Tra Francia e Algeria, seguendo il torrente della Storia: L’arte di perdere di Alice Zeniter
Non ricordo più come cominci l’Eneide, quali siano le prime avventure di Enea e dei suoi compagni quando lasciano Troia – o piuttosto il luogo in cui in passato sorgeva Troia e dove restano solo macerie, odore di sangue e di fumo. Ricordo solo il primo verso che ho tradotto come esercizio di versione latina ormai più di dieci anni fa: Arma virumque cano…. Canto le armi e l’eroe. Suppongo che dopo ci fosse una proposizione relativa, «l’eroe che …», grazie alla quale si dipanava tutta la vicenda, ma mi sono rimaste in mente solo queste tre parole. Nonostante il silenzio in cui si è trasformato quel lungo poema intessuto di peripezie, è ovvio che alla fine del suo faticoso vagabondare Enea arriva nel Lazio e che la sua stirpe fonderà Roma.
Tra il momento in cui Alì mette piede in Francia, nel settembre 1962, e quello in cui Naïma si rende conto di non conoscere la storia della sua famiglia più di quanto io mi ricordi l’Eneide che cosa accade? Una vicenda senza eroe, forse. Una vicenda che – comunque – non è mai stata cantata. (A. Zeniter, L’arte di perdere, Einaudi, Torino 2018, p. 137).
***
È uscito da qualche mese, tradotto in italiano da Margherita Botto per l’editore Einaudi, L’arte di perdere, il romanzo postcoloniale di Alice Zeniter, già insignito nel 2017 di numerosi premi in Francia, da cui è tratta la citazione riportata. Deve il titolo ad una lirica di Elisabeth Bishop – riportata integralmente da Zeniter a poche pagine dalla fine della narrazione – nella quale la poetessa statunitense riflette sull’oblio a cui sono destinati tanto gli oggetti concreti, inutili e insignificanti, della nostra vita, quanto, in un crescendo che non lascia scampo, luoghi e persone che hanno reso unica la nostra storia personale. L’antidoto alla perdita, che può diventare una dolorosa assenza, «un disastro», è la scrittura: per dimenticare, per lasciarsi alle spalle il passato, per voltare pagina, è necessario ricordare e condividere il ricordo. Questa è la lezione del libro, incarnata dalla vicenda della protagonista, Naïma, che viene introdotta nel Prologo dalla voce narrante dell’autrice: è ritratta ubriaca, alla vigilia del viaggio in Algeria che intraprende allo scopo di far riemergere un paese «dal silenzio che lo aveva occultato meglio della nebbia più fitta».
L’arte di perdere è una saga familiare: Naïma è una francese di ventinove anni, vive a Parigi, lavora in una galleria d’arte contemporanea specializzata in «arte non allineata», è inquieta e disinvolta nell’intrecciare relazioni con gli uomini («mia nonna si è sposata a quattordici anni. Mia madre ha conosciuto mio padre quando ne aveva diciotto. Bisogna pure che in questa famiglia una donna si decida a ottenere risultati migliori»). Il suo nome, la pelle scura, i capelli neri, i parenti più anziani, che le hanno reso familiari «i brusii dell’arabo», le ricordano continuamente che è un’immigrata di seconda generazione, che viene da un luogo relativamente lontano, ma che conosce solo grazie a Wikipedia, non certo dai racconti di famiglia. Il silenzio che avvolge le vicende del passato affonda le sue ragioni nella storia coloniale che lega Francia e Algeria: Alì, il patriarca protagonista della prima sezione del romanzo, è infatti un harki, propriamente uno dei «detentori di un contratto paramilitare a tempo determinato rinnovabile», un algerino – precisamente un cabilo di etnia berbera – che, insieme ad altri centomila conterranei a vario titolo compromessi con il governo francese, nel 1962, dopo la proclamazione dell’indipendenza dell’Algeria e la firma degli accordi di Evian, ha scelto di lasciare tutto, di espatriare in Francia per timore di ritorsioni e rappresaglie da parte del FNL (Fronte di liberazione nazionale) contro chi non aveva apertamente manifestato idee indipendentiste o aveva dei trascorsi nelle fila dell’esercito dei colonizzatori. Alì aveva infatti combattuto la seconda guerra mondiale, sopravvivendo alla battaglia di Montecassino, in cui, negli eserciti degli Alleati, oltre agli algerini, c’erano marocchini e tunisini per i francesi, indiani e neozelandesi per gli inglesi. Negli anni Cinquanta Alì aveva collaborato con gli oppressori, con la polizia francese, ma al solo scopo di proteggere il suo piccolo villaggio sul crinale, una comunità rurale che gli riconosceva un particolare prestigio in virtù del benessere economico raggiunto con la coltivazione degli ulivi. Insomma, come si evince dalla lettura della prima parte del romanzo (L’Algeria di papà) e come sarà evidente nel seguito della narrazione, era rimasto ingenuamente estraneo ai grandi meccanismi della Storia, aveva scelto la parte sbagliata, quella destinata alla sconfitta, senza calcolare le conseguenze del suo gesto, ne aveva pagato il prezzo pur non riuscendo a capire fino in fondo dove avesse sbagliato, convinto che «bisogna essere pazzi per opporsi al torrente» e che «la vita è fatta di fatalità irreversibili».
Gli harki vivono una condizione complicata e difficile: considerati traditori in patria, dove sono stati espropriati dei loro beni e fatti oggetto di maledizioni ricorrenti che ricadono anche sui loro discendenti, sono cittadini francesi di serie B. La famiglia di Alì viene accolta prima nel campo profughi di Joffre, tendopoli recintata da filo spinato e piena di fantasmi («quelli dei repubblicani spagnoli scappati da Franco, quelli degli ebrei e degli zingari che Vichy ha rastrellato nella zona libera»), poi insediata nel villaggio prefabbricato di Jouques, il cosiddetto «Logis d’Anne», nel dipartimento Bouche-du- Rhône, fatto di baracche ai margini di una foresta da disboscare; infine è alloggiata nello squallido quartiere periferico di Le Pont-Féron, in Normandia, un dormitorio per i numerosi operai magrebini delle fabbriche della zona, disposte ad assumere «massa non qualificata» per svolgere un lavoro pesante e ripetitivo, «ricevendo in cambio solo i mezzi per sopravvivere, non per esistere». Nonostante tutto, sigillando il passato nel silenzio un po’ per orgoglio e un po’ per vergogna, Alì ha sempre ringraziato per quel che la Francia gli ha dato, con un atteggiamento fatalista difficile da accettare in particolare per chi gli sta accanto, soprattutto per Hamid.
Hamid è uno dei dieci figli del patriarca Alì (alcuni nati sul suolo di Francia) ed è il padre di Naïma. È il protagonista della seconda parte del romanzo, intitolata La Francia fredda: nato in Algeria, custodisce laceranti ricordi d’infanzia, belli e terribili contemporaneamente, che, esattamente come suo padre con cui pure si consuma un feroce conflitto generazionale, non accetta di condividere. È il testimone dell’odissea della sua famiglia: per questo, per non essere tormentato dalla rassegnazione con cui i genitori accettano il loro destino, appena ne ha la possibilità lascia Le Pont-Féron, si trasferisce a Parigi. Rifiuta le sue radici («è una cavolata questa storia delle radici. Hai mai visto un albero crescere a migliaia di chilometri dalle sue? Io sono cresciuto qui e perciò le mie radici sono qui»), ha ottenuto un impiego pubblico e ha sposato Clarisse, una donna francese sensibile e rispettosa delle sue contraddizioni, con cui ha avuto quattro figlie, allevate assecondando l’indole e l’inclinazione di ciascuna, ma non concedendo nulla al loro retaggio algerino, se non qualche spensierata riunione di famiglia con sapori, profumi e suoni esotici e con l’immancabile abbraccio accogliente di nonna Yema, la vedova di Alì.
A Naïma nella terza parte del romanzo con titolo Parigi è una festa, viene proposto di recarsi in Algeria per cercare le opere necessarie per allestire, per conto della galleria d’arte in cui lavora, una mostra retrospettiva di un artista contemporaneo algerino, Lalla, che ha scelto di assumere il proprio nome d’arte in onore di Lalla Fadhma N’Soumer, un’eroina ottocentesca della resistenza antifrancese. Naïma intuisce, non senza qualche perplessità, di avere di fronte a sé l’occasione «di riallinearsi a una storia familiare di cui si era liberata per scrivere meglio la propria»: seguendo d’istinto la filosofia del nonno Alì («bisogna essere pazzi per opporsi al torrente»), parte per l’Algeria per riempire i silenzi tramandati di generazione in generazione, ma anche per capire il mondo che le sta intorno. Naïma vive in un presente in cui l’origine araba è vista con sospetto: gli attentati a “Charlie Hebdo” del 7 gennaio 2015 e al teatro Bataclan il 13 novembre del medesimo anno hanno diffuso sentimenti xenofobi, il fenomeno di radicalizzazione e le proteste identitarie sono all’ordine del giorno, ma Naïma è consapevole di essere protagonista di una storia individuale e cangiante in cui l’Algeria rappresenta solo un capitolo in un libro ben più vasto, in parte ancora da scrivere: l’esperienza del viaggio in terra d’Africa, infatti, preparata con ampie ricerche d’archivio e opportunamente integrata dall’immaginazione, le restituirà un racconto frammentario, destinato a restare comunque parziale.
Naïma troverà solo una parte delle risposte che cerca anche perché la sua vita in divenire le porrà altre domande: «enunciati simultanei e contraddittori» le lanceranno ogni giorno una sfida inedita perché, scrive l’autrice nell’ultima frase del libro, «lei non è arrivata da nessuna parte nel momento in cui decido di interrompere questo testo, lei è in movimento, avanza ancora».
Non è questo l’annuncio di un finale aperto, piuttosto il rifiuto dell’etichetta di «romanzo di formazione»: è un invito ad accettare i nodi irrisolti, a rifiutare le semplificazioni e ad affrontare la complessità del mondo di oggi. Il libro della giovane scrittrice francese è infatti coraggioso e ambizioso nel tentativo di tenere insieme passato e presente, senza indulgere nei toni paternalistici che troppo spesso caratterizzano le storie di sradicamento o nelle semplificazioni che spingono a individuare con superficialità vittime e carnefici, oppressi e oppressori. In una macchina narrativa davvero ben congegnata e con una felicissima capacità di descrivere tanto gli spazi interiori dei personaggi quanto quelli concreti in cui si muovono, Alice Zeniter ci ha consegnato un monumento di parole che ci insegna l’arte di perdere le radici, abbandonandoci alla forza del torrente della vita, e ci invita a leggere la realtà presente con tutte le sue contraddizioni, chiare eppure irrisolvibili, che derivano dall’intreccio della Storia collettiva con le vicende individuali.
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