La competenza, uno stadio avanzato del flusso dell’apprendimento
La “scuola delle competenze” come progetto politico?
In campo educativo, a livello istituzionale, l’idea di “competenza” è sempre più presente nel lessico e nelle pratiche auspicate,[i] mentre le pratiche reali testimoniano la nebulosità del concetto attraverso didattiche casuali, empiriche e di debole fondazione pedagogica e didattica. Va segnalato che, in parallelo, è sempre più attivo un movimento pedagogico e culturale avverso a quella che viene ritenuta una virata dal consolidato approccio di organizzazione del curricolo intorno alle “discipline” verso un nuovo principio regolatore, quello “per” competenze (Appello per la scuola pubblica). E questo significa l’abbandono delle conoscenze disciplinari e della loro solida organizzazione epistemologica – che è generatrice di apprendimenti: non solo di “contenuti” strutturati e intrecciati, ma anche di modalità di pensiero, di valori, di atteggiamenti –, a favore dell’apprendimento di conoscenze frantumate, parziali, strumentali ad un’azione meccanica e non intelligente.
Questo passaggio dalla “conoscenza” alla “competenza” segna, sempre secondo i detrattori di quest’ultima, il passaggio da una scuola che “istruisce” (favorendo lo sviluppo di menti pensanti e capaci di muoversi nella complessità e fluidità del contemporaneo) a una scuola che “forma” (trasmettendo le nozioni essenziale per agire nel presente con modalità adattive e non generative). Con il passaggio dalle conoscenze alle competenze ci si starebbe dirigendo, fin dalla scuola dell’infanzia, verso una scuola “professionalizzante” e di preparazione al lavoro: e visto il bagaglio culturale e cognitivo con cui la “scuola delle competenze” intende attrezzare gli studenti, si tratterebbe di un lavoro standardizzato, meccanico, di basso contenuto; un lavoro, ben che vada, da quadro intermedio, da tecnico, non certo da “élite” culturali, economiche o politiche.
Sempre a detta dei detrattori, sul piano della persona la così detta “scuola delle competenze”, indebolendo le capacità di pensiero critico e riflessivo (l’“istruzione”), favorirebbe lo sviluppo di valori funzionali al mantenimento del sistema culturale ed economico consolidato e un atteggiamento fortemente pragmatico, centrato sul fare a discapito del pensare: un sistema di valori che porta ad assumere prospettive di breve periodo, la centratura sul sé e un indebolimento forte del senso del vivere sociale e del voler costruire comunità.
Tutto questo per la “massa”, mentre per le élite, quelle destinate a governare i processi culturali, economici, politici, sarà sempre disponibile la “scuola delle conoscenze”, l’unica in grado di rendere protagonisti propositivi dei cambiamenti che altri dovrebbero semplicemente subire, ovvero imparare a “gestire”.
Azzardo un’ipotesi: se tutto questo è vero, o almeno plausibile, la così detta “scuola delle competenze” non sarà forse la realizzazione operativa, lo sbocco naturale, della scuola di massa, quella funzionale alla terza rivoluzione industriale (quella dell’intelligenza artificiale, dell’iperconnessione, dell’automazione)? Non sarà forse la scuola più adatta a un’economia le cui leve strategiche sono i capitali e le tecnologie, non certo il fattore umano, cui si richiedono, paradossalmente, competenze non elevate? (per dirla con Frabboni: competenze elementari, necessarie a svolgere compiti ben specificati e in condizioni stabili; non competenze superiori, mobilitate per far fronte a compiti non specificati e alla soluzione di problemi).[ii]
Il fraintendimento del concetto di competenza e i “compiti di realtà”
Ma davvero la scuola delle competenze è una scuola che svalorizza, trascura, ignora, mette in second’ordine le conoscenze?
Per rispondere a questa domanda è necessario distinguere due piani del discorso: quello della “teoria” delle competenze e quello della loro “pratica”. Sono anni che a scuola si lavora o si cerca di lavorare per competenze, per cui oggi è possibile ragionare su cosa sia la “competenza” non solo nella sua concettualizzazione “a tavolino” (questione ancora aperta), ma anche nelle pratiche reali.
Chi frequenta le scuole e gli insegnanti rileva due fatti, a dir poco, inquietanti. Il primo riguarda la percezione diffusa di cosa sia la “competenza”. Forse a causa dell’approssimazione o della parzialità delle definizioni disponibili, forse a causa del fatto che gli “esperti” non offrono un chiaro quadro pedagogico su cui fondare le pratiche didattiche, forse anche perché la prospettiva delle competenze è stata proposta alle scuole senza la consapevolezza delle sue implicazioni epistemologiche, didattiche e organizzative, sta di fatto che non è raro il convincimento che per generare “la competenza” basti “far fare qualcosa”, ovvero proporre la realizzazione sporadica di un manufatto (un dépliant, un video, l’organizzazione della gita scolastica o di uno spettacolo) che testimoni il “saper fare con ciò che si sa” .
In tutti i casi è diffuso un fraintendimento, o una comprensione debole del costrutto di competenza, che genera pratiche didattiche marginali se non addirittura irrilevanti ai fini dell’obiettivo che si pensa di perseguire: proprio la competenza.
Il secondo fatto inquietante riguarda la didattica e le strategie d’insegnamento veicolate dall’editoria scolastica. In questo caso prevale il cosiddetto “compito di realtà”, una pratica didattica empirica caratterizzata dallo produzione di un qualche artefatto cognitivo e/o fisico. Ma in questi esercizi la “realtà” o è sempre quella scolastica oppure è semplicemente simulata nella consegna. Si tratta di brevi attività da svolgere in modo decontestuato, che richiedono la mobilizzazione di limitate conoscenze e abilità; sono attività poco o nulla sfidanti, semplici, prescrittive, che richiedono la messa in atto di operazioni esecutive e che considerano prospettive disciplinari singole. Sono inoltre attività finalizzate alla valutazione sommativa, alla verifica della capacità di riprodurre un apprendimento, non contesti che offrono opportunità per nuovi apprendimenti autentici e significativi. In altre parole, i cosiddetti “compiti di realtà” altro non sono che la riedizione dei classici esercizi scolastici, attività che mobilitano apprendimenti scolastici, cioè incapsulati nel contesto scolastico e difficilmente trasferibili nel reale, perché non mettono a contatto con la complessità della realtà… reale.
Un’idea più precisa di competenza
Quale potrebbe essere, per contro, un’idea di competenza pedagogicamente intesa, realmente fondata sui meccanismi cognitivi che la determinano? E quali potrebbero essere le pratiche didattiche che contribuiscono a svilupparla?
Nel mio recente saggio Le competenze tra desiderio e realtà ho concettualizzato la competenza come livello avanzato del processo di apprendimento, uno stadio evolutivo dell’apprendimento meccanico e dell’apprendimento significativo.
Rifacendomi all’architettura della cognizione umana di David Jonassen, ho identificato:
- nell’apprendimento meccanico (memorizzazione), lo sviluppo di conoscenza dichiarativa e procedurale;
- in quello significativo (comprensione), la conoscenza strutturale e situazionale;
- nell’apprendimento situato (competenza), la conoscenza concettuale, strategica ed esperienziale.
Con questa concettualizzazione, perseguire mete di apprendimento di competenza presuppone il conseguimento di obiettivi di apprendimento disciplinari, in un continuum dal semplice al complesso, grazie all’attivazione di processi cognitivi sempre più avanzati e all’utilizzo di strategie didattiche differenti e coerenti con il risultato da conseguire.
Per quanto riguarda le strategie di apprendimento per costruire competenze, va tenuto presente che essere competenti e dare prestazioni altrettanto competenti comporta l’utilizzo di conoscenze significative in contesti e per scopi reali, la soluzione di problemi autentici e aperti, il transfer in più contesti, la generazione (e non la riproduzione) di più soluzioni. Sviluppare competenza implica l’immersione cognitiva, emotiva, operativa in esperienze autentiche (reali), esperienze ricche, complesse, policontestuali. Esperienze integrate di apprendimento, di valutazione, di riflessione, di controllo metacognitivo.
Sviluppare “competenza” a scuola implica l’assunzione di uno sguardo lungimirante: la competenza è un apprendimento di lungo periodo, è lo sviluppo di forme di pensiero che attivano prestazioni competenti.
Una didattica delle competenze coerente con questi principi può essere realizzata attraverso “compiti autentici” in veri e propri ambienti di apprendimento (li ho anche definiti “ecosistemi”) all’interno dei quali vivere esperienze reali di apprendimento attraverso cui sviluppare apprendimenti disciplinari significativi, sviluppare le risorse su cui fondare la competenza e allenare al loro utilizzo combinatorio per generare prestazioni competenti.
Il costrutto di “compito autentico” può svilupparsi solo nel contesto appena descritto, quello della concettualizzazione e della pratica dell’apprendimento significativo, perché la competenza è apprendimento significativo reso operativo in specifici contesti e per scopi definiti.
Rendere operativo un compito autentico nelle pratiche ordinarie delle scuole così come sono organizzate non è agevole (principalmente perché questo approccio richiede tempo di lavoro per progettazione, programmazione, coordinamento, monitoraggio e valutazione: tempo “fuori dall’aula” che istituzionalmente non c’è). Ma gli approcci didattici “semplici”, che non spaventano gli insegnanti (questo si sente ripetere come un mantra da chi propone i cosiddetti “compiti di realtà”), sono contro lo spirito e la sostanza della “competenza”: non contribuiscono a promuoverla e mistificano il ruolo, pur limitato, che la scuola può avere nello sviluppo di apprendimenti di livello avanzato, significativi, trasferibili, contestualizzati. Se le competenze rappresentano una sfida, in termini di apprendimento, per gli studenti, dovrebbero essere una sfida anche per gli insegnanti.
Oltre la semplificazione della competenza come innovazione epocale
Ho affermato in precedenza che il costrutto di competenza, salvo rari casi, non è definito con chiarezza e in modo univoco nella pubblicistica italiana. Un esempio è rappresentano dalla pubblicazione della Fondazione Agnelli, Competenze, una mappa per orientarsi (Il Mulino, 2018, a cura di Benadusi e Molina), in cui, da varie prospettive e con il riferimento a numerosi autori, si cerca di definire che cosa sia la competenza e quali siano le sue implicazioni per la scuola. Al lettore vengono offerti molti argomenti favorevoli a che la scuola assuma senza esitazione la prospettiva pedagogica della competenza, salvo poi mettere più volte in evidenza come il costrutto sia poco chiaro, come abbia in differenti autori significati differenti, come sia un approccio nato in ambito aziendale, dove è utile a descrivere e valutare la prestazione lavorativa.
Ma al di là del valore di singoli saggi, il libro della Fondazione Agnelli, più che un contributo utile a una miglior definizione del concetto di competenza e a un suo uso sensato a scuola, pare essere un’operazione di marketing concettuale intorno allo slogan “Competenza è bello”. La competenza qui è diventata la chiave stessa dell’innovazione della scuola e una prospettiva da assumere sempre e comunque; non a caso essa viene proposta in associazione con altre “innovazioni” – il digitale, la flipped classroom.
Ben diverso è l’approccio assunto da Massimo Baldacci nel suo Curricolo e competenze (Mondadori, 2010), un’esplorazione sistematica, articolata e approfondita delle concettualizzazioni pedagogiche della competenza di differente fondazione teorica. Da questo lavoro esce una definizione ricca, argomentata, coesa, completa e soprattutto pedagogicamente fondata di competenza, che aiuta il docente ad attribuirle il giusto ruolo nel curricolo e a cogliere con chiarezza la correlazione tra discipline e competenze. (Trovo invece meno fondata la convinzione dell’autore di poter individuare strategie didattiche per sviluppare e valutare le competenze). Quello di Baldacci può essere ritenuto il più significativo e serio lavoro sulle competenze pubblicato nel nostro Paese e vale perciò la pena illustrarne gli aspetti principali.
Una definizione utile di competenza
Il senso pedagogico delle “competenze”, secondo Baldacci, è riassumibile in una citazione di Dewey: A scuola sapere, saper fare e saper pensare sono agiti separatamente. Mettendo in correlazione queste dimensioni e assumendo la prospettiva delle competenze, il sapere acquista organicità e concretezza, il saper fare diventa intelligente, il pensare si trasforma in governo consapevole dell’attività:
le competenze sono […] obiettivi di tipo logico diverso dagli obiettivi di conoscenza o abilità e, più precisamente, [sono] obiettivi di secondo ordine;
L’inserimento delle competenze nel curricolo determinerebbe […] una riarticolazione della progettazione didattica su due livelli logici […] rendendone più complessa e raffinata l’architettura e andando così oltre la consueta progettazione a un solo livello, vale a dire quella riferita ai soli obiettivi di conoscenza e abilità.
1. Che cos’è la competenza?
La competenza è un costrutto mentale (non è una qualità della prestazione – nella logica comportamentistica, e neppure un “software” cognitivo come vorrebbero i cognitivisti ad orientamento computazionale) che si riflette nella capacità di fornire prestazioni efficaci. La competenza è la risorsa che mobilitiamo per realizzare una certa intenzione in un dato contesto, che pone un compito non banale.
La competenza non è osservabile direttamente, ma è visibile attraverso prestazioni competenti o attraverso indicatori della prestazione; consiste in una serie di prestazioni non prevedibili in modo dettagliato e può essere considerata come la capacità di agire efficacemente rispetto ad un certo campo piuttosto che la capacità di fornire prestazioni efficaci. La competenza è anche l’agire integrato di sapere, saper fare e saper pensare; rappresenta la capacità di usare la conoscenza in modo intelligente.
2. Quali implicazioni ha per il curricolo l’assunzione di obiettivi di apprendimento di competenze?
La competenza si sviluppa come meta di apprendimento di secondo livello rispetto all’apprendimento degli obiettivi disciplinari e in parallelo a questi. È il frutto di “apprendimento collaterale” e si evidenzia nel lungo periodo. Incorporare lo sviluppo anche delle competenze nel curricolo significa assumere intenzionalmente nella progettazione e nella didattica una prospettiva di lungo periodo e adottare strategie di insegnamento e di apprendimento che consentano di sviluppare in parallelo sia apprendimenti disciplinari che di competenza. Le competenze diventano gli esiti complessivi del curricolo.
3. Qual è il senso della formazione delle competenze a scuola?
Curricoli che danno spazio alle competenze favoriscono il passaggio da una formazione scolastica basata su apprendimento riproduttivo e meccanico di conoscenze verbali a un apprendimento attivo, intelligente e trasferibile. Oltre ad apprendere in modo significativo le conoscenze, si persegue sistematicamente e intenzionalmente il loro uso anche in contesti inediti e significativi e si affronta la soluzione di problemi nuovi, aperti e complessi. Assumere obiettivi di sviluppo di competenze significa favorire l’uso consapevole ed efficace della conoscenza in rapporto a contesti significativi non solo per prestazioni riproduttive, ma anche per risolvere problemi aperti e favorendo il passaggio dal verbalismo all’apprendimento attivo, dall’apprendimento meccanico alla comprensione, dalla riproduzione culturale alla soluzione di problemi e dall’apprendimento incapsulato al transfer.
L’assunzione della prospettiva delle competenze a scuola ha, comunque, dei limiti. Per questo, pur di salvarne l’utilizzo a scuola, Baldacci parla di “competenze scolastiche”, che sono diverse dalle “competenze professionali”. Nel paradigma da lui delineato assume un ruolo importante l’apprendimento del contesto. Apprendere il contesto significa usare le conoscenze per gli scopi tipici di quel contesto. A scuola il “contesto” non è mai quello reale ed ogni apprendimento è sempre decontestualizzato: questo rende problematico sviluppare “competenza” a scuola, quando questa è intesa come capacità strutturata in funzione di uno specifico contesto d’uso “reale”. La “competenza scolastica” è pertanto diversa dalla “competenza professionale”, in quanto la prima è la forma di competenza particolare che si sviluppa in situazioni che non sono quelle che caratterizzano le pratiche reali e rimangono incapsulate nel contesto scolastico e sono trasferibili con difficoltà al di fuori di esso.
4. Qual è il senso della valutazione delle competenze a scuola?
La valutazione delle competenze ha natura indiziaria: le osservazioni forniscono “indizi probatori” del processo di sviluppo delle competenze. Si passa dal “paradigma della misurazione” a un “paradigma indiziario”. La valutazione stessa consiste nel passaggio dagli indizi raccolti attraverso l’osservazione al giudizio. Sulla base di indizi si inferiscono ipotesi che per la loro stessa natura sono provvisorie e non possono portare a giudizi cristallizzati. Le informazioni sulla base delle quali si formula il giudizio provengono dall’intero contesto e per questo l’attenzione nell’osservazione è diffusa su tutta l’attività; le fonti degli indizi sono plurime e non tutte prevedibili.
Conclusioni
Ad avviso di chi scrive, il costrutto di competenza, quando viene traslato dal contesto della professione, dove è nato e si è sviluppato, a quello dell’istruzione e della formazione, dove in tempi recenti sta prendendo piede,[iii] è accompagnato da non marginali fraintendimenti, tanto da parte di chi le sostiene (sovrastimandone l’importanza o applicandone una versione debole), quanto da parte di chi ne contrasta la penetrazione (dandone una lettura parziale).
In riferimento ai fraintendimenti più diffusi, mi pare utile evidenziare alcuni punti di ancoraggio di un discorso e di una pratica delle competenze a scuola pedagogicamente e non ideologicamente fondato:
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La competenza incorpora una solida padronanza dei saperi disciplinari e da questi non può prescindere anche se non si tratta solo e soltanto di un “sapere”. La competenza è anche apprendimento significativo delle discipline; è integrazione di sapere, saper fare e saper pensare.
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L’assunzione nel curricolo della prospettiva delle competenze non significa che la progettazione per obiettivi vada sostituita con una progettazione per competenze («si sarebbe decisamente fuori strada», afferma Baldacci, che continua: «espressioni come “insegnare per competenze” o “progettare per competenze” […], che talora sono presentate come sostitutive di corrispondenti espressioni riferite agli obiettivi, devono essere usate con cautela per non creare malintesi o banalizzare l’impianto logico della progettazione didattica».
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La questione della contrapposizione di competenza e conoscenza è concettualmente priva di fondamento e va, comunque, vista oltre la banale affermazione “senza conoscenza non c’è competenza”. Una contrapposizione è realmente presente negli auspici di chi sostiene il superamento dell’organizzazione dei curricoli attorno alle discipline, nonché in pratiche reali come quelle dei “compiti di realtà” di cui si è parlato, nei quali non si trova né competenza né solida conoscenza. In entrambi i casi l’effetto è una frantumazione dell’organicità delle discipline, che danneggia proprio gli effetti di lungo periodo in cui consiste la competenza. È quindi la pratica scolastica e non la natura della competenza a creare la contrapposizione.
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La competenza perseguita a scuola è a forte rischio di incapsulamento nel contesto scolastico e di difficile transfer in situazioni reali per la natura decontestualizzata degli stessi apprendimenti scolastici. Questo dimostra che a scuola si possono solo illusoriamente sviluppare competenze spendibili in contesti reali o di vita. Le discipline scolastiche sono il suo contesto.
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Assumere la competenza a scuola come meta di apprendimento non ha tanto il senso di preparare di più e meglio alla vita futura (se non sviluppando alcuni aspetti o dimensioni della vita futura inserendo a scuola nuovi contenuti), ma di sviluppare una comprensione più profonda ed intrecciata delle conoscenze, di saperle utilizzare in modo intelligente (non meccanico, riproduttivo) e trasferibile tra più contesti;
Concludendo, si può affermare che proporre una didattica “per” competenze in sostituzione di una didattica per conoscenze (che avrebbe generato nozionismo inerte, obsolescente, non utilizzabile nella realtà), significa non aver capito che il problema (che esiste) è dato dalla cattiva didattica delle discipline, dal loro insegnamento meccanico, e non dalle discipline stesse.
[i] Il recente ordinamento dell’istruzione professionale che incardina i curricoli sulle “competenze” e organizza la didattica intorno ad “assi culturali”; le tante linee guida per le scuole del secondo ciclo, le indicazioni nazionali per il primo ciclo, vari sillabi su quelle che erano “discipline”, gli allegati Europass al certificato di completamento dell’istruzione superiore…
[ii] Frabboni, in Baldacci, Curricolo e competenze (Mondadori, 2010).
[iii] Sotto la spinta delle istituzioni politiche e dell’economia: per migliorare le performance del sistema educativo e consentirgli di contribuire allo sviluppo del nostro continente, per renderlo nuovamente prospero e competitivo e per far fronte alle sfide della società della conoscenza e dell’associata economia della conoscenza (cfr. Il Libro Bianco di Jacques Delors, 1993, e quello successivo di Edith Cresson, 1995, cui va aggiunta la Strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione,2000, aggiornata nel 2010 con prospettiva 2020).
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