Su “La città interiore” di Mauro Covacich
Anche ne La città interiore di Mauro Covacich, come ci ha insegnato Javier Cercas, è individuabile un punto ciego, un momento in cui la ricostruzione narrativa degli eventi – tra rigore del documento storico e diritti dell’immaginazione – pare incrinarsi, denunciare la sua costitutiva fallacia: è il momento in cui l’autore-narratore, nel corso di un viaggio in Bosnia alla ricerca della tomba o quantomeno di una traccia pur labile del poeta e partigiano croato Ivan Goran Kovačić, ucciso dai cetnici nel 1942, si interroga sulle ragioni di questo viaggio e di una ossessione ormai ventennale che lo perseguita. Cosa cerca in effetti l’autore e il protagonista? «Non le radici – risponde Covacich – non il ritorno a casa […], ma una stele funeraria, la croce del fratello morto che mi assolva dall’indifferenza. Dalla non appartenenza. Sei italiano o sei slavo? Se porti quel nome perché non parli croato? Se sei italiano perché ti chiami così?».
Lo slittamento dalla K alla C, la «microvariazione di un’omonimia» è solo una delle numerose frontiere che Covacich tenta di oltrepassare nel corso di questo suo ultimo libro che, secondo una pratica ormai consolidata nell’editoria italiana, porta in copertina la dicitura “Romanzo”, eppure pienamente romanzo non è. Sconfinando continuamente nei territori dell’autobiografia o del saggio culturale, Covacich compone un libro dai confini mobili, dove ogni definizione appare impropria e dove, significativamente, l’immagine dell’attraversamento torna ricorsivamente (a partire da James Morris, soldato britannico sbarcato a Trieste durante l’occupazione americana e poi divenuto famoso con il nome e l’identità femminile di Jan Morris, passando per il musicista Bibalo, che Trieste lasciò per diventare il più grande compositore norvegese del Novecento, arrivando a John M. Coetzee, sudafricano di origine boera che ha appreso l’inglese come una lingua straniera, come uno «straniero a casa sua»).
Perciò il “punto cieco” ha in questo caso a che fare con una traslazione in primo luogo linguistica, con l’italianizzazione forzata di ampi strati di popolazione di origine slovena, compiuta a inizio Novecento tra Trieste e l’Istria: Covacich in effetti riporta in primo piano in questo libro la “questione della lingua”. L’italiano, di fatto appreso in età scolare dall’autore che confessa di pensare e sognare ancora per lo più in triestino, è da un lato la lingua coercitiva del fascismo e dall’altro è un codice solo apparentemente democratico che «spiana le differenze con il dogma della comunicazione, l’idioma standard adottato, ma sarebbe più giusto dire implementato, dalle catene di negozi in franchising e sui social network». Tra questo italiano-ruspa o schiacciasassi e l’inglese-leviatano che fagocita tutte le altre specificità linguistiche, ci sarebbe allora una differenza minima.
La lingua è la più duratura, la più solida delle città interiori, quella che consente a ciascuno di noi di non sentirsi mai del tutto solo, quella che ci ricorda chi siamo e da dove veniamo. Un luogo allora conta meno di una parola: l’ossessione per la ricerca della tomba o almeno di una lapide dedicata al poeta Kovacic, durata più di vent’anni, ha infatti un finale dall’altissimo valore simbolico. Il viaggio nella cittadina bosniaca di Foča si interrompe nella biblioteca del paese dove una donna in grembiule nero gela le attese del narratore: «Ovvio che non ci sono monumenti, perché dovrebbero esserci? Kovačić era un croato, qui non siamo in Croazia». L’unica tomba per questo poeta trucidato e dimenticato è allora una poesia di Paul Éluard, Tombeau de Ivan Goran Kovačić, che la medesima donna consegna cerimoniosamente al narratore, mettendo in scena l’unico risarcimento possibile: quello rituale della letteratura. Potere risanatore della parola. D’altro canto, e Covacich lo dichiara nelle pagine dedicate all’incontro con Coetzee, innanzitutto «la lingua è potere».
Così credo plausibile che La città interiore sia in primo luogo una riflessione sulla nostra lingua: anche quando si trova casa nella scrittura, l’idioma in cui si scrive «è lì a rammentarti che non sei a casa tua. È un disagio di cui però puoi far tesoro. Vivere la sensazione vaga e persistente di essere un intruso nel proprio cervello». Covacich gioca di continuo con questo dispositivo: prova a tradurre (dal triestino all’italiano, dall’italiano all’inglese, con incursioni nello sloveno, nel francese, nel croato) e insieme denuncia l’inefficacia della traduzione, cerca immagini e fatti certi, per poi rendersi conto che la mobilità, la rifrazione sono ineliminabili. Per questo, nelle ultime pagine del libro, non può evitare di riflettere apertamente su questo tema, vero fil rouge della sua narrazione:
In quanti omonimi mi sono imbattuto finora? I due Marcello Spaccini, mio nonno, ovvero due nonni Marcello, Ivan Goran Kovačić, e ora il secondo Bibalo. Ma ci sono stati anche degli slittamenti onomastici: da Hector a Italo, da James a Jan. Sconfinamenti di identità fluttuanti, non appartenenti o, come avrebbe detto Gilles Deleuze, deterritorializzate.
La città interiore del titolo, dunque, è la città della memoria, è lo specchio (ma uno specchio frantumato) della storia italiana del secolo trascorso: ogni frammento restituisce un pezzo di realtà, quella realtà che, come ha dichiarato Covacich nell’intervista concessa a laletteraturaenoi.it, è il luogo interiore in cui un soggetto fa un’esperienza di verità. Per questo il romanzo ha una apparenza frammentata, come se fosse intimamente percorso da una inquietudine che guida l’autore verso una ricostruzio ne convincente della realtà, anche quando quest’ultima slitta verso l’invenzione letteraria (ossia verso l’immaginazione, ma non verso la fantasia).
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