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diretto da Romano Luperini

Portrait of Giovanni Verga

Verga raccontato ai nativi verghiani

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

A distanza di poco più di un anno dal congresso “Verga e noi. La critica, il canone, le nuove interpretazioni” (Siena, 16-17 marzo 2016; coordinamento scientifico: R. Castellana, P. Pellini), Giovanni Verga è stato nuovamente al centro dell’attenzione degli studiosi nel corso del congresso significativamente intitolato “Verga e gli altri. La biblioteca, i presupposti, la ricezione” (Catania, 27-29 settembre 2017; coordinamento scientifico: A. Manganaro, F. Rappazzo). A far da cerniera tra i due eventi, bastino le parole con cui Romano Luperini ha siglato i lavori del congresso senese:

(Verga) Era, semplicemente, diverso: in quanto artista, si riservava infatti uno spazio “altro”, che gli permetteva di non identificarsi né nei personaggi del popolo, né nei lettori borghesi, né nella nobiltà, ma di assumerne criticamente (è lo straniamento), di volta in volta, i diversi orizzonti di senso. (…) Tutti i suoi (corsivo mio) personaggi si muovono, (…) in una spazio diverso rispetto a quello consueto sancito dall’appartenenza a una classe o a un gruppo sociale, e al linguaggio e alla ideologia che li caratterizza. Sono degli sradicati in cerca di realizzazione, sanno parlare varie lingue.[1]

Dunque anche il congresso catanese andava nella direzione di un ampliamento dello spazio interpretativo, volto a recuperare i diversi orizzonti di senso e le varie lingue in cui questo “terzo spazio” si definisce e si articola; ed è importante che in questa operazione l’Ateneo di Catania e il Dipartimento di Scienze umanistiche abbiano voluto come partner non solo la Fondazione Verga e gli studiosi internazionali, ma la sezione didattica dell’ADI (Associazione degli italianisti). Romano Luperini, che ha seguito l’intero convegno e al quale sono state affidate le conclusioni, ha esplicitamente dichiarato che il canone in larga parte lo fa la scuola, la tradizione scolastica. Ai docenti, alle docenti dell’ADI-Sd catanese è stato dunque chiesto di dare agli strumenti della ricerca la curvatura della ricerca-azione e di formulare percorsi didattici fra i testi verghiani muovendo non dalle domande del filologo o dalle richieste pressanti delle Linee guida e delle Indicazioni ministeriali, ma dalle domande di senso degli studenti. L’esito più significativo di questo lavoro lo si registra nell’impegno – comune a tutti i docenti intervenuti – di superare la dimensione strumentale e autoreferenziale dell’unità didattica, per costruire percorsi che fossero anche ipotesi interpretative dell’opera di Verga, destinati cioè non unicamente a veicolare conoscenze canoniche sullo scrittore o ad alimentare l’orgoglio regionalistico (pernicioso, oltre che tronfio e demodè) degli studenti, ma a tracciare una prospettiva di indagine dell’opera verghiana entro la quale collocare le domande esistenziali degli studenti, gli interrogativi sul senso della vita, delle relazioni sociali, del rapporto complesso con l’ambiente e con la storia individuale e collettiva.

Il panel non ha costituito una sessione parallela, ma un segmento vitale del congresso, inserito organicamente al suo interno come momento integrato e, in qualche modo, di snodo. Programmatico suona dunque il titolo: Vita di classi: raccontare Verga ai nativi verghiani; titolo che allarga significativamente lo spazio di interpretazione alle classi e alle loro domande di senso, se il raccontare è – come crediamo che sia – lo strumento di indagine e rappresentazione del sé e dell’altro da sé, in un rapporto dinamico di scambio incessante.

E’ – questo spazio – l’unico nel quale realmente si realizza una competenza, e una competenza di cittadinanza in particolare; e questo con buona pace dei teorici ortodossi della progettazione e delle famigerate “griglie” di indicatori e descrittori di prova. Perché se è vero – com’è vero – che la didattica della letteratura deve essere sottratta a quel tanto di impressionistico e di improvvisato che – nei decenni – ne ha decretato l’arbitrarietà e la inaffidabilità sotto il profilo della prassi metodologica, è vero pure che imbrigliarla entro la prescrittività di schemi inflessibili ne limita le infinite risorse epistemologiche e le sottrae la sua peculiarità: la didattica della letteratura è grimaldello per scardinare steccati disciplinari, scrupoli accademici, proiezioni rigorose e univoche nel frammento, per (ri)scoprire la dimensione flessibile e fluida della narrazione.

I destinatari di questa narrazione (i “nativi verghiani”) hanno avuto in realtà un profilo metonimico: se per gli studenti nati nei luoghi verghiani la lettura delle opere di Verga è stata lungamente viziata dalla lente deformante di un regionalismo ottusamente compiaciuto, è anche vero che questo regionalismo non ha giovato alla ricezione dello scrittore da parte degli studenti che vivono oltre lo Stretto e che all’isola lo hanno confinato; né miglior sorte ha avuto l’approccio “canonico” alla lettura obbligata di Verga in quanto “verista”, in quanto inventore del “canone dell’impersonalità”, dell’indiretto libero – tutti elementi non solo autentici, ma di importanza capitale e che tuttavia, scissi da una riflessione sulla novità spiazzante dell’opera verghiana nel suo complesso, risultano agli studenti, sotto qualsiasi cielo, del tutto privi di appeal. Ognuno degli interventi dei docenti è stato dunque destinato non a proporre un escamotage per rendere piacevole agli studenti un autore la cui cifra caratterizzante resta comunque quella di una “melanconia soffocante” (per usare le parole dello stesso Verga),[2] ma uno strumento prezioso di indagine individuale e collettiva, da rintracciarsi proprio fra le pieghe dell’opera verghiana. Una sorta di “antidoto alla Malavoglia”, che ognuno ha distillato combinando le sollecitazioni diverse provenienti dalla propria formazione d’origine (qualcuno veniva dalla ricerca universitaria, qualcuno dall’archeologia, qualcuno da esperienze di spessore nel campo della ricerca-azione), la lettura attenta e filologicamente fondata dei testi (mai piegati a una funzione diversa da quella letteraria), gli studi di filologia e di didattica, l’esperienza viva della classe, “comunità ermeneutica”.

In questa chiave vanno lette tutte le proposte didattiche emerse e che qui purtroppo possiamo solo scorrere rapidamente, nell’ordine in cui sono state affrontate: 1) rifare con gli studenti il percorso attraverso le inquiete strutture verghiane: in quel percorso che conduce Verga dai romanzi della giovinezza, fino alle novelle, ai drammi, ai romanzi della maturità artistica, leggiamo il percorso di canalizzazione di un io autobiografico, che impara a contenersi, fino a trovare la strada di un io collettivo; e lì rintracciamo la storia di ogni studente liceale, e probabilmente di ognuno di noi (L. Mirone, Antidoto alla Malavoglia per forzati ai lavori verghiani); 2) saggiare, nel tessuto vivo de I Malavoglia, la presenza di archetipi tragici: la ricognizione di una dimensione autenticamente tragica, tanto nelle strutture formali quanto nei nuclei ideologici del capolavoro verghiano, condotta attraverso una lettura attenta del romanzo, diventa domanda sugli archetipi dell’immaginario collettivo e sul valore irrinunciabile dell’identità della persona (S. Valastro, Archetipi letterari e aspirazione alla tragedia nei Malavoglia); 3) costruire un digital story telling a partire da Rosso Malpelo: la moderna tecnica digitale, correttamente riposizionata nel suo ruolo di strumento didattico e non di ammiccante diversivo, consente un’operazione di attualizzazione formale e strutturale che lascia intatto tuttavia il contenuto del testo verghiano, senza schiacciarlo sul presente, ma favorendo – in un lavoro di spola tra passato e presente libero da verità precostituite – il “conflitto delle interpretazioni” anche in chiave generazionale (A. Bertino, La scuola-“novella”: Rosso Malpelo in digital storytelling); 4) leggere le novelle verghiane in prospettiva rovesciata: per il tramite di attività laboratoriali su testi tratti da Vita dei campi (Rosso Malpelo, La lupa), Novelle rusticane (L’asino di san Giuseppe), Vagabondaggio (Il bell’Armando), si “coglie in fallo” lo scrittore colto, borghese, che, fingendosi narratore degradato, assume, senza realmente condividerla, la morale corrente del coro che ha inteso rappresentare, e di questo autore si  diventa complici sino ad acquisirne lo sguardo scevro da pregiudizi (M. R. Giansanti, M.T. Rizzo, La modernità di Verga nella rappresentazione dei suoi personaggi); 5) indagare le strutture delle novelle verghiane come modalità rappresentativa e conoscitiva del mondo: il percorso, centrato sulla sintassi narrativa, sulla relazione tra le scelte sintattiche e la visione ideologica dell’autore, sul ruolo attivo del lettore di novelle tratte da Vita dei campi (La lupa, L’amante di Gramigna), Novelle rusticane (Il mistero), Drammi intimi (La chiave d’oro), induce al superamento del tecnicismo e di modelli conoscitivi statici e prescrittivi, per affermare la necessità di un metodo scrupoloso e onesto d’analisi del reale (e non solo del testo letterario) disposto al confronto e pronto a cogliere la corrispondenza tra le ragioni interne degli accadimenti (non solo testuali) e le forme che veicolano e rappresentano tali ragioni (M. Leonardi, E. Maugeri, Riappropriarsi della novella: strumenti verghiani).

In questa prospettiva epistemologica, allora, anche le famigerate “griglie” si sono riempite di senso, di contenuti reali, diventando strumenti seri e affidabili di progettazione e verifica, capaci di calare il “didattichese” nella prassi didattica reale (D. Italia, R. Maugeri, L’immaginario verghiano a contatto con la realtà. Una proposta per la scuola delle competenze). E si è accolto con simpatia l’itinerario digitale attraverso Casa Verga, realizzato come “app” da una terza liceo classico del Liceo “N. Spedalieri” di Catania, desiderosa di dare senso e corpo alle indicazioni non sempre trasparenti delle attività della cosiddetta “Alternanza scuola-lavoro” (Casa Verga come risorsa per valorizzare il patrimonio culturale locale).

Se il congresso senese si proponeva di affrontare le questioni legate all’interpretazione e all’attualizzazione dell’opera verghiana, rimaste spesso all’ombra degli studi filologici e documentari, le giornate catanesi hanno in qualche modo raccolto queste sollecitazioni in direzione di un ampliamento della prospettiva d’indagine che pone Verga come punto di snodo: per un verso erede della tradizione del romanzo Ottocentesco, così come documentato dalla Biblioteca dello scrittore e dalle sue relazioni con l’ambiente intellettuale del suo tempo; per un altro verso, punto di riferimento per la narrativa moderna e contemporanea, anche all’estero e fino ai giorni nostri. E’ un’operazione che contribuisce definitivamente a sdoganarlo dallo stereotipo del narratore “regionale” per collocarlo in un canone europeo e in spazi di interpretazione non solo geograficamente, ma soprattutto tematicamente e contenutisticamente più ampi: per fare qualche esempio, è lo “spazio sociale” di cui ha parlato Riccardo Castellana (Verga tra i Cabili. Rileggere I Malavoglia con gli occhiali di Pierre Bourdieu); è lo spazio della storia, duplice, secondo i personaggi e secondo il loro autore, come lo ha tracciato Andrea Manganaro (Verga e il 1848); è lo spazio della tradizione orale mediterranea, recuperato dalla appassionante lettura interculturale di Nadia Amine (Giovanni Verga e il Marocco: un incontro tramite proverbi, modi di dire, usi e costumi); è lo spazio della saga familiare, “metonimia della società” nella felice intuizione di Alessio Baldini (I Malavoglia e la tradizione della saga familiare). E’ uno spazio polisemico – insomma – restituito dall’incrociarsi di punti d’osservazione vicinissimi e lontanissimi, quelli degli studiosi locali, che dispongono degli autografi, della biblioteca, dei luoghi appartenuti a Verga, quelli degli studiosi internazionali che lo hanno recepito forse più spregiudicatamente.

Crediamo che alla ricognizione di questa polisemia la scuola abbia saputo dare un contributo, restituendosi ai suoi doveri di interlocutore nella costruzione di senso, e sottraendosi al ruolo passivo di banditore a cui troppe volte è stata e si è confinata.

[1] R. Luperini, Il “terzo spazio” dei vinti in Verga e noiLa critica, il canone, le nuove interpretazioni (Siena, 16-17 marzo 2016), a cura di R. Castellana, A. Manganaro, P. Pellini, Annali della Fondazione Verga, n.9, Catania 2016. pp.7-13.

[2] Cfr. G.Verga, Lettera a Luigi Capuana del 25 febbraio 1881, in Lettere a Luigi Capuana, a cura di G.Raya, Le Monnier, Firenze 1975, pp.161-164.

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