Donna Marcella. Un racconto di Laura Pariani
Laura Pariani ama riempire con la sua scrittura i vuoti della storia, dando voce ai vinti e agli offesi. Emigranti ed esiliati, donne accusate di stregoneria, indios oppressi e perseguitati, vite spezzate dalla violenza: le sue opere sono popolate da un’umanità ferita e raccontano vicende «ai margini della storia ufficiale, frammenti, brandelli di storie dimenticate e vaghe». Per la scrittrice lombarda la letteratura è infatti una forma di memoria e di riscatto. Protagonisti dei suoi ultimi romanzi sono grandi scrittori come Dostoevskij (in Nostra Signora degli scorpioni, steso con Nicola Fantini, Sellerio 2014) e Dino Campana (Questo viaggio chiamavamo amore, Einaudi 2015), che interessano alla Pariani proprio in quanto “diversi”. In questo racconto, invece, Laura Pariani si misura con un personaggio di romanzo: Donna Marcella, la straordinaria figura femminile che fa la sua apparizione nella Prima Parte del Don Chisciotte di Cervantes.
Donna Marcella
Tre scene
L’amore, assoluto e straordinario, per una donna è il meccanismo che muove la vicenda di Don Chisciotte della Mancia. Ma nel romanzo di Cervantes, oltre alla figura di Dulcinea del Toboso, c’è una lunga catena di personaggi femminili indimenticabili. Tra loro, è Marcella quella che da sempre preferisco: ché in una letteratura avara di donne forti e positive, in un’epoca in cui le donne erano rappresentate come recipienti delimitati dall’unico confine possibile della virilità, Marcella, la bellissima, «la figlia di Guglielmo il ricco: quella che se ne va in abito da pastora per questi luoghi deserti», è un ritratto moderno; e, soprattutto, è la donna che, per profondità del sognare, più assomiglia a Don Chisciotte (si trova ai capitoli 12-14 della Prima parte).
All’inizio c’è un patio di una casa elegante. Un bellimbusto con gesto galante si sta levando il cappello davanti a donna Marcella e spazzola il suolo con la copertura di piume, in una riverenza in piena regola. La voce dell’uomo è sovreccitata, quasi furiosa: «La vostra bellezza mi ha stregato, señora»; una sonorità minacciosa sottolinea quel vocativo continuamente ripetuto, quel señora che rimbalza provocatorio nell’aria notturna del patio. Pacata e severa risponde la voce di donna Marcella: «Don Crisostomo, la bellezza in donna onesta è come fuoco acceso discosto o spada aguzza; quello non brucia né questa ferisce chi non vi si avvicina… l’amore deve essere spontaneo e non già costretto…».
Il discorso dell’uomo si alza però di tono. Un delirio di dichiarazioni a riguardo del piccolo neo settebellezze che la padrona di casa ha sul labbro destro; ché sicuramente – dice il sedicente conte, e quasi grida – deve essercene un altro ugualmente bello nel più occulto e saporoso della natura di femmina di donna Marcella. Don Crisostomo giura che ne coglierà il frutto: «Por los cojones de Satanás, señora, non mi liquiderete stavolta con le vostre moine!». Poi le minacce: se entro una settimana lei non avrà ceduto, la denuncerà davanti al tribunale della Santa Inquisizione come strega ammaliatrice… Una sospensiva crudele. Un colpo di porta sbattuta, dei passi nella via deserta.
Donna Marcella si siede sul bordo del fontanino al centro del patio, chiude gli occhi, parla a nessuno – a noi? – con aria abbattuta, la voce le trema di indignazione:
L’avete sentito, quel conquistatore di vergini? Se si nasce femmina, e oltretutto bella, avere un progetto diverso dal matrimonio è disdicevole, quasi indecente. Una donna che non si squaglia davanti alle braghette di un ometto che proclama di amarla è un’oscena anomalia: si può insultarla impunemente, minacciarla, portarla davanti a un Inquisitore. Ché una donna che non è di nessun uomo, è nessuno. Ma io non mi sposerò mai, e non mi batterò il petto né mi morderò la lingua per quello che sto dicendo. Muérdase el diablo, se vuole.
Nella seconda scena avviene l’inaudito. Donna Marcella fa ciò che nessuna giovane della sua condizione ha mai fatto. Si alza, lenta e determinata; poi, senza prendere con sé nulla, neanche uno scialle, esce di casa, diretta al monte. I piedi si muovono per istinto a passetti brevi, nelle scarpe impolverate. Sulle labbra inalbera il sorriso chiuso degli oltraggiati, di fronte al quale chi la incontra è costretto a chinare lo sguardo. Cammina a occhi chiusi, i piedi sanno la strada. La foresta si spalanca davanti a lei come unico avvenire possibile.
Quando si ritrova sola nel folto nero, il sorriso si spegne; il viso pallidissimo pare assorto. Comunque continua a camminare, come dentro il rigore di un sogno. Forse avverte che tutte le donne, le deluse le offese le perseguitate, al suo passaggio sorgono dalla terra dove riposano i loro desideri divenuti polvere, e la seguono in silenzio.
E donna Marcella, tornata bambina sognante, avanza con loro. Cammina cammina, con un cane al fianco e un bastone in mano, nei prati sotto la luna.
Nella terza scena, sono passati anni, quello che gli uomini chiamano tempo, ma per Marcella, che ha scelto la foresta come sua casa, il tempo non esiste più. La ricca veste è diventata ruvida e sbrindellata, la pelle del volto esposta a sole pioggia e venti si è fatta scura, coprendosi di piccole rughe intorno agli occhi e alle labbra.
Mi piace pensare che Miguel de Cervantes la incontri in una delle sue peregrinazioni per la Spagna, mentre requisisce grano e bestiame per la Corona – Philippi II iussu et auctoritate – nel periodo in cui lavora come addetto al reperimento di fondi per l’Armada. Ascolta la storia di Marcella in silenzio. Per uno come lui, che fin da piccolo si è sentito deridere per i vestiti rammendati e la professione del padre, barbiere chirurgo, i colpi della malasorte sono pane di tutti i giorni. Uno come lui, che ha assaggiato più di una volta la sbobba che i conventi danno in elemosina, che ha perso in guerra l’uso di una mano ed è rimasto a lungo in prigione a Algeri, mentre i suoi compagni venivano riscattati dai frati Trinitari… uno come lui è sempre stato pronto a cambiare aria, se gli capitava un giro di cattive carte. Ma che una señora, abituata a una vita di agi, abbandoni tutto e scelga di fare la pastora gli pare un’enormità.
«Forse – si azzarda a dire -, accettare il matrimonio con quel tal Grisostomo sarebbe stato un male minore: voi almeno avreste conservato i vostri beni; ché, anche sposata a qualsisìa, l’indipendenza della testa non poteva togliervela nessuno. Facendo un po’ di conti, tra il dare e l’avere, probabilmente…» si ingarbuglia un po’ con le parole, il sorriso misterioso della donna che ha di fronte gli incute una certa soggezione.
«Probabilmente – dice Marcella -, se il buon Dio fosse un commerciante che bada alla partita del dare e dell’avere, potreste aver ragione voi; ma siccome io credo sia un pastore, e magari anche qualcosa di più, non si sorprenderà della mia scelta».
La conversazione è finita. La pastora si allontana. A guardarla da qui, ritta in cima alla montagna, col bastone in mano, il mantello di lana gonfiato dal vento, sembra una regina solitaria che, come il Cavaliere dalla Triste Figura, conosce il linguaggio delle bestie, delle nuvole e di Dio.
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