Che ansia gli articoli sull’ansia nella scuola italiana
Che pensare, che provare davanti a un titolo come «Scuola, per l’Ocse quella italiana è la più ansiogena del mondo. E gli studenti sono i meno soddisfatti della loro esistenza»? Io direi, in un bel gioco di specchi e di rilanci infiniti: ansia, ansia, ansia!!!
Ma i titoli, si sa, spesso non sono d’autore e spesso mettono un carico da novanta (d’ansia) sul più ragionativo e piano tono del pezzo per il quale fungono da richiamo. In effetti l’articolo di Alex Corlazzoli, uscito il 19 aprile scorso su Il Fatto quotidiano, è tutto pieno di dati OCSE-PISA e di sobrie deduzioni da quei dati. Ma, per la verità, a parte per una maggior coloritura psicodrammatica (gli studenti italiani sono “i meno soddisfatti della loro esistenza”), il titolo è abbastanza fedele al contenuto e allo spirito dell’articolo.
Di articoli così, son pieni i giornali
Ricetta per un articolo medio, da quotidiano nazionale, sulla scuola.
Si prenda una bella “ricerca statistica”, fresca di giornata (perché la matematica, si sa, non è un’opinione).
Ci si limiti (apparentemente) a “leggere” i dati, ovvero a illustrare quello che essi, indubitabilmente, sembrano dire, senza “interpretarli”: perché non si tratta della mia o della tua opinione, di cui è pieno il mondo. Qui ci son sodi fatti.
Il pezzo è pronto e può essere liberato nel mondo, a generare ansia. Di articoli così, son pieni i giornali.
La differenza tra dimostrazione e argomentazione
Un articolo di giornale, dati o non dati, è un’argomentazione e non una dimostrazione. La distinzione tra di esse è abbastanza intuitiva, ma vale la pensa spendere due parole.
Un numero, dentro un’equazione o una formula, è univoco e l’uso che se ne fa nella dimostrazione è prescritto da una procedura (in effetti è persino irrilevante chi conduca la dimostrazione); inoltre, il risultato ottenuto non è interpretabile. Al contrario, un numero dentro un’argomentazione non è oggettivo: è interpretabile eccome, sia perché produce un effetto (cognitivo, emotivo) nel lettore, sia perché intendersi su quale sia, in effetti, questo significato, non è cosa facile.
Questo accade perché una dimostrazione avviene in uno spazio vuoto e astratto, quello degli enti matematici, mentre un’argomentazione abita quel mondo confuso che è il mondo degli uomini. Un’argomentazione, perciò, è incerta e interpretabile: ha uno scopo immediato e magari altri di lungo periodo; ha un certo destinatario e non un altro; sta dentro un contesto, un ambiente, che ne condiziona la ricezione; viene collegato a delle premesse implicite, ad altre argomentazioni precedenti e successive; infine e soprattutto, è, da un punto di vista pragmatico, una presa di posizione nel e sul mondo, equivalente a una vera e propria azione, con effetti concreti.
E se “ansia” non significasse “ansia”?
A leggere le centinaia e centinaia di articoli medi che oggi popolano i giornali, i numeri, le cifre, i dati, invece sarebbero autoevidenti.
Per Corlazzoli «i ragazzi italiani hanno riportato livelli di ansia scolastica più elevati della media Ocse». Da cosa lo si deduce? Dalle risposte al questionario che accompagna le prove Invalsi, il quale, come sappiamo, contiene domande sulla percezione della scuola, dello studio, della propria autoefficacia, …
Nella terza media della scuola Pascoli di Busto Arsizio, un po’ scalcinata alle pareti e con l’aria un po’ pesante per la presenza di una ventina di adolescenti tutti fiato e ormoni, lo studente Marco, con il suo corpo vivo e pulsante e traspirante, mette un paio di crocette su un questionario. Il questionario passa nelle mani del docente che lo raccoglie, poi dell’esperto Invalsi che ne fa la tabulazione e ne ricava una descrizione della scuola italiana a suon di numeri e tabelle; questa descrizione viene confrontata a quelle delle scuole del resto del mondo, il tutto finisce nelle mani di un giornalista (o docente-giornalista) e il referto è: “Marco è ansioso”. Le cose stanno davvero così?
Delle risposte di Marco – come: “mi sentivo ansioso iniziando la prova” – c’è solo un’interpretazione che si limita a “leggere il dato”, senza aggiungere un senso argomentativo, ed è questa: sappiamo che Marco ha dichiarato di sentirsi ansioso prima della prova. Stop. Non una virgola di più. A rigore, quindi, l’unica lettura “obiettiva” è una tautologia. Da lì in su inizia il campo dell’interpretazione. Entriamoci.
Che significato avrà quanto ha dichiarato Marco? Io non saprei dirlo con la stessa sicumera che sembrano avere Corlazzoli e i report Invalsi/Ocse-Pisa. Marco è una persona sempre ansiosa? è ansioso in quel momento? ha la percezione di essere ansioso e lo è effettivamente? ha la percezione di essere ansioso e forse sovrastima la sua ansia? dice di essere ansioso perché gliel’hanno detto? dice di essere ansioso perché la sua cultura di appartenenza è particolarmente sensibile al tema dell’ansia? Insomma: che cosa significa ansia per Marco? Dovremmo provare a chiederglielo, in un colloquio pieno di tatto, anzi, ancor meglio, mescolando osservazione dei suoi comportamenti e colloqui con lui, protratti per un certo tempo: ciò che potrebbero fare i suoi genitori, i suoi insegnanti, il suo psicologo.
Ma noi abbiamo fretta di trasformare Marco in una risposta chiusa e univoca dentro un questionario: urge (che ansia) ridurre il suo stato d’animo a quantità misurabile, altrimenti non potremo fare confronti statistici a livello locale, nazionale, planetario, universale, per poi riplanare come avvoltoi sulla piccola realtà scrostata e sudata dalla quale ci siamo mossi, a umiliarla.
Se anche gli stati d’animo vanno misurati come le competenze
Il concetto di competenza è diventato un feticcio, più invocato ed evocato, che concretamente identificato. Infatti – e non sono io a dirlo ma chi si occupa di queste faccende – ritagliare dal flusso del reale una “competenza” e nominarla con precisione non è affatto facile. Figurarsi poi quando si presume di misurarla (e valutarla).
Una risposta sbagliata nel test Invalsi di comprensione del testo, poniamo una domanda fondata su un’inferenza semantica, mi dice che quel ragazzo non ha saputo fare quell‘inferenza su quel testo. Perché non abbia saputo farla, è solo ipotizzabile. Forse quel testo, e solo quello, l’ha annoiato talmente che anche la sua capacità di comprensione si è ingrigita (è esperienza comune di noi tutti); forse non ha consuetudine con quel tipo di testo perché ne legge di altro genere, magari a quintalate; forse ha preso solo una cantonata perché ha affrontato la prova con atteggiamento di sufficienza visto che “tanto non fa media”, o magari la cantonata l’ha presa perché era teso; forse non è mai stato addestrato a quel tipo di prova; forse ha problemi reali di comprensione del testo, ecc…
Una volta ascesi, per successive astrazioni, al livello del report Invalsi/Ocse-Pisa – per non parlare poi della stazione finale e di maggior impatto sull’opinione pubblica dell’articolo di giornale medio –, questa complessità di possibili significati si sarà completamente persa. Resteranno solo dati percentuali da cui trarre giudizi sintetici sui cui scandalizzarsi: gli studenti italiani non sanno l’italiano! (o, meglio: “sono sotto la media europea”…).
Se questo è quanto accade per una cosa in qualche modo ancora “concreta” come un’inferenza su un testo, abbiamo idea di quale sia il livello di violenza logica ed ermeneutica che viene messa in atto pretendendo di misurare addirittura, per via statistica, l’ansia dei nostri studenti?
L’“ansia” dell’articolo di Corlazzoli è solo una parola, un’allusione, un fantasma semantico, con un rapporto assai blando con la realtà. È una conclusione cui egli salta a partire da un dato che non è un dato, ma una costruzione complicatissima e stratificata di misurazioni e confronti incrociati, che appare obiettiva solo perché in essa è stato nascosto, dimenticato, rimosso, lo statuto di costrutto statistico.
L’ansia reale
Ma Marco ha davvero dichiarato di essere in ansia. Ammettiamo che l’abbia scritto in perfetta buona fede, senza buttare lì la risposta perché un questionario è solo un questionario, senza boicottare la prova Invalsi. (Già solo per ottenere questa condizione c’è bisogno di buona motivazione dello studente e di addestramento alla compilazione. In docimologia uno dei requisiti essenziali per la riuscita di un test è la sua «affidabilità», ovvero è necessario che i campioni siano raccolti in condizioni “ideali”, senza il disturbo di fattori contingenti. In Italia queste rilevazioni sono affidabili? Ne dubito). Ma Marco è stato sincero, diamolo per scontato.
Tra stato d’animo, percezione dello stato d’animo, sua verbalizzazione, c’è una bella differenza. In questi passaggi intervengono già degli elementi (auto)interpretativi. Stabilire dove stia la causa dell’ansia (ammesso che ce ne sia solo una), è difficile. Ma Il Fatto quotidiano e Corlazzoli l’hanno già deciso: è la scuola italiana che è ansiogena. Un articolo del genere sarà pure mosso da spiriti progressisti, ma l’effetto è solo uno: l’ennesima pillacchera di fango sulle nostre già lerce facce.
E se Marco vivesse in un paese in cui sente denigrare un giorno sì e l’altro pure la scuola e si fosse convinto anche lui che quel posto fa schifo? Se fosse il mondo adulto ad avergli (surrettiziamente?) suggerito che la scuola italiana sia un luogo in cui si sta male? Se la sua insomma fosse ansia “percepita”? Io a 13 anni ero perfettamente convinto di essere un timido, mi comportavo da tale e così mi definivo: poi ho capito che non lo sono affatto.
O se fossero i genitori italiani ad essere particolarmente ansiogeni? o la società tutta, intorno ai nostri studenti? o se la competitività spinta del nostro mondo avesse contagiato ogni nazione, ma noi italiani la subissimo con particolare intensità, per l’alchimia con qualche tratto psico-sociale tipicamente nostro? Se insomma fosse un’ansia “sociale” di cui non si può incolpare esclusivamente la scuola, poveretta, che ormai paga sempre per tutti?
Oppure, se l’ansia sta davvero nella scuola, è l’atteggiamento dei docenti italiani a provocarla? L’organizzazione curricolare? Il senso di estraneità che si percepisce dentro a un luogo che raramente sentiamo come “nostro”, sia perché spesso brutto e inospitale, sia per l’attitudine italiana a disprezzare il bene pubblico?
Eccetera.
Propongo a Corlazzoli di partire insieme, con una borsa di studio del Miur, per una visita di qualche anno attraverso le scuole europee e mondiali. Di qualche anno, sì: dovremo soggiornare almeno un paio di mesi in ciascun paese per farci un’idea del grado di benessere o malessere degli studenti. Bisognerà osservare e capire. Non basterà mettere due crocette.
Al nostro ritorno, scriveremo un libro a quattro mani, di taglio sociologico, antropologico, narrativo (con qualche dato ben piazzato) sullo stare bene o male a scuola. Fino ad allora, sul tema sapremo solo due cose: che ne sappiamo troppo poco per affermare che i nostri studenti siano i più ansiosi; che l’ansia vera la producono, su lettori, genitori, studenti, articoli come questo del Fatto.
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