Mary Everest Boole, la scienziata vittoriana che ha ancora molto da insegnarci sulle ‘due culture’
Nello splendido saggio intitolato “I bambini e il pensiero scientifico” di Paola Magrone e Ana Millan Gasca (Carocci, 2018) c’è tutto il lavoro e la sorprendente riflessione di Mary Everest Boole, autrice agli inizi del Novecento di “The Preparation of the Child for Science” (Clarendon Press, Oxford 1904), un classico della pedagogia inglese finalmente disponibile anche nella nostra lingua. Dove la preparazione alla scienza significa preparazione ad accogliere tutto il sapere, perché “le scienze servono ad umanizzare le menti dei bambini e dei ragazzi; insieme alla letteratura e all’arte le scienze sono una delle grandi espressioni storiche dello spirito”. Il libro tocca questioni di teoria dell’educazione assolutamente attuali, tutte imperniate sull’unità delle ‘due culture’ nella comune dimensione umanistica, sul concetto di ‘educazione intellettuale’, sulla libertà creativa del pensiero degli insegnanti e degli studenti rispetto ai vincoli mortiferi della competizione e del profitto.
E tutto questo agli inizi del Novecento ….
La pedagogia del momento non è certo parca di idee se si tratta di avvicinare i bambini al pensiero scientifico, e sappiamo bene che tutto ciò che ruota intorno ai più giovani, dai giocattoli all’editoria tradizionale e multimediale, è addirittura ipertrofico da questo punto di vista, e non sempre disinteressato.
Allora perché voltarsi indietro a guardare un testo del 1904? Perché farlo in un momento in cui la tendenza a inseguire l’ultimo grido ‘digitale’ – in un folle ‘digitalismo’ in cui l’high-tech è diventato un fine e non più uno strumento – sembra essere la direttrice metodologica fondamentale nell’insegnamento delle discipline scientifiche e di quel poderoso coagulo rappresentato dalla ‘tecnoscienza’?
Se lo chiedessimo alle due autrici del saggio “I bambini e il pensiero scientifico” (Carocci, 2018) – all’interno del quale compare la traduzione integrale dell’opera della pedagogista inglese – Ana Millan Gasca, ordinaria di Matematiche complementari, e Paola Magrone, ricercatrice di Analisi matematica, probabilmente risponderebbero citando la stessa Everest Boole: “L’essere aggiornati è causa del disordine: la fretta, la presunzione di cancellare rapidamente ogni impressione parziale quando non si ha nulla con cui sostituirla se non qualche altra impressione ugualmente parziale, non solo è poco scientifico, ma estremamente caotico”, così come è discutibile “supporre che l’unica preparazione alla scienza necessaria o possibile sia un insegnamento precoce delle cosiddette materie scientifiche. Un atteggiamento precoce è molto più importante di un insegnamento precoce”. Perché è fondamentale – e questo è un momento propedeutico che vale per tutte le discipline – la preparazione della mente inconscia all’interesse, all’ascolto, all’osservazione, all’esperienza, alla novità e alla tradizione, all’errore e alle sue infinite potenzialità.
Le due autrici scelgono dunque di riproporre un testo che polemizza spesso con le tendenze modaiole degli scienziati dell’epoca (ma evidentemente anche di oggi) e che si concentra sull’educazione scientifica da dare a giovani e bambini vedendola in armonia con la loro crescita morale e umana e sottolineando spesso quel “tesoro filosofico nascosto, che è in grado di arricchire la formazione di ogni ragazza e ragazzo se si integra nella cultura, perché viene incontro a molte inquietudini, curiosità, domande e talenti individuali”, come scrivono nella parte conclusiva del volume.
L’intento precipuo su cui le due studiose si focalizzano e che emerge dalla lettura attenta delle corpose prefazione e postfazione, è provare a reintegrare le STEM e le materie scientifiche in generale in un ideale formativo unitario, ben al di là dell’ottica della sola prosperità economica: perché la scuola è e resta il luogo ideale dove può nascere e crescere l’amore per la scienza, più che nei fuochi d’artificio dei festival. Nei tempi lunghi di lavoro, intimità, strumenti di misurazione, “l’aula è sempre un laboratorio”, dicono Millan e Magrone. E solo a scuola, scriveva la Boole, può essere impostato correttamente il “battito ritmico tra altruismo e competizione”.
Attraverso una ricognizione che va dalla nascita delle scuole di calcolo nel Duecento a Pisa e che passa per la figura del marchese di Condorcet, con cui la matematica si affranca dalla sua utilità pratica e recupera la dignità filosofica, la scienza è sempre rappresentata in queste pagine come “amore intellettuale, ricerca della verità e della bellezza”, cosicché l’impressione che se ne ricava è che questo libro non sia stato scritto per o a partire da Mary Everest Boole, ma con lei e con la sua visione umanistica di ogni attività scientifica.
Scienziata, autodidatta e donna vissuta nell’Ottocento, lottò molto per inserirsi nel panorama culturale della sua epoca (ne è testimonianza un carteggio con Charles Darwin) e certo non le furono risparmiate critiche in un ambiente intriso di razionalismo positivista, per una particolare postura scientifica mitigata tuttavia dalla “deferenza rispetto all’ignoto”.
È difficile comprendere le accuse dei detrattori dopo avere sperimentato la pacatezza con cui la studiosa ribadisce la logica della misurazione, della ricerca di costanti e di leggi, della previsione – “l’attenzione ai dettagli e l’abitudine di compilare dei resoconti, la pertinenza nel rispondere alle domande, la capacità di distinguere fra fonti di informazione dirette o indirette e valutare la loro attendibilità, l’immaginazione matematica e scientifica che permette di guardare la realtà e adoperare strumenti di conoscenza astratti, la capacità di tenere distinte le ipotesi dai fatti verificati e dalle fantasie” – o l’etica rigorosa che deve accompagnare i due atteggiamenti fondanti della postura scientifica, e cioè appunto ‘”a deferenza rispetto all’ignoto” e la “pulsazione ritmica” tra intuizione e stupore, analisi e sintesi, altruismo e competizione, nell’idea che anche l’errore contenga semi di conoscenza.
Ed è gustoso che sia lei stessa a tacciare di antiscientificità gli stratagemmi che spingono – allora proprio come ora – gli studenti a superare i test di materie che in realtà non capiscono: “Quella delicata sensibilità verso il tocco dell’illogico, verso i limiti della conoscenza, e verso la Presenza dell’Ancora-Sconosciuto, che alcuni grandi matematici hanno cercato di ridurre a un meccanismo automatico, è troppo spesso distrutto nella mente umana da processi rozzi e prestabiliti, adottati, alle volte con lo scopo di fissare le opinioni dei giovani, a volte con quello di consentire loro di superare gli esami in materie che in realtà non capiscono”. Quanta verità e quanta saggezza pedagogica in queste semplici parole! Che appaiono tanto più attuali e pertinenti se pensiamo ai processi di standardizzazione e omologazione del pensiero realizzati attraverso la pratica pervasiva dei test come principale strumento di misurazione e valutazione degli apprendimenti.
Visto lo spessore di queste riflessioni, sembra ingiusto che l’attività didattica per la quale Mary Everest Boole è più ricordata oggi sia la costruzione delle curve a partire dai fili cuciti su un cartoncino perforato dall’ago in certi punti, “una attività nel corso della quale si “costruiscono” curve oltre la familiare circonferenza e nella quale appare implicitamente l’idea di tangente: si tracciano soltanto rette, eppure il risultato che appare davanti agli occhi, il profilo che possiamo seguire con il dito, è quello di una curva, che si chiama in matematica inviluppo della famiglia di rette”. Tuttavia anche da un’attività manuale come quella appena descritta le è facile riannodarsi al cuore del problema: “Si presentano agli allievi quindi idee matematiche avanzate – tipiche della scuola secondaria superiore – evitando però un insegnamento formale, “artificiale” (che sarebbe prematuro). Si prepara il terreno per lo studio futuro attraverso un gioco visivo, tattile e motorio, che sfrutta le capacità manuale dei bambini e l’idea di retta finita come filo tirato tra due punti, una delle più antiche concezioni della geometria”.
Niente a che vedere dunque con i costrutti di ‘compito autentico’, di prova ‘in situazione’ e relativa valutazione della performance su cui è orientata tanta pedagogia costruttivista contemporanea.
La scienziata spiega così che interrogarsi su come la scienza debba essere insegnata ai bambini significa porsi domande essenziali sul metodo scientifico stesso, riflettere su quanto si voglia farlo rimanere vitale all’interno delle scuole e quindi nell’abito mentale degli individui e della società intera, con quali prerogative e con quali prospettive: “La scienza si è evoluta grazie all’azione equilibrata di queste due facoltà o poteri: la naturale curiosità della scimmia e la riverenza spirituale disciplinata. Coltivare esageratamente la curiosità distruttiva è un modo sbrigativo di consentire ai bambini di mettersi in mostra alle interrogazioni di scienze; ma questo genere di cose non induce l’abitudine al vero metodo scientifico, che dipende dall’alternanza degli opposti”.
Visione unitaria dell’insegnamento, affrancamento da una concezione utilitaristica del sapere, valorizzazione dell’esperienza come garanzia di autenticità di ogni momento dell’apprendimento, mutuo e costante arricchimento tra tradizione e innovazione, valorizzazione dell’errore e alternanza e variabilità dei metodi, spaziando, docenti e studenti insieme, tra razionalità e immaginazione: cosa c’è di più straordinariamente attuale e liberatorio in un ragionamento pedagogico così controintuitivo rispetto alle modalità e soprattutto alle finalità mortifere della scuola contemporanea?
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