È un libro singolarmente spiazzante l’ultimo di Diego De Silva.
Alle prime pagine viene da pensare: tutto quello che non vorremmo mai sentire né dagli altri né tantomeno dalla nostra bocca. Ha dunque il primo effetto di ammutolire il lettore per il terrore di dire banalità. Chi poi è già restio a esprimersi per un eccesso di autoconsapevolezza (maestro ne è stato Italo Svevo, prototipo dell’intellettuale moderno) un po’ si compiace del fatto che adesso anche gli atri impareranno a tacere (!) Ma naturalmente non tutti i lettori sono uguali e non è affatto detto che un libro così, che si presenta in medias res, senza cornice, premessa, prefazione, note, privo totalmente di un apparato paratestuale, se non il laconico e sibillino titolo, sia recepito da tutti allo stesso modo; è di facile lettura, troppo facile e dunque difficile da interpretare.
Ma poi suscita l’interrogativo: che operazione culturale è mai questa? Certo non è un romanzo né un racconto, ma nemmeno narrativa; si potrebbe paragonare a una raccolta di “prose” – per contrasto; dove lì c’era il pieno di senso qui c’è il vuoto. E perché mai lo scrittore si fa portavoce di tale vuoto di senso? È una denuncia. Mirando in basso, provoca.
L’immagine di copertina mi ha fatto venire in mente il libro inglese per bambini, Tiddler con tutte le voci della classe che ripetono come una cantilena le sue gesta.
Per il procedimento di repertoriare senza metterci la propria voce, penso alle Favole raccolte da Calvino, cultura orale, folklorica e stratificata nel tempo; ma qui lo scrittore è portavoce di qualcosa di cui non andare orgogliosi e lo fa con la scrittura magra, senza alcuna spiegazione, per indurre il lettore a recuperare il senso complessivo dell’operazione. Inoltre non è una ripresa e attualizzazione del passato, ma uno spaccato del presente. È un repertorio di luoghi comuni, ma non quelli della topica classica cristallizata e studiata da Curtius; il suo contrario, le banalità del presente, di una voce unica collettiva senza identità. Distanza dai proverbi e appunto dai topoi.
La scrittura che mi è venuta in mente è quella del Diario borghese di Vitaliano Brancati e Leo Longanesi; ma lì erano di volta in volta lemmi con definizioni, (non definizioni), di un’indistinta voce borghese lontana dall’autore. Nel caso di De Silva invece sentiamo che seppure il narratore sia extradiegetico si allontana e si avvcina al testo, gioca a nascondino, appena lo abbiamo stanato si nasconde altrove. Questa è una piccola enciclopedia di sottocultura orale, o meglio del parlato in cui si possono includere i brevi testi via sms, wapp, email, tweet etc etc.
Fa pensare a una rassegna fotografica o un documentario privo di montaggio. Come Blob. Potrebbe essere un copione incompleto per una rappresentazione teatrale dell’avvocato Malinconico – protagonista di vari romanzi di De Silva – inetto autoironico del romanzo del nuovo millennio. Ma Supercficie non è un romanzo, non c’è un protagonista, i personaggi sono tutti invisibili; di loro è presente solo la voce e possiamo provare a dargli un’identità, un genere, un’età, una provenienza, un mestiere, uno stile di vita, ma il gioco non è affatto facile.
C’è tra le righe un abbondante indice dei nomi in ordine sparso. Le coordinate culturali sono chiare, i giudizi su intellettuali e scrittori, taglienti e inequivocabili, in positivo o negativo, non lasciano spazio a dubbi.
Le frasi sono incatenate in una forma che seppure priva di cornice e struttura ha qualcosa di poetico: una forma aperta perché appunto priva di contentitore ma chiusa perché ha alcune regole interne reiterate. È in forma dialogica sincopata; di volta in volta due voci (sempre diverse? Di certo con un’identità non dichiarata) che parlano di cose molto diverse e non comunicano. Dunque c’è anche questa denuncia: l’assenza di comunicazione. Una pacifica e acuta provocazione culturale. Un libro acuto e inafferrabile che potrebbe essere fonte per i linguisti che si occupano del parlato contemporaneo, ma in realtà è già un’opera interpretativa, sulla base della selezione – seppure proprio l’interpretazione resta un punto interrogativo. Un saggio umoristico? Spaccato a volo d’uccello sulla società (superficiale): la borghesia del 2000?
A tratti comicità estrema. Da leggere a voce alta. Concatenazione. Voci che si susseguono. Tono interlocutorio. Seconda persona, un “tu” generico, parla a tutti i lettori, parla a noi, parla di oggi, parla di tutto, come se dicesse una verità, argomenti diversi come se fossero del tutto casuali.
Il titolo si può spiegare con sinonimi (Superficiel, esteriorità) e contrari (interiorità, profondità).
Chi : La gente; un io (sempre diverso) che si rivolge a un tu, in dialoghi sempre spezzati, ovvero senza risposta.
Come: Oralità, tono colloquiale, familiare, ironico, autoironico.
Cosa: La società (tema oltre che voce parlante).
Quando: Oggi.
Dove: Italia e Europa vista dall’Italia.
Dopo Certi Bambini e Non avevo capito niente, con Superficie ancora un terzo genere, il più sorpendente. A fine lettura il libro resta un rebus. Merito all’autore.
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