L’opportunità dell’antifascismo
Se c’è una cosa che non manca nella Sinistra italiana è la diversità di opinioni. Di recente il dibattito innescato dalle dimissioni di Christian Raimo da consulente del Salone del Libro di Torino per la presenza dello stand di Altaforte edizioni, casa editrice legata a Casapound, ha confermato, se ce ne fosse bisogno, la fondatezza di questo giudizio. Nella foga del momento, come accade puntualmente in questi casi, la prima vittima della sordità alle ragioni degli altri è stata la prudenza, cioè, nello specifico, la disponibilità a riconoscere il ruolo speciale, e specialmente problematico, che l’antifascismo ha svolto ed è destinato a svolgere anche in futuro nella vita politica del nostro paese. Anche se è comprensibile il desiderio, che accomuna almeno due generazioni, di non ripiombare in una diatriba tipica degli anni Settanta, questo non dovrebbe spingere a sottovalutare il significato allo stesso tempo pratico e simbolico che ha la pregiudiziale antifascista per il presente e il futuro della democrazia italiana.
Quanto dirò non ha la pretesa di rendere giustizia a tutte le posizioni in campo. Il suo obiettivo è più modesto, ma nelle mie intenzioni costruttivo: vorrei sviluppare, cioè, un punto di vista che, pur non risolvendo la questione, aggiunga un elemento di riflessione contestuale che aiuti a capire perché può essere utile sospendere i giudizi sommari in circostanze così delicate e procedere invece caso per caso in un’ottica non sentimentale e antiperfezionistica.
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Parto dalla questione dell’opportunità della levata di scudi degli alfieri del boicottaggio del Salone su cui ha finito per dividersi acrimoniosamente anche il fronte degli antifascisti. Chi ha contestato l’utilità del boicottaggio l’ha fatto utilizzando nella sostanza due argomenti generali, in linea di principio condivisibili: che le idee si combattono con le idee (1), e che i sostenitori delle opinioni neofasciste sono, elettoralmente parlando, una sparuta minoranza che ha tutto da guadagnare e nulla da perdere da simili mobilitazioni che infiammano l’attenzione della volatile e tutt’altro che illuminata opinione pubblica italiana giusto per la durata effimera di una polemica massmediatica (2).
Ora, questo argomento ragionevole sottovaluta però un problema ben noto a chi ha fatto politica dopo la fine dei movimenti di massa, e forse da sempre.
In una società sempre più spoliticizzata il divario tra le maggioranze che si limitano a osservare e le minoranze a cui viene delegato l’attivismo politico si allarga continuamente. Questo è un cambiamento dalle conseguenze significative perché la logica che governa la contesa nei due ambiti è molto diversa. Infatti, sebbene siano entrambi luoghi in cui viene combattuta una lotta per l’egemonia, in un caso il conflitto di idee avviene nella forma diluita e disincarnata del conflitto di opinioni e interessi, mentre nell’altro caso la contesa ha una natura molto più ambigua e impura. Qui la presenza fisica, le scene madri, i simboli, anche gli spintoni contano moltissimo. Chi ha una sensibilità spiccata per questo tipo di saggezza pratica conosce simili dinamiche molto meglio delle persone che, come me, sono spettatori per indole e natura.
D’altra parte, questa è una verità ben nota anche alle élite che si spartiscono i posti di comando nelle nostre società post-ideologiche e che le loro lotte le combattono da sempre a suon di gomitate e sgambetti e non, come vorrebbero far credere, sulla base di ragionamenti spassionati e meriti oggettivi. Non a caso, storicamente, il transito dalla sfera dell’attivismo politico a quella dell’esercizio del potere è sempre stato fluido e costante.
Ora, è interessante notare che leader politici smaliziati come Trump e Salvini sanno riconoscere perfettamente la differenza tra i due tipi di lotta per l’egemonia e, sebbene in una società disinteressata alla politica sia più difficile capirne a fondo il senso, con il loro cinismo riescono a muoversi agilmente da un ambito all’altro senza pagare dazio. La loro arma segreta, ovviamente, è la dose infinita di opportunismo di cui dispongono e che consente loro di ammiccare a destra e a manca tenendo la barra dritta verso il loro vero obiettivo: la gestione di un potere che serve soprattutto a soddisfare il loro ego e cementare le loro rendite di posizione.
Evidentemente non si può essere antifascisti per mero opportunismo e questo spiega l’acrimonia con cui finiscono per svolgersi le dispute tra chi adotta la logica “partigiana” dell’attivismo politico e chi prende posizione anzitutto come spettatore, per quanto indignato possa essere. Eppure il senso dell’opportunità richiederebbe proprio la capacità di tenere il piede in due scarpe. L’antifascismo, come notavo sopra, è infatti sia militanza screanzata in quegli ambiti di azione politica diretta (dalle scuole alle piazze, dalle borgate alle curve degli stadi) in cui la presenza di militanti politici neofascisti è tutt’altro che insignificante e dove è più difficile spingere anche fisicamente le idee e i comportamenti fascisti ai margini della vita pubblica, sia la disponibilità a vivere in una società che, fosse pure solo per motivi statistici, non può non includere persone con cui siamo condannati a convivere anche quando tale convivenza ci suscita un moto di ripulsa. Non esiste infatti alternativa, dato che la loro segregazione o eliminazione fisica non rientra evidentemente tra le opzioni moralmente accettabili.
Tollerare questo margine di dissonanza cognitiva rinviando ad libitum la chiusura a tenuta stagna del ragionamento sillogistico è esattamente quello che hanno fatto i leader e i militanti politici da sempre, compresi gli eroi della Resistenza partigiana. Il punto irrinunciabile è tenere fede a quella tensione morale che ci eviterà di diventare dei cinici opportunisti e che si manifesta psicologicamente come un sentimento d’indisponibilità che è allo stesso tempo adesione a un contenuto di verità, testimonianza di decenza morale e segno di autenticità personale.
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Al Salone del Libro di Torino si poteva perciò andare o non andare, ma era comunque essenziale farlo in uno stato d’animo adeguatamente travagliato e tenendo sempre presente che quello che conta è non perdere mai di vista le cose che ci fanno inorridire nel fascismo: l’idolatria della forza, la paura della diversità, il disprezzo dell’intelligenza, la sfiducia nelle potenzialità umane. Sono aspetti della condizione umana che combattiamo dentro e fuori di noi. Non dovrebbe stupirci, dunque, che si tratti di una battaglia lunga e difficile da vincere senza qualche compromesso con quelli che in situazioni ordinarie consideriamo vizi.
Il lessico della lotta, dello sforzo che deforma l’espressione del volto, delle emozioni che smuovono le viscere ben si adatta a quelle circostanze in cui il contrasto ideologico tocca il fondo delle esistenze personali e costringe a rinunciare a quell’aplomb equanime e a quelle virtù pubbliche che sarebbe giusto attendersi da persone che aspirano a liberare la socialità umana dall’ipoteca della violenza sistemica. Se le cose stanno così, accettiamo allora che ci sia qualcosa di sbilenco anche nel nostro modo di combattere strenuamente gli intolleranti cercando per quanto possibile di non vendere l’anima al diavolo.
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