemente verso un preciso cammino professionale.
D’altra parte, il significato simbolico della scelta di Aldo Moro non può sfuggirci. Era effetto, ma anche un po’ causa, della profonda evoluzione che, non senza resistenze, stava investendo in quegli anni la società italiana in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue componenti. Negli anni ’50 molte cose stavano cambiando nella società italiana: il Paese da agricolo stava diventando industriale. Molte persone si erano trasferite dalle campagne alle città, dal Sud al Nord. La classe operaia, in passato solo idealmente vagheggiata, era diventata una corposa realtà. Si avviava il cosiddetto boom economico. Era arrivata la televisione. Stavano cambiando gli stili di vita, così come il mondo intorno stava cambiando. Le auto, le città, gli elettrodomestici, le case. È chiaro che si era entrati in una nuova era: l’era della tecnica.
Negli anni Sessanta non furono solo le élite politiche, intellettuali e imprenditoriali, era la società intera a domandare più istruzione e a chiedere l’accesso per tutti alla conoscenza. Ai docenti vengono chiesti nuovi modi di insegnare. Agli intellettuali, nuovi contenuti.
Molto intenso il dibattito sulle riviste progressiste come “Rinascita”: qui nel 1951, lo storico dell’arte, militante del PCI, Ranuccio Bianchi Bandinelli, aveva denunciato la “disastrosa” condizione della scuola italiana, attribuibile a diverse e complesse cause interagenti: l’inadeguatezza degli investimenti, male cronico della società italiana, al di là delle più o meno buone intenzioni; la continuità dell’ambiente scolastico con il fascismo; il classismo inaccettabile, perché fondato sull’egemonia di una classe, la borghesia italiana, in dissolvimento almeno nella componente più compromessa con il fascismo e sul mancato ingresso dei figli della classe portatrice della modernità, quella operaia, che stava lentamente sorgendo peraltro attraverso un massiccio fenomeno migratorio da sud a nord.
Il fronte del dibattito si andava allargando. Lucio Lombardo Radice, Alessandro Natta, Giulio Preti e Gianni Rodari nel 1956 avevano riproposto la domanda: “Quale scuola per questa società industriale, dominata dalla tecnica?”.
Quanto ai democristiani, continuavano nel loro pragmatismo conservatore, accontentandosi di vincere battaglie come quella per gli esami di Stato, che consentì di equiparare il titolo della scuola privata a quello della scuola pubblica. Il “Piano per lo sviluppo della scuola nel decennio dal 1959 al 1969” di Fanfani approvato nel dicembre 1959 in Senato voleva essere la risposta del governo a egemonia cattolica a questa domanda. Prevedeva nuovi e piuttosto massicci investimenti nella scuola e nelle Università. Prevedeva borse di studio per i figli meritevoli delle classi meno abbienti ma ancora una volta opponeva un no alla scuola di massa, ovvero alla scuola media unica gratuita e obbligatoria per tutti.
Era una risposta alla crisi che stava per esplodere. Lo suggerisce anche l’analisi dei tempi degli atti parlamentari. Il 21 gennaio 1959, infatti, il PCI aveva presentato un disegno di legge per “una scuola obbligatoria statale valida per tutti i figli dei cittadini della Repubblica sino al quattordicesimo anno di età” in ottemperanza degli articoli 33 e 34 della Costituzione. A questo punto arriva la circolare Moro. E la tensione esplode sotto le forme di una nuova e inveterata “campagna per il Latino” da cui non si salva nessuno. Molti, negli ambienti conservatori, considerano quella di Moro una concessione agli argomenti della sinistra. Non è stato forse Moro a introdurre nelle scuole anche l’insegnamento dell’Educazione civica? Ebbene, il Latino diventava l’ultima trincea, per vincere o perdere la guerra della scuola. La “campagna del Latino” si svolse sui media con incredibile virulenza. Anche Concetto Marchesi, per nulla convinto, aderì pubblicamente alla riforma proposta dal PCI col disegno di legge n. 359 del 1959, che prevedeva il percorso unitario fino a 14 anni ma senza il latino.
Quando la legge sulla scuola media unica e obbligatoria viene finalmente approvata, molti non la considerano la migliore possibile. È pur sempre un compromesso tra due visioni della scuola (e del mondo) diverse. Ma ricalca nella sostanza la proposta del PCI, largamente condivisa dal PSI.
Tutte le scuole, dopo le elementari, vengono unificate in una sola: la scuola media unica. Il Latino resta, ma è del tutto facoltativo. Le scuole private non ottengono i finanziamento dello Stato. Ma soprattutto gli studenti medi, che nel 1950 erano meno di 390.000, nel giro di pochi anni supereranno il milione e mezzo. È nata, finalmente, la scuola media di massa.
Su questa riforma ha scritto, nel 2013, Marco Rossi Doria, al tempo Sottosegretario del Ministero dell’Istruzione:
“Nel 1963/64, le nuove scuole medie aprirono le porte a ben 600.000 ragazzi e ragazze, figli di operai, contadini, artigiani, piccoli commercianti e braccianti, che fino ad allora non erano andati oltre la quinta elementare o l’“avviamento professionale”.
Immaginiamo la scena. Nell’ottobre del 1962 Gianni e sua cugina Carla, figli di un salumiere e di un operaio edile, finiscono a pieni voti la quinta elementare. Hanno dieci anni. E le famiglie decidono di non mandare i due ragazzi alla scuola media ma semmai all’“avviamento”, dove per tre anni, sei giorni a settimana, con tuta e arnesi per l’officina o grembiule e attrezzi per i cosiddetti “lavori domestici”, tutti comprati dalle famiglie, ci si “ammaestrava” al lavoro e basta. Senza accesso al sapere del mondo. Ed ecco che, con la nuova legge, nell’autunno del 1963, i fratelli di poco minori di Gianni e Carla entrano invece a scuola e studiano Italiano, Matematica, Storia, Geografia, Scienze, Arte, Inglese o Francese, Ginnastica, Musica. E – quel che più conta – hanno le porte aperte all’accesso agli studi superiori.”
L’introduzione della scuola media unica nel 1962/63 è uno snodo cruciale. Il giudizio storico su una vicenda così travagliata è dato in sintesi dallo storico Giuseppe Ricuperati:
Nonostante i limiti qualitativi e la volontà persistente di lasciarvi, a titolo opzionale, il latino, o l’incapacità di affrontare e risolvere in modo nuovo problemi complessi come la selezione e la valutazione, tale legge ha rappresentato l’unica reale modificazione dal dopoguerra ad oggi.
Il latino fu ufficialmente “abolito” con la legge n.348 del giugno 1977: la stessa legge che eliminava la distinzione di genere nella frequenza di educazione tecnica ed educazione fisica e apriva alla revisione dei programmi avvenuta poi nel 1979 e quindi a quella successiva degli esami. Ma il latino è spesso ritornato sotto forme diverse, come materia-simbolo di uno scontro e della storia parallela del “doppio canale” che, abolito di fatto nel 1962 in uscita dalle elementari, si ripropone per la fine dell’obbligo, segnando il conflitto mai risolto tra scuola “del pensiero critico” e scuola “utile”, che si trascina dai primi del Novecento. Ed è quanto mai attuale anche oggi, non senza contraddittorie ricadute sulle innovazioni più recenti. Quelle realizzate e soprattutto quelle non realizzate.
4. Contro le disuguaglianze di classe
Tuttavia, in questa scuola che avrebbe dovuto realizzare l’istanza di uguaglianza e pari opportunità formative per tutti, iscritta negli articolo 3, 33 e 34 della Costituzione, persistono selezione e bocciature! Ed è contro questa nuova forma di selezione sociale interna al sistema che nel maggio del 1967 Don Lorenzo Milani scrive, con i suoi allievi di Barbiana, la Lettera ad una professoressa:
“Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino.
Volevano che ripetesse la prima per la terza volta.
Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico di natura. I professori l’avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno.
Né l’uno né l’altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l’officina. Sono venuti da noi solo perché noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età.”
Lettera a una professoressa è diventato autentico livre de chevet di una generazione, visto oggi come anello centrale di una riflessione sulla necessità di riformare il sistema educativo, che sfocerà nelle grandi battaglie per la scuola degli anni Settanta. Ma visto anche, soprattutto oggi da chi rivendica un ritorno alla serietà meritocratica dell’impegno scolastico, come l’inizio della fine di tutto: dell’autorità degli insegnanti, della voglia di studiare dei ragazzi, dello stare in disparte dei genitori, come l’inizio, insomma, del “donmilanismo”. Dimenticando peraltro che la riflessione di Lorenzo Milani riguarda la scuola dell’obbligo e non il liceo o l’università.
Ha scritto Vanessa Roghi che viene in mente, pensando a don Lorenzo Milani, quanto scriveva Alberto Arbasino su Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato su Il Giorno nel 1964:
“Una larga sezione della nostra cultura gli ha deferito questo incarico, di rischiare a nome di tutti: perché è vero che chi scandalizza i puri di cuore va sacrificato a nome della collettività (che è rimasta a casa a godere a soffrire); però è sempre giusto (oportet) che gli scandali avvengano”.
Don Milani ha rischiato davvero a nome di tutti e la sua stessa vita venne sacrificata sull’altare dello scandalo quando con Esperienze pastorali, in anni nei quali ai parroci è chiesto soltanto di leggere riassunti del catechismo e dir messa in latino sceglie la parola, la lettura, insegna a vagliare, criticare, stabilire confronti, a scegliere la fonte, il documento.
“Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E’ il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’.”
La Lettera di Lorenzo Milani coniuga la questione della lingua, che è questione antica, ai cambiamenti della società postindustriale: “La scuola siede tra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi”. Con Don Milani viene alla ribalta che dietro la battaglia ideologica combattuta sul latino si era in realtà nascosta (o era stata rimossa) la vera questione linguistica (che come diceva Gramsci “è sempre una questione politica”), ovvero la difficoltà a ripercorrere la distanza tra la lingua scolastico-accademica (possesso della borghesia) e quella posseduta dal popolo, attraverso una riflessione sui fini, sui saperi e sui metodi.
“Ma agli esami una professoressa gli disse:- perché vai a scuola privata? Lo vedi che non ti sai esprimere?
Lo so anch’io che il Gianni non si sa esprimere.
Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l’avete buttato fuori di scuola l’anno prima.
Bella cura la vostra.
Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.”
Già Pasolini nel 1965 su “Rinascita” aveva affrontato (in “Nuove questioni linguistiche”) il tema della lingua, in dimensione diversa da Don Milani, e per certi versi meno politica (o diversamente politica): nella denuncia dell’imporsi di una lingua tecnocratica del neocapitalismo del Nord, in luogo di una letteraria, essa stessa non nazionale, o di quella ben più espressiva (il dialetto) propria delle classi proletarie. Ma la mossa del non-letterato don Milani ebbe più efficacia di quella di Pasolini per ragioni intrinseche, in quanto connessa non ad un problema di espressione artistica, ma ad una situazione sociale esterna alla persona dell’autore; fu più politica, in quanto maturò in quella istituzione profondamente civica che è la scuola. La lingua che s’insegna nella scuola è la lingua dei ricchi, di quelli che tengono il potere. Ai poveri non è dato far valere i propri diritti, perché non possono comunicare o non hanno la “lingua” con cui si prendono le decisioni. Scrive ancora Don Milani:
“Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose”.
Non c’è dubbio che fra un documento storico, come la Lettera di Lorenzo Milani, e un evento del pari storico come il movimento studentesco del ’69, pur nelle loro insanabili distanze, ci siano state una concomitanza e una convergenza altrettante storiche! Che, non a caso, suscitano le stesse riserve da parte degli stessi ambiti culturali, anche oggi.
5. L’esame Sullo e la fine del nozionismo
Le conseguenze nel mondo della scuola non si fanno attendere, ma non sono prive di contraddizioni, anche profonde. Nel 1969, con il ministro Fiorentino Sullo, cambia l’esame di maturità. Sullo, anzitutto, estende l’esame di maturità a tutti i corsi di studio dei cicli quadriennali e quinquennali dell’istruzione secondaria superiore. L’esame consiste in due prove scritte e due materie per il colloquio tra quattro (di cui una a scelta del candidato). Il punteggio finale è espresso in sessantesimi. Si aggiungano inoltre la soppressione degli esami di riparazione e la liberalizzazione degli accessi agli studi universitari. Il decreto, convertito nella legge n.146 del 1971, avrebbe dovuto avere una validità sperimentale di soli 2 anni (e ne durò invece quasi 30). Gli effetti non tardarono a farsi sentire: su 34.496 allievi nell’anno 1970-71, i diplomati raggiunsero il 92% .
Negli archivi della RAI è possibile ritrovare un interessante documentario di “TV 7”, storico programma di approfondimento giornalistico, che descrive lo spirito che aveva guidato il cambiamento: in primis la battaglia contro il nozionismo, che fino a quel momento aveva caratterizzato le “domande” cui erano sottoposti i candidati, antitetiche ad ogni impostazione di tipo critico. I protagonisti intervistati (presidi, professori e studenti) raccontano di astruserie e torture che andavano da “Elencami tutti i discendenti da Cacciaguida fino a Dante” a “Come si chiamava il cane di Pascoli”, o a “Quanti quartucci di vino aveva bevuto Renzo Tramaglino nella bettola di Milano”. Il nuovo esame viene presentato come la soluzione volta a impedire che l’esame si risolva in un’esercitazione mnemonica e a trasformarlo in una valutazione globale della maturità e personalità dello studente. Il documentario ha il pregio di mostrare che di fronte al disorientamento complessivo, per una riforma che era intervenuta ad anno scolastico avanzato, i giudizi più lucidi venissero proprio dagli studenti: a chi gli chiedeva se l’esame sarebbe stato più o meno difficile, uno di essi risponde: «Dipende (….) può essere difficile per chi non ha avuto una preparazione adeguata… oggi un esame “critico” credo che produrrebbe una percentuale di bocciati o di respinti anche maggiore dell’esame fatto col vecchio metodo».
http://flashedu.rai.it/ieduportale/scuola/tv7maturita.mp4
Che il candidato rischiasse di venir sottoposto ad un tipo di esami per cui la scuola non lo aveva preparato era la preoccupazione principale anche di alcuni dei docenti, che si mostravano consapevoli del fatto che, cambiando il tipo di accertamento ma non il curricolo, il superamento della vecchia impostazione fosse nei fatti impossibile. A riprova, colpisce nel documentario il seminario di presentazione nella sede del provveditorato di Roma: il relatore, preside del Liceo Virgilio, spiega ai tanti colleghi e docenti intervenuti l’idea del colloquio basato sui “concetti essenziali” utilizzando come esempio (!) la collocazione temporale di un canto di Leopardi tra i primi o gli ultimi idilli: un elemento inserito in un procedimento esso stesso nozionistico, piuttosto che critico, che – per quanto semplice – consente di intravedere il rischio che un altro studente nello stesso filmato di lì a poco evidenzia: “Facciamo da cavie, e fanno da cavie anche i professori”.
La riforma Sullo ha resistito per 30 anni. Doveva essere sperimentale, doveva cambiare l’impostazione degli studi, essere a misura del candidato e valutarne la preparazione critica e globale; nei fatti, non essendo stata preceduta né accompagnata, non solo dall’ auspicata riforma delle superiori, ma neppure da una seria e capillare riflessione di natura scientifica sui processi di insegnamento/apprendimento e sul significato da attribuire alla verifica dell’acquisizione dei saperi, ebbe come unico pregio la soppressione degli esami di riparazione e la liberalizzazione degli studi universitari, con un forte innalzamento delle percentuali di promozione.
In compenso divenne presto oggetto di narrazioni, letterarie e cinematografiche, tra la farsa e il dramma apparente che sostituirono nell’immaginario collettivo l’immagine di pesante fardello esistenziale che aveva avuto invece l’esame precedente. Tra i ricordi di Domenico Starnone, ritroviamo questo confronto:
Cominciamo da lontano. Ho fatto l´esame di maturità all´inizio degli anni Sessanta. Posso legittimamente definirlo “di maturità” perché ho frequentato il liceo classico. Se fossi stato – mettiamo – studente di un istituto magistrale o di un tecnico, avrei dovuto dire esame di abilitazione. Era ancora il tempo in cui di maturità si poteva parlare solo per i giovani del classico e, in subordine, per quelli dello scientifico. Tutti gli altri – la gran parte degli studenti italiani, – non maturavano; dovevano solo dimostrarsi abili e abilitarsi. Così prescriveva la scuola riformata da Gentile, nel 1925.
All´epoca ho sgobbato molto. Ho fatto esami scritti che prevedevano che sapessi comporre in bell’italiano e tradurre in latino, dal latino e dal greco. Mi è andata comunque meglio che alle generazioni precedenti. Prima, se si sgarrava pesantemente nelle prove scritte, si era esclusi dall’orale. Ora, dal 1958, non più. Facevi gli scritti, sbagliavi tutto, ma andavi comunque agli orali, su tutte le materie. Poi crollavi lì.
Feci sufficientemente bene sia gli scritti che gli orali. Poiché sono stato uno studente diligente, mi ricordo il tempo che precedette gli esami come un curvo studiare per dieci ore al giorno. Cosa studiassi, non lo so. La memoria dell´angoscia ha cancellato presto quella dello studio. Scivolai davanti ai membri della commissione come un automa. Chi erano? Gentile aveva previsto tra i commissari, nei licei classici, ben due professori universitari. Ma gli accademici avevano altro da fare. Ai miei tempi c´erano ormai solo professori di ruolo o abilitati, e al massimo un preside che presiedeva. Mi è rimasta in mente una radiosa commissaria di italiano che si entusiasmò per il mio compito, pura aria fritta sul tema: la funzione del dolore in Manzoni e Leopardi; e un senso di fatica snervante e vana.
Poi l´ho rifatto spesso, da insegnante, l´esame. Nel 1969 lo ritoccarono pesantemente, per far piacere alle scuole private che da sempre chiedevano un esame più facile, così da aumentare il loro volume di affari, e per acquietare il ´68 egalitario, al quale in quell´occasione fu concesso che finalmente anche l´esame delle magistrali e dei tecnici si chiamasse di maturità. Una volta professore, l’avvicinarsi della prova di stato mi ha dato angoscia allo stesso modo che da studente. Temevo per i miei alunni. Anche se ormai gli esami scritti erano, col rattoppo del ´69, solo due e le materie per il colloquio solo quattro, indicate per tempo dal ministero. Anche se le materie oggetto di esame orale presto diventavano di fatto da quattro due (la prima scelta dalla commissione e la seconda scelta dallo studente). Anche se la materia scelta dalla commissione era spessissimo “suggerita” alla commissione stessa dal membro interno, amico degli studenti e informatissimo sulle loro necessità. Mi preoccupavo ugualmente, perché li vedevo comunque divorati dall´ansia. La commissione esaminatrice, sebbene senza accademici, ispettori e ormai nemmeno presidi, sebbene senza funzioni vere di controllo, era pur sempre una commissione esterna, burbera, imprevedibile, attenta ai sigilli con la ceralacca o il nastro adesivo.
Insomma sono andato in pensione persuaso che bisognava trovare il modo per abolire l´esame di maturità. Infatti di recente l´hanno abolito, ma fingendo di restaurarlo.
Un’ultima notazione. La tempistica delle novità introdotte dal Ministro Sullo appaiono del tutto inopportune: la legge definitiva di riforma è del 5 aprile 1969, n. 119, due mesi prima della sua prima applicazione. Ma in quel caso nessuno ritenne opportuno protestare in virtù dell’ evidente semplificazione delle prove, al punto che gli studenti di allora coniarono lo slogan “Mi sollazzo e mi trastullo/ tanto c’ho l’esame Sullo!”. Ma era il 1969, anno assai prolifico nel conio di slogan di varia natura!
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