Un corpo a corpo con il mondo: Ginevra Lamberti, Laura Pugno, Claudia Durastanti
I romanzi scelti per questa “campionatura di fine d’anno” – La questione più che altro di Ginevra Lamberti, La ragazza selvaggia di Laura Pugno e Cleopatra va in prigione di Claudia Durastanti – sono parsi esemplari, nel corso del 2016, di una scrittura d’autrice che prende di petto il mondo, di gran lunga lontana da quel “sussurro degli affetti” che spesso il senso comune si aspetta dalle “penne rosa”. Sono opere in cui, senza indulgere in rassicuranti lieti fine, in edificanti quadretti di famiglia, in seriali affreschi generazionali, Lamberti, Pugno e Durastanti si gettano in un corpo a corpo con la contemporaneità, anche a costo che le loro donne ne escano “ammaccate”. In tutti e tre i casi, ai quali va senz’altro affiancato La prima verità di Simona Vinci, le protagoniste si configurano come antieroine, personaggi non stereotipati che si mettono in gioco nell’incontro con una realtà decisamente poco addomesticabile, quando addirittura non ostile. Come ha scritto Lucia Ravera delineando una panoramica delle scrittrici italiane contemporanee, «ci sarà dato di incontrare donne che, sfondando resilienti tabù […], raccontano quel che resta da dire della vita e ci trasportano, talora sorprendentemente, nell’indomabile vertigine del jamais dit».
Alla ricerca di un’identità e di un riconoscimento sociale fuori dall’ambito domestico e al contempo respinte da un mondo del lavoro sempre più umiliante e precario e da relazioni interpersonali conflittuali o prive di prospettiva, Gaia, Tessa e Caterina – questi i nomi delle protagoniste – non si sottraggono alla mischia e, con voci dal timbro difforme, offrono al lettore «nuovi alfabeti con cui interpretare la vita, accordandole, quanto meno, l’opportunità di uno sguardo alternativo». (Intervista a L. Ravera)
Ginevra Lamberti – Sopravvivere al deterioramento del nord-est con le armi dell’ironia
Il romanzo d’esordio di Ginevra Lamberti (1985), La questione più che altro, è un ritratto disilluso e sottile di quel che resta del “mitico” nord-est. La mutazione dello spazio e la disgregazione di un tessuto lavorativo operoso e redditizio almeno fino a una ventina di anni fa sono i poli tematici attorno a cui ruota il disagio di Gaia, metabolizzato grazie alle armi dell’ironia.
Del resto la giovane protagonista sembra essersi abituata fin da bambina a una zuffa con il mondo, avendo assistito al deterioramento del matrimonio dei genitori, quotidianamente impegnati a «lanciarsi le cose»:
Natale mi sembra una pratica perversa perché è sempre stato il giorno preferito dai genitori per lanciarsi le cose. Questa visione è distorta, nel senso che ai genitori per lanciarsi le cose piacevano tutti i giorni dell’anno, solo che a Natale saltava all’occhio in quanto nel resto del mondo circostante la vita sembrava scorrere nel più dorato dei modi possibili. (G. Lamberti, La questione più che altro, Roma, Nottetempo, 2015, p. 30)
Prendendo di petto l’esistenza con un atteggiamento solo in apparenza impassibile, Gaia “conquista”, tra un attacco di panico e l’altro, una laurea in lingue orientali, pressoché inutile dal momento che l’Oriente si è trasferito a ovest invadendolo di take away thailandesi e di osterie colonizzate da pakistani, e una permanente ma disillusa ricerca di «posizioni lavorative» «nell’internet».
La provincia trevigiana, Mestre e Venezia sono i non luoghi che fanno da sfondo a una vicenda in cui, più che la trama, conta il modo in cui Gaia si incontra con l’adultità: la Marca cementificata, lungo la statale Postumia costellata di «psicovillaggi» e centri commerciali, è oramai divenuta un indistinto sprawl urbano (pp.55-58); Mestre offre alla vista dei pendolari che attraversano «la steppa mestrina» uno sconsolato «niente» punteggiato di «vecchie lapidi di cavi Siptel» (pp. 91-97); infine la città lagunare è ridotta a parco a tema, appena fuori dal quale «sembra non esserci rimasto nessuno» (p.136).
Altrettanto disarmante è lo scenario offerto dal mondo del lavoro: la ricerca di impieghi «nell’internet», che si protrae lungo il romanzo offrendo un catalogo sempre più paradossale e improbabile di “professioni”, sfocia in due esperienze professionali “cult” per i giovani di oggi: quella del call center, che «in quanto argomento di conversazione è caduto in disuso, ma in quanto lavoro-lavoro esiste ancora […] alle stesse condizioni di prima» (p. 91) e quella del locale «per persone giovani, famiglie e soldati, […] accomunati dal fatto di amare le proteine animali» (p.158). L’«Azienda» in questione, a due passi da Piazza San Marco, presso la quale Gaia ricopre il qualificato compito di «far sedere la gente» (p. 159), ha tutta l’aria di corrispondere alla location lagunare della catena Hard Rock Cafè. Nell’uno e nell’altro impiego Gaia sperimenta il metodico processo di “addestramento” del dipendente e il tentativo di instillargli un’“adesione passionale per il lavoro” (F. Lordon). Significativo l’episodio della «Festa Formazione» organizzato dalla Psicologa del call center che ricorda da vicino il festino aziendale in Cordiali saluti di Andrea Bajani (2005), uno dei testi più significativi pubblicati in questi anni sul tema:
I team leader e la Psicologa vestono a festa. Ci dicono ragazzi adesso vi dividiamo in gruppi e poi vi spieghiamo i giochi, che sono due, il numero uno è quello della Nasa. […] Cado in uno stato di catatonia che mi permette di far andare avanti il corpo mentre l’anima si nasconde in un angolo a strapparsi i capelli a ciocche. (G. Lamberti, La questione più che altro, Roma, Nottetempo, 2015, pp. 101-102)
Con spirito critico e ironia, qualità che permettono a Gaia di venire a patti con un sostanziale ridimensionamento delle ambizioni personali, l’antieroina del romanzo smaschera, dunque, i dispositivi di dominio dell’odierno mondo del lavoro senza per questo assumere il lamentoso ma comodo ruolo di vittima: al padre che la spinge a inviare il curriculum a qualche azienda seria, risponde di avere «altri e più importanti progetti per la mia vita» (p.147).
L’explicit del romanzo conferma la scelta anticonvenzionale di Gaia: nella sua personalissima lotta con il mondo e dopo l’ennesimo attacco di panico, la giovane attende, con quieta disillusione, lo scorrere della notte e, forse, anche della vita.
Laura Pugno – Solitudine e fierezza di una ricercatrice precaria
Di tono completamente diverso è il romanzo di Laura Pugno (1970), La ragazza selvaggia: il perturbante è da sempre la cifra costitutiva della sua narrativa e il lettore intuisce che questa storia, incentrata su «una lacerazione immedicabile» (F. La Porta), non sfocerà in alcun lieto fine. La protagonista, più che la ragazza selvaggia del titolo, è la biologa Teresa Santacroce, per tutti Tessa: attraverso il suo punto di vista anticonformista il narratore in terza persona dipana la vicenda che riprende in parte quella de “Il ragazzo selvaggio” di François Truffaut (1970).
Dopo dieci anni dalla sua misteriosa scomparsa in un bosco riappare Dasha, una giovane regredita a una condizione ferina nel corso del lungo isolamento. La giovane, ferita, si fa avvistare da Tessa, che vive in un container ai margini del borgo abbandonato di Stellaria dove monitora un esperimento di rimboschimento sugli Appennini. La biologa avverte del ritrovamento il padre adottivo, l’industriale Giorgio Held, un uomo determinato a voler incidere sul destino di chi lo circonda. Held riporta nella villa Dasha, ricreando per lei le condizioni di un’artefatta immersione nella natura e, contestualmente, la sua gemella Nina, in stato vegetativo da alcuni mesi a seguito di un incidente stradale. L’uomo è infatti dell’idea che, una volta riunite, le due sorelle, adottate dopo la catastrofe di Chernobyl, si restituiranno la vita l’una con l’altra. Nel suo «tracotante e pietoso» (D. Giglioli) esperimento di incivilimento, Held cerca di mantenere vivo il rapporto con Tessa, che stima. Lo sguardo rivolto dalla scienziata al trattamento riservato a Dasha è consapevole e lucido; nessun tentativo di rieducazione fisica, logopedica, intellettiva può funzionare nel caso della ragazza inselvatichita:
Dasha era stata condotta nella sala, su una sedia a rotelle […]. Appariva pallida e stordita. Aveva gli occhi chiusi, le labbra serrate sui denti, e si lasciava sfuggire piccoli gemiti rauchi. Tessa si chiese quanti sedativi le avessero somministrato, se avessero dovuto aumentare le dosi per permettere quel simulacro di normalità. […] Tessa si chiese se Dasha fosse mai stata lasciata libera almeno nel parco della villa, con le sue recinzioni elettrificate, a dare la caccia a piccioni e fagiani addomesticati a mani nude. (L. Pugno, La ragazza selvaggia, Venezia, Marsilio, 2016, pp. 138-140)
Ne La ragazza selvaggia la natura non è un soggetto addomesticabile e, anzi, questa fa giorno per giorno con Dasha quanto ha fatto con il borgo di Stellaria dove Tessa osserva il prepotente prevalere dell’elemento naturale su quello antropico: «A volte Tessa passeggiava per le antiche strade dove ormai cresceva l’erba. Quella visione di città invasa, di natura dappertutto, le piaceva» (p. 22).
Ma non è solo lo scetticismo nella scienza imparato sul campo a caratterizzare la ricercatrice del romanzo come personaggio fuori dagli schemi. Tessa è, infatti, una donna fiera e sola, che ha scelto di restare l’ultimo baluardo di un progetto d’avanguardia nel quale ha fortemente creduto e che ora è in via di smantellamento. Se Stellaria doveva costituire, all’atto della fondazione, l’avvio di un lavoro di squadra volto a inventariare le specie presenti sul territorio e a realizzare una riserva integrale, alla lunga la squadra era stata ridotta a due ricercatori e, infine, l’unica a voler restare, ostinatamente e nonostante l’imminente dismissione, era stata lei, Tessa:
Ora Tessa era rimasta da sola, e quello che faceva, forse, non era neanche più giustificabile con fini di ricerca. In fondo il suo vero compito, pensava a volte, era proteggere la soglia, testimoniare un confine che non doveva essere oltrepassato. […] Era troppo tempo che viveva nel bosco. (L. Pugno, La ragazza selvaggia, Venezia, Marsilio, 2016, pp. 14-15 .
Nonostante nel suo passato ci siano state delle relazioni amorose, è evidente che Tessa è una donna che “sta a sé” e che non «aveva mai chiesto qualcosa di diverso. […] Ormai Tessa abitava la solitudine come un altro corpo» (p.59).
L’unica persona ammessa nella sua vita è l’amica Cecilia, che vive in Camargue e presso la quale si recherà dopo aver portato a compimento lo smantellamento del progetto di Stellaria e aver riconsegnato Dasha ai boschi. Resta la netta sensazione che la protagonista, nonostante le sconfitte, si adempia nella coerenza con cui persegue la sua scelta di fiera solitudine. In questo romanzo l’urto con il mondo e il fallimento diventano per Tessa occasioni di austera crescita e di acquisizione di autonomia.
Claudia Durastanti – Da ballerina a flâneuse, passando per Rebibbia
Con la protagonista del romanzo di Claudia Durastanti (1984), Caterina, il lettore si immerge nella periferia romana: il non luogo situato tra Pietralata e Rebibbia, tra il fiume Aniene e la stazione Tiburtina è perfettamente idoneo a rendere il contemporaneo “stravaccamento urbano” che molta e ottima narrativa dei nostri giorni ritrae e, nel contempo, a restituire la peculiare “romanità” dell’ambiente che anche il cinema odierno mostra di saper ritrarre (basti pensare al recente Il più grande sogno di Michele Vannucci).
In quest’area ai margini della capitale, descritta senza “debiti” con le borgate di Pasolini o di Siti, sembra davvero impossibile non istituire un corpo a corpo con il mondo e la giovane protagonista lo ha imparato fin da piccola, quando ha iniziato a entrare a Rebibbia per le visite settimanali al padre, incriminato per molestie sessuali a una minorenne. Alla separazione dei genitori e a una vita di ristrettezze economiche con la madre, che sbarca il lunario facendo pulizie, Caterina oppone il sogno di diventare ballerina classica:
Io a quell’età stavo ancora studiando danza classica in una scuola che ci faceva lo sconto sulla retta mensile perché mia madre dava una mano a pulire la sala dove ci esercitavamo. Quando non mi costringeva a fare i compiti, la accompagnavo con la scusa di aiutarla a spazzare la polvere, ma in realtà volevo fare gli esercizi senza la maestra e le compagne di corso. […] Quando flettevo la schiena fino a toccare il pavimento, mia madre passava lo straccio dicendomi di togliermi di mezzo, ma eravamo entrambe felici perché la musica classica ci calmava anche se non lo dicevamo ad alta voce. (C. Durastanti, Cleopatra va in prigione, Roma, minimum fax, 2016, pp. 42-43)
Tuttavia la giovane comprende molto presto che non solcherà nessun palcoscenico in tutù e scarpette di seta e che, piuttosto, dovrà indossare costumi da burlesque per fare la spogliarellista nel night aperto da Aurelio, il giovane con cui ha una relazione:
Quella sera ho capito che un night deve avere le stesse luci degli acquari; è più facile andare in fondo se quando ti guardi allo specchio sembri una sirena – una creatura che non esiste. (C. Durastanti, Cleopatra va in prigione, Roma, minimum fax, 2016, p. 39)
Ma anche come stripper, la carriera di Caterina si chiude presto: la rottura dell’anca, causatale da Aurelio nel corso di un litigio, le procura la raccomandazione del medico «di non forzare troppo […] non […] correre e sollevare carichi pesanti» (p. 50) e le lascia un’andatura sbilenca e dolorosa che la accompagna nel corso di tutta la narrazione.
Nel suo corpo a corpo, anche fisico, con il mondo Caterina impara a prendere tutto quanto è le possibile dalla vita: si divide tra due uomini, senza fare la fine di Cleopatra che, come le protagoniste delle telenovelas sudamericane adorate dalla madre, «ha due grandi amori ed è troppo stupida per non morirne» (p. 42). Nonostante gli smacchi che la vita le riserva, è una donna di trent’anni abituata a non mollare: trova lavoro come receptionist in un hotel che «non ha niente di rispettabile» (p.54); prende in affitto un appartamento prospiciente la stazione Tiburtina che, dopo il recente rinnovo, pare «un’astronave disertata dall’equipaggio»; ricomincia a recarsi a Rebibbia tutti i giovedì per trovare Aurelio, incarcerato con l’accusa di induzione alla prostituzione e di spaccio; frequenta il poliziotto che lo ha lo incastrato e che «potrebbe aprire a una normalità nuova e inattesa» (A. Beretta); infine, si sposta come un’instancabile flâneuse nelle strade di periferia e lungo l’Aniene costellato di «baracche di alluminio» e abitato da «popolazione anfibia di cui pochi romani sospettano l’esistenza» (Cfr. pp. 50-51).
Anche in questo romanzo, come nei precedenti, l’autrice delinea un’antieroina dalle scelte non convenzionali e decisamente pragmatiche, una donna poco incline ai sentimentalismi: le relazioni che intrattiene – con la madre, con le colleghe, con i suoi due uomini – sembrano non riuscire a penetrare la scorza che si è costruita intorno, in difesa da un mondo che attraversa a piedi con la sua anca ammaccata. Se c’è un varco di dolcezza, in Caterina, questo si apre nella solitudine notturna del suo appartamento in affitto:
Qualche volta indossa un tutù lungo fino al ginocchio sopra un body dai bordi morbidi e non più elasticizzati, si piega davanti allo specchio e la luce che filtra dalle serrande le disegna un codice morse sulla faccia. La notte prima di addormentarsi fa le flessioni contro il muro come Aurelio in prigione e dopo qualche tempo riesce a individuare l’alone dei palmi sulle pareti bianche. (C. Durastanti, Cleopatra va in prigione, Roma, minimum fax, 2016, p.93)
Fotografia: G. Biscardi, Occhi, Palermo 2015,
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