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diretto da Romano Luperini

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Il ‘68 tra passato e presente

 

 Questo intervento con alcune modifiche è stato tenuto al convegno organizzato dall’ANPI di Carrara il 23 maggio 2018 e pubblicato sul numero speciale dell’Eco Apuano del maggio 2018

Nel cinquantenario dei fatti del ‘68, che soprattutto in Italia andrebbe allargato al biennio studentesco e operaio 1968-69, le rievocazioni sui media assumono due direttrici principali: 1. quella della “modernizzazione dei costumi”, in particolare della liberazione femminile (a cui ad esempio è stato dedicato un ciclo di trasmissioni televisive); 2. quella del presunto intreccio tra movimento del ‘68 e terrorismo “rosso”, con una forzatura storica, che fa perno sul delitto Calabresi e il “teorema” giudiziario che vi è stato costruito sopra. Tutto ciò fa parte di una sorta di esorcismo che vuole allontanare le generazioni più giovani dalla memoria di  quel movimento di massa, l’ultimo che ha posto in discussione la questione del potere, cioè di chi prende le decisioni per il futuro della compagine sociale. Dico l’ultimo perché l’altro grande movimento di massa, quello per la pace degli anni Novanta del secolo scorso, che mobilitò 120 milioni persone in tutto il mondo all’epoca dell’inizio della “guerra dei trent’anni” dei fratelli Bush in Iraq, fu largamente al di sotto del problema che pose. La guerra fu fatta e oggi ne paghiamo ancora le conseguenze planetarie in termini di destabilizzazione del Medio Oriente con la conseguente migrazione biblica. In questo senso il ‘68 chiude un ciclo storico di lotte per l’emancipazione dei lavoratori e dei diseredati dell’intero pianeta, soprattutto i popoli coloniali, cominciato con  la Rivoluzione d’Ottobre, anche se sotto il profilo economico l’onda lunga di quelle lotte prosegue fino a tutti gli anni Ottanta nei cosiddetti golden thirty, cioè i trent’anni dal 1950 al 1980 con una fase alta del ciclo economico avviatosi con la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale e caratterizzato, almeno in Occidente, dalle politiche di welfare, con una riduzione delle disuguaglianze sociali e una distribuzione della ricchezza più favorevole alle classi subalterne. Finisce allora la lotta di classe dal basso per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli oppressi, con tutte le ideologie che hanno teorizzato la fine della lotta di classe e disarmato culturalmente i lavoratori e gli oppressi in generale. Ne comincia un’altra: la lotta di classe dall’alto secondo la teorizzazione di Luciano Giallino, che le classi dominanti del pianeta stanno conducendo ferocemente incuranti dei danni che sta producendo sul destino stesso del pianeta. Con grande spregiudicatezza Warren Buffett, investitore finanziario, esponente della finanziarizzazione del capitalismo, la terza persona  più ricca al mondo ha detto: “C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo” (2012).  Più chiaro di così: la grande borghesia planetaria sta facendo la sua class war e vince in primo luogo disarmando politicamente e ideologicamente la classe operaia e il proletariato. Questi ultimi sembrano essere spariti dalla scena e viene teorizzato che essi non esistono più, salvo riapparire anche in tivù con la classica tuta blu e caschetto giallo, quando si tratta di mettere le mani nella merda ad esempio alla centrale di Fukushima, oppure quando crepano sul lavoro per portare a casa il loro magro salario.

Lo stesso storico inglese di formazione marxista, Eric Hobsbawm, nel suo celebre Il secolo breve, quando deve parlare del ‘68 e degli anni Sessanta mette l’accento sugli aspetti culturali o “sovrastrutturali” (la moda, la musica ecc.) e parla di “rivoluzione culturale”, riprendendo la vecchia espressione di Mao. Ne trae una conclusione amara: “la rivoluzione culturale degli anni ’60 e ’70 può dunque essere intesa come il trionfo dell’individuo sulla società, o piuttosto come la rottura dei fili che nel passato avevano avvinto gli uomini al tessuto sociale” (p. 393), cioè l’esatto opposto di quanto si era prefissa la nostra generazione, cioè quella esordita sulla scena internazionale nel ‘68, e di quello che era il nostro vissuto nei cordoni gomito a gomito delle manifestazioni di allora mentre cercavamo di costruire un futuro più giusto per noi. Del resto la storia non è mai stata pietosa verso i vinti. Hobsbawm elencando le cause del ’68  in Occidente o meglio “la novità della nuova cultura giovanile” (p. 382), ricorda l’emergere di massa dei giovani contro le “gerontocrazie” dominanti, il loro affermarsi come classe di consumatori nelle economie di mercato e il loro “stupefacente internazionalismo” (p. 384). Quest’ultima annotazione sembra contraddire la conclusione “individualistica” precedente. Quanto scrive lo storico inglese coglie sicuramente alcuni aspetti  di quegli anni, anche sotto il profilo della struttura sociale: in particolare la generazione dei baby boomer, che divennero maggiorenni allora e conquistarono in molti paesi occidentali il diritto di voto a 18 anni, si presentavano come un gruppo numericamente e quindi socialmente di grande consistenza. Inoltre veniva cambiando la stessa struttura familiare tradizionale, determinata dall’emancipazione delle donne. Quest’ultima rimane ancor oggi in tutto il mondo la conseguenza sociale più rilevante di quegli anni e ci viene venduta come una “modernizzazione”, quando rappresenta una vera rivoluzione sociale, cioè un cambiamento della struttura sociale tradizionale centrata sulla famiglia. Comunque sfugge anche a uno studioso avveduto come Hobsbawm il fenomeno strutturale alla base di tutto questo, che egli tocca tangenzialmente quando a  proposito dell’affermarsi dei giovani e della loro cultura scrive che “la velocità stupefacente dei mutamenti tecnologici conferiva davvero un vantaggio dei giovani sugli anziani più conservatori e meno adattabili” (p. 384). La nascita della terza rivoluzione industriale, quella della macchine elettroniche, è vista come un elemento del conflitto intergenerazionale: “ciò che i figli potevano imparare dai genitori divenne meno evidente di ciò che i genitori non sapevano e invece i figli conoscevano. Il ruolo delle generazioni veniva rovesciato” (p. 384). Viene trascurato – a mio modesto avviso – l’enorme processo di mutamento della struttura sociale, che l’avvento delle macchine elettroniche avrebbe comportato e che cominciò negli anni Sessanta, ma divento evidente solo negli anni Novanta con la diffusione di massa del personal computer, del videoregistratore e del telefono cellulare. Anche noi del movimento ne avevamo una consapevolezza incerta: lo percepivamo oscuramente. Il famoso discorso sulle macchine di Mario Savio del 1964, da cui prende avvio la rivolta di Berkeley, in cui passionalmente e romanticamente il leader del movimento degli studenti rifiuta la riduzione di se stesso, degli studenti e dei giovani a macchine e dell’università ad azienda, ascoltato oggi, appare profetico. Nelle carte del movimento degli studenti di quegli anni ne ho trovato poche tracce, forse solo un gruppo-progetto degli studenti della SDS di Berlino su “Tecnologia e rivoluzione”, riportato su Nuovo Impegno (n. 14-15, 1969, pp. 88-103), la nostra rivista pisana che ha contribuito a costruire il movimento del 1968. Circa 10 anni dopo nel 1977 la cosiddetta “Commissione sull’intelligenza tecnico-scientifica” della assemblea nazionale dopo la manifestazione per la morte di Giorgiana Masi a Bologna riprende questo filone. Rivendico in questo la nostra tradizione, quella del movimento pisano, che prende le mosse dal concetto di “proletarizzazione degli studenti e degli intellettuali” teorizzato dalle Tesi della Sapienza (1967), che sarà dominante nel decennio successivo nei Comitati d’agitazione dell’ateneo pisano, a cui ho dato il mio personale impegno e che vive ancora oggi – sia pure in maniera stentata – nell’idea del “sindacato studentesco” della Rete degli studenti medi e nell’Unione degli Studenti Universitari.

Riassumo qua i termini della questione, che ho trattato diffusamente altrove e a cui rimando gli interessati (“Nuovo  impegno e la questione degli intellettuali”, in P. Cataldi ed., Per Romano Luperini, Palumbo, Palermo,  2010, pp. 51-70). Il concetto centrale è la “proletarizzazione“ degli intellettuali  e di conseguenza degli studenti come “forza lavoro in via di formazione” in epoca moderna, attraverso la loro massificazione, dovuto allo sviluppo degli apparati dello stato moderno (burocrazia, scuola di massa, servizi ecc.) e alla nascita di una vera e propria industria culturale (giornali, case editrici, mass media ecc.), che assume sotto di sé la forza lavoro intellettuale.  La proletarizzazione, cioè la riduzione progressiva a condizioni di esistenza proletarie, ci appariva chiara nei processi di massificazione che allora vivevamo nell’università finalmente di massa, non solo per concessione della classe dominante, ma anche per le lotte storiche di emancipazione dei lavoratori e soprattutto per un processo materiale, che allora aveva preso avvio. Su questa base materiale voglio attrarre l’attenzione perché non solo ci permette una maggior comprensione di quanto accadde nel ’68, ma anche una miglior comprensione del presente. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta si pongono le basi di quella che chiamiamo la terza rivoluzione industriale, quella delle macchine elettroniche, il cui avvento su scala planetaria sancirà la fine del  secolo breve più del “simbolico” crollo del muro di Berlino ed il passaggio dell’intero pianeta alla nuova fase della modernità in cui viviamo oggi, segnata dalla globalizzazione.  In sintesi: nel 1967 la IBM lancia il primo 360/91, cioè un computer che incrementa le prestazioni del 33% attraverso il concetto delle “pipeline”, cioè l’equivalente della catena di montaggio fordista. Un’unica macchina sussumeva l’intero processo produttivo allora prevalente. Nel 1969 la Texas Instruments e la INTEL introducono un singolo circuito integrato, che combina un processore con una unità di calcolo. Il 15 novembre 1971  “Electronic News” annuncia “l’inizio della rivoluzione elettronica”, la notizia che è possibile racchiudere un intero computer in un chip di dimensioni ridotte a un prezzo stracciato (fino ad allora un calcolatore elettronico a schede perforate occupava una stanza intera). Nel 1969 la Xerox utilizzò il laser per la stampa. Sempre nel 1969 il Dipartimento della difesa USA commissiona ARPANET per le ricerche sulle reti: è il precursore di INTERNET. Tutti gli elementi della rivoluzione informatica erano già presenti e sviluppati. Questo intuiva Mario Savio a Berkeley, molto meno noi in Italia, dove la Olivetti per la miopia della nostra borghesia nazionale lasciava cadere il progetto del primo personale computer del mondo (1964). Il rapporto con le macchine elettroniche modificava radicalmente il ruolo sociale degli intellettuali, degli impiegati, degli insegnanti, degli studenti e di ampie strati dei lavoratori intellettuali e manuali, cioè di gran parte di quello che chiamavamo ceto medio. Qui sta il cuore della proletarizzazione di cui dicemmo allora. Le macchine elettroniche cambiano il rapporto con il mondo reale ed aumentano l’alienazione umana nel senso marxiano del termine. Il frammento sulle macchine di Marx (uscito sui Quaderni rossi nel 1964) e le prime letture dei Grundrisse furono al centro di un significativo dibattito del movimento pisano e contenevano in nuce il processo appena delineato. Il rapporto tra uomo e macchina non cambia nella sua natura, quindi non cambia il senso della modernità, ma la quantità di lavoro vivo che è oggettivato nel capitale fisso, o lavoro morto, rappresentato dalle macchine elettroniche, è sicuramente maggiore di quello delle precedenti macchine elettromeccaniche con in più una ulteriore differenza qualitativa, in quanto esse sfruttano capacità lavorative più “umane”, legate alle attività intellettive superiori, rispetto a quelle “muscolari”, più “animali”, sfruttate in precedenza. Insomma aumenta nel processo produttivo l’alienazione dei lavoratori e si allarga la platea dei lavoratori coinvolti. Cambia anche il rapporto con il reale nel senso che il rapporto con le macchine elettroniche produce una realtà virtuale sempre più estesa, i cui effetti sull’umano sono oggi sotto gli occhi di tutti. Dobbiamo ricordare la lotta contro il quarto gruppo dei fattori di rischio del lavoro, quelli che riguardano la sfera psichica, anticipati quasi profeticamente da Maccaccaro nel 1972 e di fatto abbandonati dal movimento sindacale, sommerso dalla necessità di difendere se stesso dall’attacco neo-liberista e i posti di lavoro dalla disoccupazione prodotta da quell’enorme processo di riorganizzazione politico-economica che viene chiamato “globalizzazione”, che ha nelle macchine elettroniche un suo pilastro fondamentale. Dunque da un punto di vista storico il ’68 chiude un ciclo di lotta di classe dal basso e apre un’epoca di lotta di classe dall’alto.

Si potrebbe dedurre troppo facilmente che questo processo produce un “nuovo proletariato”, quello della terza rivoluzione industriale, che in questo momento sta davanti ai computer e a tutte le macchine elettroniche. Nel movimento del ‘68 la massificazione della scuola e dell’università mise in moto un movimento antagonista rispetto alla riorganizzazione ed innovazione che il grande capitale stava promuovendo allora. Il movimento produsse nuove forme di organizzazione di massa, legate alle assemblee e alla democrazia diretta, fondata sul ritiro della delega. Era una “critica della politica”, che voleva rifondare la politica partendo dal basso , cioè partendo dalle auto-organizzazioni di base. Questa idea riprendeva i fermenti “consiliari” del movimento operaio primo novecentesco ed escludeva la “forma-partito” centralistica tipica della Terza Internazionale, modellata sullo stato centralistico che voleva distruggere, ma alla fine ci rimanemmo impigliati. Avremmo dovuto introdurre un’altra forma di partito “a rete”, modellata sull’attuale modello decentrato di gestione del potere, a cui allora non avevamo neppure gli strumenti per pensare, mentre il capitalismo cominciava a produrre la propria rete elettronica estensibile a tutto il pianeta. Oggi non sembrano neppure esistere “i seppellitori della borghesia” di cui Marx e Engels parlavano nel 1848: il “nuovo proletariato”, di cui dicevo sopra, che potenzialmente avrebbe maggiori capacità tecniche e culturali di quello precedente, è atomizzato e frammentato: ognuno è solo davanti al proprio computer, questo ha rivoluzionato la capacità concentrazionaria della fabbrica novecentesca. Tale processo è ulteriormente accentuato dalle forme di lavoro precario, che conosciamo, e dalle ideologie individualistiche che la grande borghesia ha prodotto negli ultimi decenni e che ci spiegano l’enfasi mediatica data alla modernizzazione come tratto saliente del ‘68. In una sola parola: questo nuovo proletariato è poco organizzabile ed è più difficile che si attivino i percorsi necessari al costituirsi di una coscienza di classe. Ciò non vuol dire che essi non siano possibili, ma perché questo avvenga è necessario che un nuovo movimento di massa si produca e sia capace di recuperare la parte migliore del movimento del ’68. Questo spiega come mai la classe dominante e i pennivendoli ad essa legati si accaniscano a cancellare anche la memoria di quanto avvenne allora o comunque ad intorbidare le acque perché non avvenga la necessaria saldatura tra le giovani generazioni di oggi e quelle di allora. La misura di questo accanimento così duraturo è la misura diretta della fondatezza delle nostre ragioni.

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