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diretto da Romano Luperini

La Grande Guerra in un romanzo per ragazzi. Su Fuori fuoco di Chiara Carminati

È nella cinquina finalista +11 del neonato “Premio Strega ragazze e ragazzi” il romanzo di Chiara Carminati Fuori fuoco, uscito nel 2014 e già vincitore nel corso del 2015 di diversi premi di letteratura per ragazzi, tra cui un riconoscimento speciale della giuria del Premio Andersen (già assegnato nel 2012 proprio a Carminati come miglior autrice).

Mi sono accostata – lo ammetto – con spirito ambivalente al libro: stima per l’autrice, una delle migliori voci poetiche per l’infanzia che ci siano oggi in Italia, e un certo sospetto per la cornice (il libro, pubblicato da Bompiani, è indubbiamente anche un’operazione editoriale nell’ambito delle celebrazioni per l’anniversario della Grande Guerra; non le sono mancati, infatti, promozione e visibilità). Si tratta invece di uno di quei casi in cui le scelte di marketing si sposano felicemente alla qualità e all’originalità dell’opera.

Fuori fuoco è un romanzo per ragazzi, destinato cioè alla fascia d’età che va, approssimativamente, dagli 11 ai 16 anni. Ha un impianto realistico e un’ambientazione storica, sostenuta da ricerche d’archivio e analisi di testimonianze. La vicenda si svolge negli anni della Grande Guerra in un territorio particolare, quello friulano allora diviso fra Regno d’Italia e Impero asburgico. E la guerra è raccontata attraverso occhi altrettanto particolari, quelli femminili e adolescenti di Jolanda detta Jole, tredicenne nel 1914, protagonista e narratrice.

La guerra e la storia familiare

La storia familiare di Jole si intreccia al conflitto fra italiani e austriaci. La prima delle quattro parti in cui è suddiviso il romanzo racconta il ritorno della famiglia di Jole dall’Austria, dove si trovava per lavorare, verso l’Italia, per fermarsi in un territorio di confine e di conflitti, il Friuli: “lui parlava di rientrare in Italia, ma per noi era un’altra cosa. Noi rientravamo in Friuli. L’Italia era un’altra cosa” (p. 10). E se lo scoppio della guerra aveva causato questo primo spostamento, tre anni più tardi, essendo la famiglia “esplosa come una granata, un pezzo qua e un pezzo là” (p. 103), da Martignacco, nel Friuli italiano, Jole si rimetterà di nuovo in viaggio, inoltrandosi verso i territori austriaci, a Grado, per poi rientrare, infine, nel proprio paese occupato dai “nemici”.

La madre della protagonista è originaria di Grado; Jole spiega che “da tanti anni Grado era sotto l’Austria, proprio come Cormons, Gorizia e Trieste” e che “era per riprendersi queste città che adesso l’Italia aveva iniziato la guerra contro l’Austria” (p. 26). Nella sua lotta tutta privata e, insieme, tutta inserita dentro la Storia, Jole arriverà a riprendersi la sua Grado: entrandovi per la prima volta, insieme alla sorellina Mafalda, e conoscendo la nonna materna di cui ignorava l’esistenza, riannoderà i fili della famiglia, spezzati tanti anni prima nella rottura del rapporto tra una madre (Natalia, nonna di Jole) e una figlia (Antonia, madre di Jole).

La nascita contro la guerra

Dalla nonna riconquistata a Grado Jole eredita la professione di ostetrica, che Natalia aveva esercitato per un certo tempo e poi abbandonato per volontà del marito; alla nipote assegnerà allora una funzione di riscatto, pagandole gli studi a Padova perché sia lei a riprendere il cammino interrotto. Jole è particolarmente legata al ramo femminile della famiglia: la madre, a cui somiglia fisicamente, e la nonna, con cui condivide la passione per un’attività che qui assume un forte valore simbolico: l’assistenza al parto, al momento della nascita di una nuova vita – da opporre naturalmente alla distruzione e alla morte portate dalla guerra. A fare da mediatrice dell’incontro con la nonna è Adele, un’anziana levatrice cieca, che a suo tempo aveva insegnato il mestiere a Natalia. La maternità e la nascita sono dunque in primo piano, come risposta propriamente biologica alla guerra. E alla cecità della violenza bellica è contrapposto un ben diverso tipo di cecità, quella della levatrice Adele, così esperta e profondamente in contatto con la vita da saper muovere le mani per aiutare la nascita anche senza la vista.

Struttura circolare e affondi nella storia

La narrazione ha un andamento circolare, con tratti poematici. Ripetizioni e anticipazioni sono alla base della sua architettura. Una medesima immagine, quella della guerra come belva feroce che alita sul collo e graffia le porte delle case per risucchiare via gli uomini, per esempio, ricorre più volte nel corso del romanzo, accanto ad altre, numerose e ben riuscite, similitudini (sapientemente costruite dal punto di vista di Jole). Il destino di ostetrica, rivelato nelle ultime pagine per voce della nonna, era già annunciato nelle parole della sorellina a proposito del parto della gatta (“non comincerà a partorire finché Jole non le mette le mani sulla pancia”) e nella scena in cui Jole scopre la gravidanza dell’asina Modestine (“Me ne sono accorta io, un giorno di primavera che la stavo strigliando al sole, e ho sentito sussultare la pancia sotto la mano”). Nel corso del romanzo si trovano, inoltre, alcuni passaggi di consegne, che disegnano linee di continuità e conferme: è così per la professione della nonna, che si trasmette alla nipote, e per il nome Jolanda, che dalla protagonista passa a una bambina nata in mezzo alla devastazione della guerra.

A livello formale l’elemento di circolarità più vistoso è la ricorrenza, in diversi momenti della storia, del canto del ritornello di una canzone friulana, sempre la stessa, che Jole ricorda a memoria da quando era bambina perché il fratello la cantava per lei. Il canto di questo ritornello funge a sua volta da vero e proprio refrain della narrazione, scandendone le tappe: Jole la canta mentre va ad un appuntamento con Sandro, di cui si innamorerà e che a sua volta canterà il ritornello ricordandolo in un’occasione successiva; e ancora Jole ripeterà il canto nel momento doloroso della separazione dalla madre (arrestata con l’accusa di essere “austriacante”, cioè filoaustriaca), poi durante una fuga da Udine, in seguito all’esplosione di un deposito di munizioni, e come ninna-nanna a due gemellini nati con l’aiuto della nonna Natalia durante lo sconvolgimento provocato dalla disfatta di Caporetto, quando “a vedere i soldati italiani in fuga scappava anche la gente comune, sotto il diluvio insistente, lasciando case e cose, come una valanga che si ingrossa strada facendo” (p.153).

Al giovane lettore vengono offerti, per un verso, un congegno rassicurante, una dimensione circolare e accogliente in cui accomodare senza troppa fatica lo sguardo, e, per un altro, improvvisi squarci sull’orrore della guerra (come la visione, spaventosa e insieme pietosa, del cadavere di un soldato, con gli occhi che “guardavano in alto, riempiendosi di pioggia”, p. 166), sulla falsa retorica patriottica, sulla propaganda e sulla censura (quella, per fare un esempio, che si applica all’episodio dell’esplosione del deposito di munizioni che sconquassa la città di Udine e di cui una Jole incredula non trova notizia nei giornali); tutte aperture critiche sulle storture della storia che costringono il lettore a fare uno sforzo di focalizzazione.

Donne e uomini “fuori fuoco”

Ed è la voce narrante di Jole, dalla sua posizione femminile decentrata e “fuori fuoco”, ad aprire questi punti d’osservazione nitida sull’insensatezza della guerra e sugli inganni della propaganda. A proposito di una lettera dal fronte del fratello, Jole scrive: “era una lettera di Antonio. Diceva che la vita in trincea era dura, ma che il loro spirito di soldati era mantenuto alto dalla coscienza di essere uomini valorosi e fedeli alla Patria”, e commenta: “per lui la guerra era come una di quelle foto in cui c’è un soggetto in primo piano, bene a fuoco, e tante altre cose sullo sfondo: a fuoco lui vedeva le battaglie, i comandanti, il nemico, il coraggio, la gloria. Noi eravamo lo sfondo, fuori fuoco, sfumati, quasi invisibili” (p. 100). Ma proprio la posizione “fuori fuoco” delle donne lontane dal fronte permette a Jole un punto di vista critico sulla storia. Alle parole intrise di retorica patriottica che legge nella lettera del fratello (“la vittoria è vicina, così come il nostro ritorno glorioso alla pace delle nostre case e al seno delle nostre famiglie”) può dunque reagire così: “d’istinto ho guardato verso il piazzale alle mie spalle. Se continuava così, la casa e la famiglia in cui tornare mio fratello Antonio avrebbe dovuto disegnarsele da solo.”

“La guerra la fanno gli uomini ma la perdono le donne”, spiega all’inizio del romanzo la madre a Jole. Alla fine, tuttavia, sono i personaggi femminili ad uscire vittoriosi: se gli uomini che combattono da una parte e dall’altra finiscono con l’assomigliarsi nel loro comune abbrutimento (“Era una bestia tedesca?” chiede la sorellina Mafalda a proposito di un soldato tedesco, e conclude: “Assomigliava molto alle bestie italiane”, p. 171), Jole, durante l’esperienza di una guerra vissuta “fuori fuoco”, scioglie le matasse intrigate della famiglia e arriva alle radici della propria identità, conquistando un punto di vista disincantato sul mondo e consapevole di sé.

Immagini “fuori fuoco” e immaginazione del lettore

Alla fine del romanzo riappare il ritornello che ha scandito la storia di Jole, a sigillare la conclusione, con il ritorno di Sandro dalla guerra e la riunione tra i due. È da notare che in questo caso (l’unico) il ritornello è incluso nella didascalia della tredicesima immagine fuori fuoco, che di fatto chiude il libro. Sui tredici fuori fuoco che accompagnano la narrazione vale la pena spendere qualche parola. Si tratta di simulacri di fotografie: tredici tavole in grigio scuro accompagnate da minuziose didascalie, che contestualizzano, datano, descrivono e raccontano ciò che accade nell’immagine assente. Ogni volta la didascalia segnala la presenza di un elemento fuori fuoco, solitamente una figura femminile, salvo che nell’ultima: a non risultare a fuoco, questa volta, è un personaggio maschile, mentre – guarda caso – torna dalla guerra.

Più che illustrare (a parole) la storia, i fuori fuoco inseriscono una seconda trama, che scorre parallela alla prima invitando il lettore a un ruolo attivo di collegamento tra l’una e l’altra didascalia, oltre che tra le didascalie e la storia che scorre nelle pagine del romanzo. Ma il dato di maggior interesse e originalità sta nel fatto che questa scelta propone e, anzi, impone un percorso invertito rispetto alla consuetudine dei libri per bambini e ragazzi: l’elemento prioritario non è un’immagine predefinita, preconfezionata, stabilita a priori uguale per tutti i lettori; al contrario il punto da cui partire sono le parole delle didascalie. In tal modo il giovane lettore è stimolato a tracciare idealmente i contorni delle figure, a comporre l’immagine nella propria mente, a dare insomma una propria consistenza alle parole, attivando la propria capacità immaginativa, rivitalizzando la propria creatività e scoprendo (forse), per questa via, che esistono delle alternative alla realtà data e che si può arrivare a formulare ipotesi di cambiamento, attraverso la lettura di un romanzo calato a fondo dentro la realtà storica.

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