Il castello
PISA (acronimo per Programme for International Student Assessment) è un’indagine internazionale promossa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) con periodicità triennale, per accertare competenze giudicate essenziali nei quindicenni scolarizzati. L’attenzione non si focalizza tanto sulla padronanza di specifici contenuti curricolari, quanto piuttosto sulla capacità degli studenti di utilizzare competenze acquisite durante gli anni di scuola per affrontare e risolvere problemi e compiti che si incontrano nella vita quotidiana e per continuare ad apprendere in futuro (lifelong learning). Gli ambiti dell’indagine PISA sono lettura (comprensione del testo), matematica e scienze. Ogni ciclo dell’indagine rileva le competenze in tutti e tre gli ambiti ma ne approfondisce uno in particolare; nel sesto ciclo (PISA 2015) l’ambito principale saranno nuovamente le scienze; si aggiungerà la misurazione del cosiddetto problem solving collaborativo e la somministrazione sarà informatizzata.
L’Italia partecipa a PISA 2015 aderendo anche ad alcune opzioni ulteriori, tra cui particolarmente significativa ai fini del nostro ragionamento appare la rilevazione delle competenze in ambito finanziario, la cosiddetta financial literacy, con prove che «forniscono informazioni su conoscenze e capacità di comprensione di concetti di carattere finanziario e su abilità, motivazione e fiducia nei propri mezzi che consentono di applicare quelle stesse conoscenze per prendere decisioni efficaci in diversi contesti di carattere finanziario, per migliorare il benessere finanziario degli individui e della società e per consentire una partecipazione consapevole alla vita economica» [1]. A realizzare il progetto PISA è un consorzio internazionale, incaricato di garantirne la realizzazione a livello tecnico e operativo, il coordinamento e la vigilanza sulle procedure. Tra i partner un ruolo consistente lo svolge la casa editrice Pearson, leader mondiale nell’editoria scolastica e nei servizi didattici multimediali, incaricata di realizzare i quadri di riferimento.
Dal 2000, un numero sempre crescente di nazioni ha partecipato alle rilevazioni. L’indagine è stata effettuata in 43 paesi nella prima valutazione nel 2000. Nel 2012 sono stati 66, di cui solo 34 appartenenti all’area OCSE. Le prove hanno come destinatari fra i 4.500 e i 10.000 allievi in ogni paese. E’ evidente che l’assunzione nell’attività dell’OCSE di una logica di globalizzazione ha determinato la composizione monodimensionale di modelli educativi tanto lontani fra loro. A sancire la nascita dell’interesse di un’organizzazione economica internazionale come l’OCSE nei confronti dei sistemi di istruzione è il rapporto intitolato “Educazione e competenza in Europa” pubblicato alla fine del 1989 dall’ERT, la Tavola Rotonda Europea degli industriali, potente gruppo di pressione che accompagna l’analisi delle politiche europee a raccomandazioni e pareri coerenti con gli obiettivi strategici della grande industria [2]. Questo rapporto sarà il primo di una lunga serie di documenti volti ad affermare «l’importanza strategica vitale della formazione e dell’educazione per la competitività europea» e a perorare «un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi». In particolare vi si legge che «l’industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti», e che gli insegnanti hanno «una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto», che «non comprendono i bisogni dell’industria» (ERT 1989). La lobby suggerisce di «moltiplicare i partenariati tra le scuole e le imprese», invita gli industriali a «prender parte attiva allo sforzo educativo» e chiede ai responsabili politici «di coinvolgere le industrie nelle discussioni concernenti l’educazione» (ERT 1995). La Tavola Rotonda rimprovera anche che «nella maggior parte d’Europa, le scuole siano integrate in un sistema pubblico centralizzato, gestito da una burocrazia che rallenta la loro evoluzione o le rende impermeabili alle domande di cambiamento provenienti dall’esterno» (ERT 1995). I datori reclamano dei lavoratori «autonomi, in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide» (ERT 1995).
Nel 1992, l’articolo 126 del Trattato di Maastricht accorda per la prima volta alla Commissione Europea competenze in materia di insegnamento, poi ratificate al summit di Lisbona 2000 e confluite nel progetto “e-Learning”, volto ad imprimere un’accelerazione dell’evoluzione dei sistemi educativi e formativi. Con i contributi degli Stati membri, la Commissione pubblica, a fine gennaio 2001, il testo strategico «I futuri obiettivi concreti dei sistemi di educazione» (CCE 2001), che propone come obiettivo principale per l’Europa «diventare l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura» attraverso la diversificazione, la flessibilità e la deregolamentazione dei sistemi di istruzione e formazione. A partire dagli anni Novanta, l’Unione Europea stimola e sostiene quindi le iniziative nazionali volte a “deregolamentare” i sistemi d’insegnamento, a innestare nella scuola pubblica, gestita centralmente, livelli di gestione autonomi e in situazione di forte concorrenza reciproca, più “adatti” alle nuove richieste del mercato del lavoro globale e più agili nelle forme di partenariato pubblico-privato. «Gli istituti scolastici, i centri di formazione e le università dovrebbero essere aperti sul mondo: è opportuno assicurare i loro legami con l’ambiente locale, con le imprese e con i datori di lavoro in particolare, per migliorare la comprensione dei bisogni di questi ultimi» (CCE 2001).
Rapidità dei cambiamenti del mercato del lavoro, basso livello di qualificazione formativa e occupazionale, arretramento dello Stato dai servizi pubblici e “defiscalizzazione competitiva” in favore delle imprese private: sull’altare della competizione economica globale si celebra oggi la revisione delle politiche educative del mondo contemporaneo, post-umano, e non solo, semplicemente, post-moderno. Come è stato detto, flessibilità dei lavoratori ma anche flessibilità della scuola. I sistemi educativi organizzati e finanziati completamente dallo Stato sono giudicati troppo rigidi, rallentati dalla burocrazia, impermeabili al “nuovo che avanza”, «per permettere al corpo docente di adattarsi agli indispensabili cambiamenti richiesti dal rapido sviluppo tecnologico moderno e dalle ristrutturazioni industriali e terziarie» (ERT 1989). Il dogma è che l’avvenire economico dell’Europa dipende dalla sua capacità di crescita nel campo della “cultura informatica”, del commercio elettronico, dello sviluppo di imprese nei settori dell’high tech, della comunicazione e del multimediale. A partire da questo presupposto si afferma che occorre prima di tutto coniugare in Europa cultura informatica e spirito d’impresa.
L’insegnamento deve diventare «insegnamento di mercato», l’educazione un dominio rilevante del settore «for profit». Ecco dunque spiegata l’esigenza, non disinteressata, del lifelong learning: l’apprendimento in contesti extrascolastici (in Italia, la didattica non formale o informale propugnata da Luigi Berlinguer) implica la liberalizzazione del mercato delle offerte educative più innovative rispetto al monopolio statale dell’istruzione scolastica. In questa visione economicistica di educazione e formazione, nonché, come vediamo, dell’organizzazione scolastica [3], rientra a pieno titolo la spinta all’uso degli strumenti multimediali, la riduzione degli investimenti pubblici a meri catalizzatori degli investimenti privati, la deregolamentazione dei sistemi di insegnamento pubblico tradizionale e la loro curvatura sui bisogni dell’utenza, attraverso l’adozione di iniziative concorrenziali e di forme di autonomia imposte in tutta Europa con processi top-down; infine, l’incremento delle attività di partenariato con le imprese. Non stupisce che la ministra Giannini, durante l’inaugurazione dell’a.a. all’università di Perugia, abbia lanciato il Job Education Act, auspicando un’interazione ancora più forte tra mondo dell’istruzione e industria: «Ho già avuto più incontri con il ministro del lavoro Poletti e Ivan Lo Bello di Confindustria – ha precisato – per costruire un’agenda che vada in questa direzione» [4].
Le crepe
A minare le fondamenta del castello OCSE PISA cominciano tuttavia a circolare numerosi studi che mettono in dubbio la solidità dei test, alimentando il dibattito scientifico e suscitando l’interesse dei media proprio in merito alla validità del modello statistico utilizzato, la cui inadeguatezza renderebbe inaffidabili i ranking internazionali [5]. Nel maggio scorso 83 accademici e ricercatori di tutto il mondo hanno firmato e inviato al direttore Andreas Schleicher una lettera che contesta la validità pedagogica e conoscitiva dei test PISA. Eccone alcuni stralci, tra i più significativi:
(…) i risultati dei test sono attesi con ansia da governi, ministri dell’educazione, editorialisti di quotidiani e sono citati come autorevoli in innumerevoli rapporti politici. Hanno cominciato a influenzare profondamente le pratiche educative di molti paesi. Proprio per questi risultati, i paesi stanno rimettendo a punto i loro sistemi educativi nella speranza di migliorare i loro punteggi.
(…) PISA ha contribuito a una escalation di questa tipologia di prove (…) Per esempio, negli USA, è stata usata per giustificare il programma “Race to the top”, un sistema di valutazione di studenti, insegnanti e amministratori basata su test standardizzati che comporta una valutazione, una graduatoria e l’etichettatura di tutti coloro che vi sono stati sottoposti con test ampiamente riconosciuti come imperfetti [6].
Nell’ambito della politica educativa, PISA, con il suo ciclo triennale, ha causato uno spostamento dell’attenzione su soluzioni rimediate e immediate, pensate solo per aiutare un paese ad aumentare rapidamente il livello di punteggio, nonostante la ricerca dica che cambiamenti durevoli nella pratica educativa richiedano decenni, non pochi anni per essere fruiti. Per esempio, sappiamo che lo status degli insegnanti e il prestigio dell’insegnamento come professione hanno una forte influenza sulla qualità dell’istruzione, ma questo status varia fortemente tra le culture e non è facilmente influenzato da politiche di breve termine.
Enfatizzando un ristretto spettro di aspetti misurabili dell’educazione, PISA distoglie l’attenzione dai meno misurabili o non misurabili obiettivi educativi che sono lo sviluppo fisico, morale, civico e artistico, restringendo pericolosamente la nostra immagine collettiva di che cos’è e cosa dovrebbe essere l’educazione. Come organizzazione di sviluppo economico, l’OCSE è naturalmente influenzata dalla dimensione economica delle scuole pubbliche, ma preparare giovani uomini e donne a un lavoro redditizio non è il solo e nemmeno il principale obiettivo dell’educazione pubblica, che ha il compito di preparare gli studenti alla partecipazione a forme di autonomia democratica, all’azione morale e a una vita di sviluppo personale, crescita e benessere. A differenza delle organizzazioni ONU come UNESCO e UNICEF, che hanno mandati chiari e legittimi di migliorare l’educazione e la vita dei bambini del mondo, l’OCSE non ha nessun mandato. Né ci sono al momento meccanismi di effettiva partecipazione democratica nella formulazione del suo progetto.
Per attuare PISA e una quantità di servizi di follow up, PISA ha abbracciato il partenariato pubblico-privato ed è entrato in alleanza con compagnie multinazionali con fini di lucro che sono pronte ad ottenere un beneficio economico da ogni deficit (reale o percepito) che i test svelano. Alcune di queste compagnie forniscono servizi educativi a caro prezzo a scuole americane e a distretti scolastici e stanno progettando di introdurre, a fini di lucro, il programma PISA in Africa relativamente all’educazione elementare. Infine, e soprattutto, PISA con il suo continuo ciclo di test globali, danneggia i nostri figli e impoverisce le nostre classi dal momento che inevitabilmente implica sempre più lunghe e numerose batterie di test a soluzione multipla, più lezioni preparate ad hoc da venditori specializzati e minore autonomia degli insegnanti.
Questa situazione è in aperto conflitto con i seguenti principi, accettati ovunque, della buona pratica educativa: 1) nessuna riforma importante dovrebbe basarsi su una singola e ristretta misura quantitativa; 2) nessuna riforma importante dovrebbe ignorare l’importanza di fattori non educativi, tra i quali, come primo esempio, mettiamo l’ineguaglianza socio-economica. In molti paesi, inclusi gli USA, la disuguaglianza è drammaticamente cresciuta negli ultimi 15 anni, aumentando il gap educativo tra ricchi e poveri che nessuna riforma educativa, non importa quanto sofisticata, riuscirà a invertire.
Dopo aver sottolineato l’impossibilità di comparare gli esiti di apprendimento di studenti afferenti a contesti scolastici e culturali profondamente diversi, gli autori sottolineano la necessità della partecipazione di genitori, educatori, studenti ma anche antropologi, sociologi, storici, filosofi, linguisti, studiosi di arte e letteratura al confronto su cosa e come valutiamo l’educazione degli studenti quindicenni, anche in considerazione di indici che si occupino di salute, crescita umana, benessere, felicità di studenti e insegnanti. Chiedono che vengano pubblicati i costi diretti e indiretti della somministrazione dei test PISA, in modo che coloro che pagano le tasse possano valutare modi alternativi di usare i milioni di dollari spesi per questi test e determinare se vogliono continuare a partecipare. Chiedono infine che si avvii una moratoria di questo tsunami valutativo che permetta lo svolgimento di un dibattito relativo alla necessità di porre dei limiti agli obiettivi OCSE di politica educativa globale.
Nel frattempo, mentre in Italia si realizza un costante e progressivo disinvestimento nella scuola, che oggi ci colloca al terzultimo posto nelle classifiche europee con il 4,6% di spesa del Pil contro la media del 6% degli altri paesi (con uno scarto dell’1,4%, pari a circa 22 miliardi di euro), non possiamo non sottolineare la totale sovrapponibilità delle criticità tra OCSE PISA e le rilevazioni nazionali INVALSI, sistemi tra loro non perfettamente coincidenti (la popolazione dell’indagine internazionale corrisponde al 75% a quella del nostro SNV, la prima è campionaria, la seconda censuaria), ma assai vicini nel metodo (entrambi utilizzano il modello di Rash, fortemente criticato in Italia e all’estero [7]) e nel merito (prove strutturate standardizzate). E a denunciare queste criticità non siamo noi, fanatici, ideologici, difensori del valore della complessità, ostili ad ogni forma di riduzionismo deterministico dell’apprendimento a rapporti di causa-effetto, a processi etologici di stimolo-risposta, e che, dopo anni di studio, di analisi, di confronto scientifico e di riflessione critica ci portano a ritenere che i test INVALSI misurano semplicemente l’abilità di rispondere ai test INVALSI: nel documento inviato al ministro Profumo nel 2012 dai presidenti delle 4 associazioni di linguistica italiana, fortemente critico rispetto «all’utilizzo della metodologia bibliometrica nella valutazione dei risultati della ricerca scientifica», si sottolinea che una prassi valutatoria di natura esclusivamente quantitativa «è fonte di pericolose distorsioni» e che «la pratica valutatoria generale (…) debba basarsi su criteri rigorosamente qualitativi». Firmato Stefania Giannini [8].
Concludo con le parole della rettrice di Harvard, Drew Faust, che in un recente articolo, pubblicato in «The New York Times Book Review», in cui si chiede se il modello del mercato sia ormai divenuto il parametro fondamentale dell’istruzione, così conclude: «L’istruzione superiore può offrire agli individui e alle società un’ampiezza e profondità di visione che non esiste nella miope contemplazione del presente. Gli esseri umani hanno bisogno di sentimento, comprensione e prospettiva almeno tanto quanto di lavoro. Il problema non è se, di questi tempi, possiamo permetterci di credere in questi obiettivi, ma se possiamo permetterci di non crederci» [9].
________
NOTE
[1] Fascicolo “Prove sul campo”, a cura di Invalsi, febbraio 2014.
[2] Per un’analisi puntuale dei documenti citati si rinvia alla lettura di N. Hirtt, “L’Europa, la scuola e il profitto. Nascita di una politica educativa comune in Europa”, in Educazione&Scuola, febbraio 2014 e al volume del CESP, I test Invalsi. Contributi per una lettura critica, 2013.
[3] E’ impressionante, a questo proposito, la totale acquisizione del modello aziendalistico nel disegno di legge di riforma della scuola proposto dal Governo Renzi e attualmente in discussione in Parlamento.
[4] Adnkronos, 9 aprile 2014
[5] G. De Nicolao, «Fondamentalmente errati? I dubbi della BBC sui test OCSE PISA», Roars, 12 maggio 2014. Vi si legge che Svend Kreiner (Università della Danimarca) ha provato a quantificare gli effetti di queste “sbavature”: la posizione del Regno Unito nel “reading test” 2006 oscillerebbe tra 14 e 30, quella della Danimarca tra 5 e 37, quella del Canada tra 2 e 25 e quella del Giappone tra 8 e 40.
[6] OECD and Pisa Tests are damaging education worldwide, in «The Guardian», 6 maggio 2014, traduzione in italiano a cura di Rosella Santini.
[7] Ray Adams, Comments on Kreiner 2011: Is the foundation under PISA solid? A critical look at the scaling model underlying international comparisons of student attainment, oecd.org, 19 aprile 2011. Per ulteriori approfondimenti in italiano, si vedano gli studi fondamentali di Giorgio Israel e di Enrico Rogora, reperibili in rete.
[8] Documento delle quattro associazioni di linguistica (AItLA, DiLLE, SIG, SLI) su VQR e abilitazioni nazionali, Firenze 25 ottobre 2012
[9] Cfr. Martha C. Nussbaum, Non per profitto, Il Mulino, Bologna 2011.
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