A proposito di Brexit. Diario da Londra
Già nel Maggio del 2015, poco dopo la rielezione di Cameron, avrei dovuto capire che il referendum sarebbe diventato il ricettacolo di conflitti irrisolti che andavano ben oltre l’insofferenza per le norme imposte dall’UE. Assunta da poco in una piccola agenzia letteraria londinese, sto raccontando a Jeremy, accountant, che nel weekend visiterò le scogliere di Dover. Jeremy ha un’età imprecisata, ma sicuramente più di 60 anni; durante la pausa pranzo legge il Daily Mail e poi fa un pisolino. Vive fuori Londra, soffre di diabete e ipertensione. È un collega premuroso, affidabile, paterno.
‘Come mai vai proprio a Dover? Attenta a non farti deportare!’, mi dice. Colta del tutto impreparata, chiedo per quale motivo rischio di essere deportata, anche se conosco benissimo la risposta. Jeremy mi ricorda che la zona di Dover è ‘invasa’ da immigrati irregolari e ‘gente povera’ proveniente dall’Europa dell’Est. Mi dice che i treni sono sempre in ritardo a causa dei migranti che cercano di raggiungere il Regno Unito attraverso l’Eurotunnel, e il traffico a Dover e dintorni è un inferno perché i camion devono essere controllati per evitare che vi si nascondano dei clandestini. Lui lo sa perché sua sorella abita nella zona. I giovani inglesi non trovano lavoro, la competizione è alta anche per ottenere sussidi di Stato, e molti finiscono col cadere nella droga. È chiaro che per Jeremy gli immigrati costituiscono una categoria unica, a cui ovviamente appartengo anche io: non avrebbe fatto questa battuta ad un collega inglese, o a Suzanne, che è svedese. Ho vissuto questa conversazione come in trance, in una condizione di sospensione e inadeguatezza. Quello che continua a scuotere la mia coscienza, ancora oggi, non è la battuta infelice di Jeremy: è l’essermi sentita oltraggiata, anche solo per una frazione di secondo, perché io non sono come quegli immigrati, come ‘loro’.
Ho ripensato spesso a questo episodio nelle settimane precedenti al referendum, caratterizzate da una tensione crescente, un senso di ‘impending doom’ che aveva una qualità quasi cinematografica, e che ha raggiunto l’apice con l’omicidio di Jo Cox. Il tema dell’immigrazione è stato presentato fin da subito come l’ago della bilancia – non l’economia, i soldi versati all’Europa, la sovranità popolare, i rapporti con altri paesi. In modo più o meno elaborato, ogni questione sembrava ricondursi inevitabilmente alla libera circolazione degli europei, al controllo delle frontiere e alle ‘quote’ di rifugiati che ogni paese dovrebbe accogliere.
La multinazionale in cui lavora il mio ragazzo, per evitare incidenti, aveva fatto circolare un avviso interno in cui ai dipendenti era chiesto di evitare discussioni sul referendum. Sono i primi di Giugno, ed io non posso avvalermi dello schermo di alcuna direttiva ‘corporate’. Jade e Lisa, rispettivamente agente letteraria e editor, parlano vicino alla mia scrivania. Entrambe tra i cinquanta e i sessanta, Jade ha una casa nel Kent, sul mare, Lisa ha un compagno che lavora a Parigi e non perde occasione per ricordare come l’albero genealogico della sua famiglia si sia intrecciato più volte con quello di vari reali di cui ignoro la successione e rilevanza storica. Jade parla del fatto che ci sono tre milioni di polacchi in UK, e della disoccupazione giovanile in Italia e in Spagna che è superiore al 30%: ‘È ovvio che vengano tutti qui!’. Mi interpella per chiedere conferma, io fingo di dover fare una telefonata urgente.
Jade è un po’ preoccupata per le possibili conseguenze della Brexit sull’economia nazionale, ma allo stesso tempo vede che in Kent i giovani hanno bisogno di lavorare, e che non riescono a competere con gli immigrati polacchi e rumeni. L’anno scorso il nipote trentenne di una sua vicina si è suicidato. ‘Faremo come prima, come prima dell’Europa. Ci sono troppe parti del paese che vanno recuperate’, Lisa la rassicura. Concordano sul fatto che si tratterà di un passaggio complicato e probabilmente doloroso, ‘but in the end we’ll be free to choose for ourselves again’.
A una settimana dal voto, un’altra questione viene sviscerata vicino alla mia scrivania: Lisa e Jade esprimono insofferenza nei confronti delle regole a cui devono sottostare i cittadini del Commonwealth che vogliono vivere e lavorare in UK, e nei cui confronti si è perpetuata per troppo tempo una forma di razzismo. Nonostante le innumerevoli obiezioni che si potrebbero fare – a partire dal fatto che i beneficiari dell’ ‘argomento Commonwealth’, nell’immaginario collettivo, somigliano molto di più ad australiani e canadesi piuttosto che a indiani o pakistani – , non posso fare a meno di pensare alla ragazza che ho sostituito all’agenzia. Originaria di Taiwan, naturalizzata canadese, ha dovuto lasciare il Regno Unito, e quello che poi è diventato il mio lavoro, perché non le era stata rinnovata la visa. Circa un anno fa aveva tentato di tornare a Londra con un visto turistico, ma i suoi documenti erano stati contestati. Dopo ore di attesa, fu deportata da Heathrow a Taiwan – nonostante provenisse da Toronto. Ne sono al corrente perché risposi io, al telefono, quando le autorità dell’aeroporto chiamarono in ufficio per chiedere se sapevamo per quale motivo Ms Maggie Ying-Ju stava cercando di rientrare in UK. Per diverso tempo, tutte le volte che i colleghi parlavano di questa ingiustizia subita da una ragazza onesta e responsabile, mi sentivo in difficoltà, come uno che ha rubato qualcosa e non ha ancora capito se lo hanno scoperto.
La metropolitana è stranamente silenziosa la mattina dei risultati del referendum. È‘rush hour’, ma trovo posto a sedere. Per quanto la vittoria del Leave non mi abbia sorpreso del tutto, sono come anestetizzata. Mi sembra che le persone si muovano con lentezza, faticosamente. In ufficio, Carol – mamma di due bambini che frequentano una scuola pubblica tra le più ‘racially diverse’ – mi chiede cosa si dice in Italia, ‘Cosa pensano di noi? Pensano che siamo ridicoli, vero?’. Anche Jeremy si rammarica – a suo avviso, Cameron non doveva dimettersi, perché per quanto il Remain sia stato sconfitto, è grazie a lui se la popolazione ha potuto esprimersi su un tema così fondamentale e porre fine ai diktat dell’UE. Inizia qui una discussione accesa con Carol – furiosa, quasi in lacrime. Jeremy non può che apparirle come l’incarnazione del Brexiter, ed è così che anche io lo vedo: per la prima volta, però, mi rendo conto che forse per me non potrà mai essere nient’altro, come se la sua personalità e individualità fossero state cancellate per sempre dalla preferenza che ha espresso. L’imbattibile aplomb inglese, intanto, ha calmato gli animi. Carol mi scrive un’email, quasi a scusarsi: ‘I have no idea why I began that conversation. I think I’ll back away now…’. Molti amici inglesi mi contattano quella mattina, alcuni per chiedere in generale come mi sento, come vanno le cose, altri addirittura per chiedere scusa.
Ho preso ferie il pomeriggio per andare ad un colloquio di lavoro. Sono arrogante, ingrata? Non solo ho un lavoro ed uno stipendio fisso in un paese che non è il mio, ma sto cercando anche di migliorare la mia posizione. La ‘way of life’ di Londra è fortemente incentrata sul lavoro – forse uno dei pochi elementi di unione in una città altrimenti così stratificata e dispersiva. Ma perché dovrebbe essermi permesso di costruire una carriera qui? E se oggi fossi svantaggiata, rispetto a ieri? Perché un’azienda dovrebbe anche solo considerare l’assunzione di un europeo, oggi? ‘All applicants must be able to demonstrate the right to live and work in the UK in order to be considered for the vacancy’ – ultimo paragrafo sempre letto nelle job descriptions, sempre ignorato. Fino ad oggi, s’intende.
La donna con cui si svolge il colloquio è distratta. Mi descrive il lavoro, fa lunghe pause. Dice poi ‘Sorry, I feel a bit numb today, I do apologise’. Capiamo di appartenere alla stessa fazione – il solco che si è creato tra pro-Leave e pro-Remain sembra allargarsi ora dopo ora, è così innegabile, indiscutibile, che la tentazione di rivendicare la differenza e punire i Brexiters per mezzo di scenari apocalittici è troppo forte. Iniziamo a parlare dell’arroganza inglese, dimostrata dal numero insignificante di libri che vengono tradotti ogni anno, dalla ‘snobbery’ con cui vengono accolte, e mai davvero comprese, le tendenze culturali del continente. D’altra parte film, libri e artisti stranieri, per aver successo in UK, devono essere assimilabili a stereotipi che hanno già uno spazio nell’immaginario del pubblico anglosassone. Sappiamo entrambe che si tratta di un giudizio rabbioso, approssimativo e sostanzialmente scorretto, ma ci fa sentire meglio. Immaginiamo un futuro di irrilevanza internazionale per la lingua inglese, Francoforte o Berlino come le nuove capitali dell’editoria europea, la costosissima fiera del libro di Londra ignorata dagli editori stranieri. Dopo essermene andata, mi rendo conto che abbiamo a malapena discusso il mio curriculum, la posizione per cui avevo fatto domanda, e che forse non avrei dovuto parlare male del Regno Unito con una persona nata e cresciuta a Cambridge. Mi viene in mente la poesia in cui Vittorio Sereni descrive Saba ‘un giorno o due dopo il 18 Aprile’ – ‘ “Porca – vociferando – porca.” Lo guardava/ stupefatta la gente (…)’. Mi riprometto di controllare se Sereni è mai stato tradotto in inglese.
Il 2 Luglio vado alla ‘March for Europe’ indetta a Londra dalle varie organizzazioni pro-Remain. L’atmosfera è pacifica, giocosa, colorata: è come se le persone, dopo una settimana di nervosismo, avessero innanzitutto voglia di stare insieme, di ritrovare la Londra che conoscono e la sua inclusività. Sono sorpresa dai numerosi mea culpa che si susseguono dal palco, dove si alternano gli speakers più disparati: semplici cittadini, MPs, qualche celebrità, giornalisti, delegazioni provenienti da tutto il paese – applaudite con maggior entusiasmo in base alle ore di viaggio che hanno sostenuto ‘to be here, today’. Si dice che la capitale non è lo specchio del paese e non può ignorare il disagio delle zone che più hanno sofferto gli effetti del thatcherismo, della globalizzazione, della crisi economica. Dobbiamo recuperare l’unità nazionale. Il fronte del Leave non è composto da ignoranti, razzisti e xenofobi. Basta col paternalismo. Dobbiamo lavorare sulle disuguaglianze. Dobbiamo accettare il risultato e trovare il ‘best deal possible’ con l’Europa. Amici europei che vivete e lavorate in questo paese, ci batteremo per voi.
Non posso fare a meno di pensare che se si fosse verificata una situazione simile in Italia, probabilmente non avrei visto tutta questa compostezza e, se si vuole, senso di responsabilità, soprattutto dopo un voto così simbolico ed emotivo. Provo un’improvvisa nostalgia per la politicizzazione radicale e viscerale (spesso opportunista, o semplicemente velleitaria) che caratterizza l’Italia, per le manifestazioni in cui non si marcia ordinatamente in spazi prestabiliti, per la testarda pratica della ‘non accettazione’ – perché si deve onorare il risultato di un referendum consultivo che, approssimativamente, esprime il parere di un terzo della popolazione? È questo un dubbio legittimo, si possono discutere le modalità e le implicazioni del voto senza essere accusati di essere antidemocratici? Perché canadesi e indiani hanno potuto votare e io no? Decido che l’atmosfera pacificante della manifestazione è la cosa migliore che posso portare a casa, per il momento.
Insieme a questa signora:
Con il suo cartello, trionfante davanti al numero 10 di Downing Street. Noto che molti inglesi commentano che le va riconosciuto del coraggio. Altri parlano con i giornalisti che la circondano e dicono ‘Mi raccomando, mettete solo lei in prima pagina!’. Un signore basso e tarchiato le si avvicina, forse troppo: ‘Io lavoro, pago le tasse, i servizi, sono una persona onesta, perché ti dò fastidio?’. L’accento è dell’Est Europa. La donna non si scompone: ‘Bravissimo, ma perché non vai a farlo nel tuo paese?’. ‘Ma io SONO nel mio paese!!’ – lui le urla in faccia, sbatte i piedi, il suo corpo dice impotenza. Viene allontanato prima che l’impotenza si trasformi in violenza. Sento un tacito accordo crearsi tra gli astanti: la provocazione della signora, la sua presenza, le sue risposte (‘Non capisce che potremmo entrare di nuovo in recessione?’ ‘Scommetto che lei lavora in banca, solo chi lavora in banca si preoccupa della recessione’) risvegliano una voglia primordiale di passare alle mani, di scontrarsi e sfogare la frustrazione fisicamente. Senza il bisogno di dirselo, è chiaro che non si deve cadere in questo errore. Un ragazzo dice ad un altro, in spagnolo: ‘Ci sono troppi giornalisti e polizia’.
Col passare dei giorni l’emotività è calata, e l’attenzione sulla Brexit e sul nuovo governo è stata ridimensionata dalle notizie provenienti da Dhaka, Baghdad, Nizza, Istanbul, Monaco. Rispetto alle difficoltà che l’Europa deve fronteggiare a causa delle forze reazionarie che premono per la sua disgregazione, sia dall’interno che dall’esterno, la Brexit appare come una vicenda ancora più insulare, irrilevante, che in qualche modo verrà risolta. Dovremo abituarci a vedere Boris Johnson in contesti internazionali, accettare che Theresa May negozierà il nostro futuro, consolarci sapendo che almeno Londra è amministrata dal figlio di un migrante che, si spera, parlerà anche per noi.
Rimangono l’incertezza, il senso che gli eventi siano troppo interconnessi e complessi per racchiuderli in una lettura univoca. Il voto di Jeremy, della signora della manifestazione, di tutte le altre persone con cui mi sono incontrata e scontrata direttamente o indirettamente mi appaiono come l’unica base solida per iniziare a riflettere sul mio inconscio politico e su quello della società in cui vivo. Per ora, è difficile capire se ha ragione il fronte dell’anti-austerity, che celebra la Brexit come una vittoria del popolo sui poteri forti, o se si avvereranno le previsioni del mio insegnante di arti marziali, che ha votato Leave per liberare la finanza della City dalle regole imposte dall’Europa.
Tornata a casa il venerdì sera, con BBC iPlayer sullo sfondo, il mio ragazzo mi raccontava che i suoi colleghi indiani avevano votato Leave, con poche eccezioni, nella speranza di intensificare i rapporti commerciali tra UK ed India e di ottenere permessi di soggiorno con più facilità. Ad un certo punto Kesheen, originario di Chennai, gli ha detto: ‘Luca, I really don’t understand why you’re so upset. Nothing is going to change massively in the end’. Luca mi ha detto che non sapeva cosa rispondere, come spiegare l’ideale dell’Unione Europea a chi ne è escluso, o a chi considera l’Europa un mero esperimento economico e per giunta fallito.
Difendere l’Unione Europea e l’idea di europeismo significa non vedere le disuguaglianze e la prevaricazione di alcuni paesi e poteri su altri? Essere ciechi alla criminale ambiguità che condanna migliaia di persone a morire nel Mediterraneo? È semplicemente espressione di un privilegio di classe che scambia i voli low cost e l’Erasmus per un’ideologia? Se la Brexit avrà un effetto positivo, sarà quello di costringere inglesi e non a confrontarsi con queste domande, abbandonare la propria ‘comfort zone’ e riflettere sul proprio senso di appartenenza, decidere se vale la pena impegnarsi per trasformare l’Europa in quello che dovrebbe essere.
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NOTA
Fotografie: La prima fotografia è di G. Biscardi, la seconda e terza sono state scattate alla March for Europe di Londra da Irene Baldoni.
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