La delega sull’inclusione al tempo dei fichi secchi
Anche se a tratti il mio tono sarà assertivo, desidero dire che non ho chiara la direzione da seguire. Mi sembra che i nostri orizzonti si vadano sempre più offuscando, come se le spinte contrapposte che ci animano sollevassero troppa polvere da terra. L’unica cosa che mi sembra di vedere con chiarezza è questa polvere.
Passaggi di tempo in compagnia del nulla
Oggi, 4 aprile, si terrà un incontro fra MIUR e sindacati per limare alcune parti dello schema di decreto legislativo sull’inclusione. Siamo giunti alle ultime battute di un annoso confronto. Difatti, si discute di riformare il sistema d’integrazione italiano oramai da molti anni. Già nel 2006 era stata depositata in Parlamento, su iniziativa di alcune associazioni dei familiari delle persone con disabilità, una proposta di legge di cui era prima firmataria l’onorevole Zanotti. L’iniziativa però decadde, insieme alla legislatura del secondo governo Prodi.
Del 2011 è il noto e discusso rapporto Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, redatto da Treeelle, Caritas Italiana, Fondazione Giovanni Agnelli e pubblicato dalla Erickson. Nel rapporto il gruppo di ricerca1 individuava i «nodi critici del modello attuale» e ipotizzava cinque nuove linee strategiche di intervento incentrate su:
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L’evoluzione dell’attuale figura dell’insegnante di sostegno, con «il passaggio degli insegnanti di sostegno all’organico delle scuole e contemporaneamente la creazione di un congruo numero di insegnanti “specialisti” ad alta competenza» (p. 195), senza ore di lavoro didattico diretto con gli alunni con disabilità e in grado di fornire un supporto tecnico alle scuole.
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Come seconda linea d’intervento si ipotizzava «l’abolizione degli effetti scolastici della certificazione sanitaria e nuove modalità di attivazione delle risorse umane e finanziarie» (p.196). Le scuole, di raccordo con i docenti specialisti dei CRI (Centri di risorse per l’inclusione), avrebbero dovuto “leggere” i bisogni degli alunni con disabilità e formulare le richieste di organico. La certificazione medica non sarebbe più stata la base per determinare le risorse di organico aggiuntivo delle scuole2.
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I CRI, nelle intenzioni dei proponenti, costituivano strutture amministrative autonome a livello provinciale che svolgevano le funzioni di sportello unico per le famiglie e definivano di concerto con le scuole le risorse umane, le attrezzature e le risorse finanziarie da assegnare agli istituti scolastici.
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Anche l’ipotesi di individuare forme di valutazione per la qualità dell’integrazione, istituendo un «patto» fra CRI, scuola e famiglie contenente gli elementi di intervento minimi vincolanti e i livelli di soddisfazione richiesti dalle famiglie, faceva parte delle linee progettuali proposte nel rapporto.
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Infine si auspicava l’attivazione di un coordinamento e di un monitoraggio centrale dei processi di integrazione scolastica.
Il rapporto – sia nel merito delle proposte avanzate che per il metodo utilizzato (alcuni addetti ai lavori ne contestavano la scientificità) – suscitò numerose polemiche, ben presto scalzate tuttavia dall’infiammarsi del dibattito sui BES a seguito dell’emanazione della circolare ministeriale del 27 dicembre 2012.
Tra assestamenti e contrapposizioni passano altri anni. L’ultima tappa prima dell’emanazione delle deleghe della 107 è costituta dalla proposta di legge 2444. Era il 10 giugno 2014 quando la FISH (Federazione Italiana per il superamento dell’handicap) e la FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità) presentavano la 2444 trovando sponda nel governo3. É di questa proposta che per mesi e mesi abbiamo dibattuto pubblicamente. Anche su questo blog.
L’approvazione della delega ha però inconfutabilmente rivelato che abbiamo discusso invano. Perché malgrado gli annunci dell’allora primo ministro Matteo Renzi (il 5 aprile del 2016) dell’allora ministra Giannini (10 aprile dello stesso anno alla Leopolda di Palermo), e dell’allora sottosegretario Faraone ( il 25 e il 26 settembre 2016), le deleghe annunciate come in corso di emanazione venivano rinviate senza che più nessun interlocutore ne conoscesse il contenuto. Al proliferare di dettagli tecnici, di tavoli e di confronti si era sostituito il nulla.
Finalmente sappiamo ciò che non vogliamo
Quando il 16 gennaio 2017, undici anni dopo la prima proposta di legge depositata in Parlamento, tre anni dopo la proposta 2444 e un anno e mezzo dopo l’approvazione della Buona Scuola, l’attesissimo schema di decreto legislativo 378 recante norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità è finalmente diventato Atto del Governo, la delusione è stata collettiva. Tutti i fronti prima divisi sulle proposte da attuare si sono di colpo ricompattati nel criticare la debolezza, l’incoerenza, lo spaesamento mostrato dal MIUR. L’iniziativa legislativa sul sostegno ha perso per strada tutti i suoi sostenitori non soltanto perché, sul piano politico, non ha saputo raggiungere un punto di equilibrio tra le diverse posizioni in campo, ma anche perché, sul piano culturale, non segna un’evoluzione (per usare un termine caro a Dario Ianes) del nostro sistema, anzi ne prefigura un arretramento.
E così il capolavoro d’inconcludenza che va avanti da anni è stato portato a termine: non c’è unanimità di consenso sul da farsi, ma unanime è il coro di chi elenca le cose da non fare e cioè: sottofinanziare il sistema, burocratizzare e medicalizzare ulteriormente l’approccio all’inclusione, rendere inutile e aleatoria la formazione dei docenti. Questi sono i soli punti d’incontro trasversali a tutti i soggetti sociali, dalle famiglie agli studiosi, dagli insegnanti alle associazioni. Undici anni di incontri, negoziati, polemiche, fratture fra le parti per dire «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
La delega sull’inclusione: punti critici in micro
Prima di entrare nel merito della delega premetto che mi limiterò a segnalare i principali punti critici, mentre trascurerò quelli che, a seguito delle audizioni e del parere della commissione parlamentare, fonti ministeriali assicurano che verranno emendati. Anticipo pure che cercherò di mantenere basso “il tasso tecnico” del discorso, poiché penso che dopo l’inconcludenza il secondo aspetto insopportabile di questo dibattito sia il gergo settario impiegato, come se l’inclusione fosse affare di pochi tecnici esperti in astruserie burocratiche.
Il primo elemento critico da mettere a fuoco riguarda il tema delle risorse (Art. 21). Con l’articolo 17 viene istituito presso il MIUR l’Osservatorio permanente per l’inclusione scolastica con compiti di analisi, studio, ricerca, monitoraggio e proposta di sperimentazione. Dall’attuazione dell’articolo non devono però derivare oneri a carico della finanza pubblica. Sulla formazione iniziale non vengono previsti investimenti, mentre quella in servizio avverrà nell’ambito delle risorse disponibili. Anche i nuovi organismi territoriali – i GIT – che pure avrebbero un ruolo chiave nel nuovo assetto organizzativo, verranno gestiti nell’ambito delle risorse disponibili4. Gli assistenti continueranno ad essere a carico degli Enti Locali e pertanto a subire i tagli del welfare; i mediatori culturali vengono ancora una volta dimenticati. In breve siamo in presenza dell’ennesima riforma fatta coi fichi secchi.
L’articolo 4 contiene un secondo elemento critico da porre in rilievo: la definizione dei livelli di prestazione essenziali. La FISH e Dario Ianes hanno fatto notare che non sono stati individuati dei veri e propri livelli essenziali esigibili dalle famiglie. Sul punto si rischiava d’inseguire un’illusione statistica o peggio la distorsione del sistema in chiave di “clientela soddisfatta”; ma non per questo, credo, al loro posto il legislatore ha ritagliato un nuovo ruolo per Invalsi, addetto a predisporre protocolli di valutazione e quadri di riferimento per l’autovalutazione che definiscano gli «indicatori per la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica». L’articolo citato si commenta da solo come perfetto esempio di antilingua. Ma il peggio è che mentre rischiamo l’ennesima superfetazione burocratica di griglie e protocolli che non garantiscono nessuno, ci allontaniamo sempre di più dalle pratiche di autoriflessione collettiva, di studio e di confronto critico che davvero aiuterebbero a riqualificare la didattica speciale (e non).
Anche l’idea di formazione presentata nella delega è debole e meramente quantificatoria. Questo aspetto sorprende particolarmente perché sulla formazione dei docenti, specializzati e curricolari, sia la Sipes (Società italiana di pedagogia speciale) che gli altri attori del dibattito avevano espresso posizioni favorevoli. Invece sul punto il governo prospetta una soluzione diversificata per la scuola primaria e secondaria, lasciando, nel primo caso, tutto invariato e creando, nel secondo caso, condizioni di inattuabilità. Per diventare docenti specializzati alla scuola primaria a partire dal 2019 sarà necessario possedere una laurea in Scienze della formazione primaria e ulteriori 60 crediti formativi sulle didattiche inclusive. Ma ai fini dei 60 crediti formativi potranno essere riconosciuti altri crediti universitari conseguiti, tirocini e tesi attinenti il sostegno. Il che equivale a dire che grosso modo si manterrà l’attuale assetto da 60 crediti. I docenti delle superiori, invece, dal 2019 accederanno al corso di specializzazione di sostegno soltanto dopo aver conseguito 60 crediti formativi universitari sulle didattiche inclusive. Oggi però nelle università sono previsti circa 7 crediti sull’inclusione. Allora come si potranno conseguire i restanti 50 e più crediti richiesti? Frequentando un intero anno di Scienze della Formazione dopo la laurea, la specializzazione all’insegnamento e prima del corso di specializzazione sul sostegno? Non si esagera sul “quanto” tralasciando del tutto il “come”? Come mai dei contenuti di tale formazione nessuno parla?
Un altro punto critico riguarda la continuità didattica (articolo 16 e articolo 12). Nell’articolo 16 il legislatore afferma correttamente che la continuità educativa e didattica è garantita da tutto il personale della scuola, dal piano dell’inclusione dell’Istituto e dal piano educativo individualizzato elaborato per l’alunno. Nell’articolo 12, invece, si prevede una permanenza decennale nella “sezione” del sostegno didattico (che non si capisce bene cosa sia). Ai fini del computo dei dieci anni sono considerati tutti gli anni svolti sul sostegno dagli insegnanti in possesso di abilitazione. Il punto, come si può facilmente comprendere, è particolarmente delicato per gli studenti e le loro famiglie. La FISH ha lamentato che la continuità sul “posto” non garantisce affatto la continuità sull’ “alunno” e che i dieci anni computati calcolando il servizio pre-ruolo si riducono a manciate di mesi nella stragrande maggioranza dei casi. L’ANIEF ha confutato questa posizione affermando che allora sarebbe necessario “bloccare” tutti i membri del consiglio di classe, poiché l’alunno non è affidato a un singolo insegnante, ma al team di docenti.
E così se da una parte è chiaro che non può essere assecondata una visione del docente di sostegno come docente dell’alunno e non della classe (quasi che questi fosse un bene privato di un utente e non un mediatore di dinamiche inclusive) e specularmente dell’alunno come allievo di un solo docente e non dell’intero consiglio di classe, d’altra parte è pure vero che è insopportabile per qualsiasi persona interrompere ogni anno, e in alcuni casi più volte in un anno, rapporti e relazioni, metodi e approcci, aspettative, affetti e modi di stare insieme. Ma se la questione non può essere risolta né su un piano meramente sindacale, né su un piano tutto individuale è perché il problema è strutturale. La continuità è sistematicamente compromessa dalla mancata assunzione dell’organico di fatto. Il numero di insegnanti specializzati di cui ogni anno necessita la scuola italiana è superiore a quello dei docenti stabilizzati nelle scuole. Ne consegue che moltissimi insegnanti sono ciclicamente costretti a prendere e lasciare i loro incarichi di lavoro. Bisogna intervenire a questo livello, bisogna cioè variare la dieta dei fichi secchi.
Circa il ruolo dei docenti non si è verificata la paventata separazione delle carriere tra docente specializzato e curricolare prevista dalla proposta 2444. Non vengono però neppure recepite le spinte di cambiamento messe in campo in questi anni: le cattedre miste proposte dai docenti bis-abili, ad esempio, non sono state ritenute un modello praticabile neppure in via sperimentale. Pur di non fermare la propria claudicante iniziativa, il governo Renzi e poi quello Gentiloni hanno rinunciato ad aprire una campagna di ricerca-azione che sperimentasse forme migliorative (non “innovative”, che non vuol dir nulla) di didattica inclusiva, da documentare, validare e mettere a sistema. Questa modalità – che è alla base delle pratiche pedagogiche istituenti – era stata ipotizzata in tempi non sospetti “persino” dal Rapporto Treelle, Caritas e Fondazione Agnelli: «nella consapevolezza della natura innovativa delle proposte formulate, si segnala l’utilità di avviare una sperimentazione, da condurre direttamente sul campo in situazioni rappresentative della variegata realtà del nostro Paese» (p. 193-194). D’altra parte il peccato è d’origine: la riforma del sistema inclusivo non doveva essere materia di delega. L’imposizione di una soluzione dall’alto è stata un errore politico pari solo a quello dell’improvvisazione.
Il GIT è senz’altro l’elemento di maggiore novità dell’intero decreto. Con il GIT, come già auspicato dal citato Rapporto Gli alunni con disabilità, si vuole interrompere l’automatismo tra certificazione e assegnazione del docente di sostegno. Al fondo di questa scelta possono esservi due ragioni opposte: una prima pronunciabile e una seconda impronunciabile.
La motivazione pronunciabile riguarda il passaggio nell’assegnazione del sostegno didattico da un modello organizzativo di tipo medico ad uno pedagogico: non si possono e non si devono assegnare le risorse guardando esclusivamente la diagnosi. É necessario osservare la persona in modo complesso, globale e dinamico. La prospettiva non può più essere quindi quella del manuale diagnostico, semmai deve essere quella dell’ICF (ICF è acronimo estremamente pronunciabile, benché per i più nebuloso). Infatti, l’attuale metodo di assegnazione dei docenti specializzati alle classi sulla base della certificazione medica rilasciata agli alunni crea l’automatismo logico secondo cui l’alunno è del docente specializzato (meccanismo di delega) e il docente specializzato è dell’alunno (microesclusione e mancata presa in carico della classe sia come spazio d’intervento che come fonte di risorse). In altri termini è ormai necessario intervenire su un andazzo (l’Atto di indirizzo del 1994) che ha generato pesanti distorsioni. Si tratta di argomentazioni a mio modo di vedere ragionevoli e condivisibili. Tuttavia penso che la delega le impieghi solo come paravento e che il GIT ci spinga in un’altra direzione.
Il GIT, formato da quattro Dirigenti (uno tecnico e tre scolastici o tutti e quattro dirigenti scolastici) e tre docenti distaccati, propone all’USR la quantificazione delle risorse da assegnare a ciascuna scuola dell’ambito di pertinenza sulla base delle valutazioni diagnostico-funzionali degli alunni, del Progetto individuale (un progetto di vita integrato nella comunità locale) e del Piano dell’inclusione trasmessi dalle scuole. Dunque il GIT farà richiesta delle ore di sostegno senza alcuna conoscenza diretta dell’alunno, senza confronto con i familiari e con gli insegnanti, ma sulla base di carte che molto verosimilmente entreranno ben presto nel novero dei nostri dozzinali adempimenti amministrativi. Difficile a questo punto ritenere che si voglia davvero superare l’impostazione medica e burocratizzante dell’attuale procedura di assegnazione delle risorse. Sembra più credibile semmai pensare che «l’allontanamento» degli attori (Ianes) preluda ad una stretta sui costi. Ma questa intenzione è per l’appunto impronunciabile. Dopo le durissime reazioni delle associazioni e le audizioni pare che il governo sia intenzionato a modificare la composizione del GIT per far spazio alle associazioni dei familiari. Tuttavia il problema, come si sarà capito, rimane nella sua interezza poiché l’elemento critico non riguarda la composizione del Gruppo, ma la sua stessa natura.
La delega sull’inclusione: problemi in macro
I punti critici di cui ho parlato rimandano a tre ordini di problemi: legati all’amministrazione, culturali e specifici del contesto scolastico. I problemi legati all’amministrazione sono di carattere organizzativo e hanno inciso sulla qualità dell’integrazione scolastica più di quanto si pensi. La discontinuità didattica, ad esempio, dipende essenzialmente da questo fattore, così come la preparazione non sempre adeguata degli operatori. É responsabilità dell’amministrazione fornire risorse stabili al sistema e regole coerenti che gli permettano di funzionare. E invece fenomeni come i corsi affrettati di riconversione al sostegno dei docenti le cui classi di concorso sono andate in esubero o il mancato adeguamento tra organico di fatto e di diritto vanno da molti anni in direzione contraria e hanno lasciato il segno sul corpo della scuola. Le disposizioni del MIUR, inoltre, appaiono incoerenti e spaesanti: la spinta medicalizzante generata dalle norme sui DSA e i BES sta diffondendo una cultura dell’espansione delle diagnosi a cui maldestramente si cerca di porre argine riducendo i costi con strutture impersonali, “di attutimento burocratico”, come i GIT. E tuttavia non è la stessa amministrazione a sprigionare entrambe le tendenze? Ma qui veniamo al problema culturale.
Nella scuola italiana è penetrata una spinta sociale a generare isole infelici. La tendenza medicalizzante e burocratizzante (per cui bisogna essere ormai addetti ai lavori anche solo per leggere un semplice piano di lavoro) etichettano le persone e le riducono a problema e da qui a numero di protocollo. Siamo spinti a guardare la persona disabile in modo estremamente statico. Si punta ancora assai poco sull’eterogeneità come risorsa. A causa di queste tendenze i contesti arretrano a semplici scenari di un dramma solitario, i docenti diventano specialisti di singoli casi e le famiglie entrano in conflitto per rivendicare personale esclusivamente dedicato ai loro figli. Solitudine, miopia ed egoismo sono problemi culturali, nel senso che sono generati culturalmente dal campo sociale di cui ci stiamo occupando.
Senza visione umanizzante la scuola, assalita dai problemi e dalla mera rendicontazione burocratica, non sa dove andare ed entra in un circolo vizioso, il circolo vizioso del “tirare a campare” in cui prendono campo i meccanismi di micro-esclusione e i meccanismi di delega. Sono questi i due grandi mali generati all’interno delle mura scolastiche, che a ben vedere c’entrano poco con il numero di anni di permanenza sulla sezione di sostegno o con il computo del numero di crediti da conseguire all’università. C’entrano invece con le forme di co-docenza inclusiva, con il dialogo di rete, con la flessibilizzazione dei contesti, con la valorizzazione del gruppo classe e così via. Delega e isolazione sono due derive direttamente proporzionali all’atomizzazione della scuola.
Dialoghi, negoziati e sogni al tempo dei fichi secchi
In questo senso, forse, si può anche dire che il metodo scelto dal governo di dialogo/negoziato con pochi gruppi di pressione e di silenziazione del dibattito pubblico si è rivelato del tutto speculare alla parcellizzazione degli orizzonti che prevede il testo della delega sul sostegno. Se all’inizio dell’articolo ho annoiato il lettore con la storia che ha condotto alla stesura dell’attuale delega sull’inclusione era appunto per cogliere questo nesso. Dagli anni Settanta ai primi anni Novanta la società italiana ha conosciuto un processo emancipativo di cui sono stati protagonisti, tra gli altri, il movimento di deistituzionalizzadione di Basaglia, Don Milani, Mario Lodi, Bruno Ciari, sino ad arrivare, sull’onda di quel clima culturale, alla stesura della legge quadro del 1992, una delle leggi più ambiziose e avanzate del mondo. Dagli anni Novanta in poi, invece, è in atto un processo di smantellamento del nostro sistema di istruzione pubblico che comporta la riduzione dei diritti sociali, tagli, la precarizzazione e l’indebolimento degli insegnanti, la crisi dei modelli educativi egualitari, l’avvento di retoriche neoliberiste e, come abbiamo visto, la stesura di riforme coi fichi secchi.
La delega sull’inclusione non segna soltanto un arretramento della nostra legislazione per via dei contenuti proposti, ma per il modo stesso di concepire gli attori in campo e cioè come corpi separati e in conflitto, come individui unicamente portatori di interessi e di spinte, non certo di sogni. Ma senza sogni non si educa e senza utopie non si fa scuola. Figuriamoci se si fa quella inclusiva.
__________________
NOTE
Fotografia: Guido Guidi, da La tomba Brion di Carlo Scarpa.
1Formato da Marcella De Luca, Rosario Drago, Italo Fiorin, Andrea Gavosto, Marco Giovannini, Dario Ianes, Stefano Molina, Alessandro Monteverdi, Walter Nanni e Attilio Oliva.
2 É in questa sede che si ipotizza per la prima volta di modificare la Legge 104 e l’Atto di Indirizzo del 1994 e di utilizzare il profilo di funzionamento e il piano educativo individualizzato-progetto di vita in sostituzione della diagnosi funzionale e del profilo dinamico funzionale.
3 Firmavano la proposta di legge i deputati Fossati, Beni, Argentin, Binetti, Carnevali, Coccia, Coscia, Faraone, Malpezzi, Molea.
4 I soldi per finanziare il GIT, infatti, verranno detratti dal fondo della Buona scuola (articolo 1, comma 202) che prevede per il 2018 poco più di 69 milioni di euro, 47 per il 2019, 43 per il 2020 e 45 annui a decorrere dal 2023. Il Git costerà circa 10 milioni di euro a partire dal 2018.
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