Trovare la propria voce. Intervista a Umberto Fiori
A cura di Daniele Lo Vetere
Il poeta Umberto Fiori ha incontrato alcuni studenti e studentesse di un liceo senese, per un dialogo sulla sua poesia. Pubblichiamo l’intervista che gli è stata fatta in quell’occasione dal nostro collaboratore Daniele Lo Vetere.
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Spiegando agli studenti il tuo modo di intendere e di fare poesia, hai distinto poeti e prosatori che usano la lingua come uno strumento, sfruttando tutta l’estensione tonale della lingua italiana, e poeti e prosatori che cercano la “propria voce” dentro la lingua. Puoi spiegarlo anche ai nostri lettori? Puoi farci qualche nome di scrittori appartenenti all’una e all’altra categoria? E tu come sei arrivato, con la tua ricerca artistica, a collocarti nella seconda? Mi hai detto di amare molto Gadda, che sta nel primo gruppo. Che rapporti si stabiliscono tra la prima specie di scrittori e la seconda o, quanto meno, che rapporti stabilisci tu con la prima specie?
Detto molto in breve e schematicamente, mi pare che ci siano due possibili atteggiamenti di un autore nei confronti della lingua. Il primo parte da un’idea di dominio del “materiale” verbale, di un suo uso accorto, finalizzato a un certo risultato estetico, letterario. Nel secondo le parole sono sentite come un destino, un limite dato, come una voce, appunto. La voce non è uno strumento che abbiamo a disposizione: noi siamo una voce, ognuno questa voce, e non un’altra. Cantare (scrivere) significa – in questa prospettiva – accettare di avere (di essere) la nostra voce, essere legati al nostro verso, come un animale al suo.
Tra i poeti (scrittori) che dispongono della lingua italiana come uno strumento, una grande tastiera, metterei tra gli altri D’Annunzio, e appunto Gadda. Ma anche – per stare più vicini a noi – Zanzotto. Tra i poeti “di voce” penso a Penna, in parte a Sbarbaro (lo Sbarbaro di Pianissimo). Alla poesia “di voce” sono arrivato dopo un lungo esercizio di scrittura, che attraverso un tentativo di “dominio” del linguaggio mi aveva portato a produrre dei testi che non mi convincevano: li sentivo come degli oggetti estetici, chiusi, cartacei, senza una vera tensione vitale. Cercavo invece una dimensione etica della poesia, un discorso che si espone nella sua nudità, nella sua inermità, senza più “bravure” letterarie (la chiamavo la mia “frase normale”). Tra la scrittura “di strumento” e la scrittura “di voce” non credo si possa stabilire un meglio e un peggio. Ammiro molto gli scrittori “fabbri”, che a volte (come nel caso di Gadda) riescono a trasmetterti una tensione autentica, viscerale, scottante; ma la mia esperienza mi ha spinto in un’altra direzione.
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Una caratteristica della tua poesia che ha colpito molto gli studenti è il suo effetto di immediatezza, garantito sia dalla preferenza per un lessico semplice, comunicativo, “trito” (alla Saba) e per oggetti quotidiani – case, passanti, muri, svincoli autostradali, terrazze, balconi, autobus, … –, sia dalla concretezza delle situazioni, che ha dato loro l’impressione di una registrazione in presa diretta della vita. Buona parte dei tuoi testi sviluppa una piccola scena narrativa, è ancorata ad esperienze visibili, che, nelle prime quattro raccolte, sono quasi tutte esperienze cittadine, anzi metropolitane (milanesi, anche se la città potrebbe essere una qualsiasi altra grande città). Quanto è importante questa naturalezza e concretezza per un poeta?
Posso dire quanto è importante per me. A un certo punto della mia vita, dopo un periodo molto difficile, mi è sembrato di rivedere le cose più comuni in una luce nuova. Quello che si chiama l’ovvio mi veniva incontro (secondo la sua etimologia) come per la prima volta. Le case, gli scavi, gli alberi, i cani, i passanti, mi parevano figure archetipe, realissime e arcane, che mi interrogavano. Le mie poesie le sento un po’ come formelle di una cattedrale, scene “esemplari”, ambientate però nel quotidiano più familiare.
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Mi pare che le tue raccolte degli anni Duemila (La bella vista e Voi) segnino un mutamento rispetto alla scrittura degli anni Ottanta-Novanta. Alcuni elementi sono macroscopici: la preferenza accordata alla forma del poemetto sulla misura prima di allora più tipica del componimento breve; la forma dialogica (manifesta ne La bella vista; celata in Voi, che è un monologo-invettiva contro questa seconda persona plurale che non parla, ma davanti alle cui accuse o davanti alla cui semplice presenza ossessiva l’io deve giustificarsi); il paesaggio non più esclusivamente metropolitano, ma naturale (ligure) de La bella vista. Proprio su questo vorrei chiederti: a me sembra che La bella vista, questa immagine privata e insieme archetipica (se si può definirla solo “un’immagine”: è un soggetto e un oggetto insieme, è sfuggente, …), rappresenti tutto ciò che ha nutrito la tua poesia, ciò di cui eri alla ricerca. È la “bella vista” che trovavi nel viso della signora o del vigile che si voltano per le strade di Milano (Per strada, in Chiarimenti), è sempre lei che si offriva, ogni tanto, dai quei muri delle care case che sono una presenza ricorrente dei tuoi versi. Sei d’accordo con questa lettura?
Sono d’accordo. La Bella vista è un po’ la madre delle mie scene urbane, dei muri, degli scavi. Sono riuscito a scriverne molto tardi: il tema era scivoloso, comportava molti rischi. Poi però ho sentito che mi chiamava, che dovevo parlarne. La forma del poemetto (ne La bella vista come in Voi) non è nata da un programma: dopo aver cominciato a scrivere tre, quattro poesie, mi sono reso conto che i due argomenti richiedevano un respiro più ampio, e mi sono lasciato guidare da loro.
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Vorrei citare per intero un testo, che mi sembra riassumere bene un altro tuo tema tipico, quello della comunicazione, o meglio della difficoltà di comunicazione, tra gli esseri umani: Quando due che discutono / sono arrivati al cuore della questione / e uno alza gli occhi al cielo, scuote le braccia, / l’altro si guarda intorno / a mani giunte, come cercando aiuto, / e gridano fatti, e prove, / cambiano tono, si chiamano per nome, / – ma non c’è niente, nessuno che possa più / dare ragione a nessuno – / proprio allora, lontani come sono, / rivedono il miracolo: / che sia una la stanza, / che sia lo stesso / il tavolo dove battono (Altra discussione, in Esempi). In questa poesia si rappresenta sia l’irresolubile problema in cui ci caccia il linguaggio, che serve a metterci in comunicazione e che è contemporaneamente la fonte di tutti gli equivoci e le incomprensioni, sia il piccolo miracolo della comunione, il realizzare o forse solo il percepire che sia una la stanza, / che sia lo stesso / il tavolo dove battono. Una raccolta come Chiarimenti è ampiamente dedicata a questo tema. Perché è così importante per te?
Mi sono formato in un periodo in cui il confronto dialettico era centrale anche nella vita di ogni giorno: non si faceva altro che discutere (di politica, ma non solo), con grande fervore e con una passione che oggi sembra spropositata. Quando la fase politica è declinata, negli anni ’80, le discussioni hanno assunto un altro carattere, ma non sono finite (almeno nella mia vita). Ho sempre vissuto con grande emozione questi confronti verbali; riflettevo sul potere enorme che noi (noi occidentali) assegniamo alle parole. La dialettica, l’idea che la verità esca da una lotta tra discorsi contrapposti, è alla base della nostra civiltà. Confutare l’altro, ottenere ragione, sono idee nate in ambito filosofico, che però permeano anche la nostra vita quotidiana, seppure in forme degradate. Io volevo interrogarmi su questa “malattia” che mi tormentava (e che mi pareva tormentare molti altri), metterla in scena per capirla meglio.
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Quali autori o libri di poesia consiglieresti a un adolescente?
Direi innanzitutto Dante, che si studia a scuola ma che si scopre veramente solo a una lettura “personale”. Ma anche Leopardi, per il quale vale lo stesso discorso. E poi Baudelaire, Eliot, Montale, Sbarbaro, Penna, Caproni, Sereni… Ma i consigli valgono fino a un certo punto, a volte anzi possono essere controproducenti: la poesia va incontrata liberamente, senza costrizioni, senza obblighi “culturali”. Ognuno “scopre” i suoi autori in tempi e in modi diversi. Si tratta di fornire ai ragazzi una molteplicità di occasioni: saranno loro a sentire dove c’è qualcosa che parla.
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