Accompagnare la madre. Recensione a L’invenzione della madre di Marco Peano
C’è una donna, di solito, che si muove accorta e delicata attorno al letto di chi è malato e morente: una moglie, una madre, una sorella, una figlia. Anche un’amica può essere ammessa a questa “corte” speciale. Di fatto a una donna, di solito, viene demandato il compito di accompagnare – per il tempo più o meno lungo che resta – chi ha avuto la malasorte di incappare, in famiglia, in un errore genetico, in un cumulo di cellule impazzite o in malattie degenerative: in un “brutto male”, insomma, come la gente più spesso lo definisce con gravità e compostezza nelle confidenze di paese o di quartiere.
Ma in L’invenzione della madre, libro d’esordio di Marco Peano (Roma, Minimum Fax, 2015, pp. 252, 14 Euro), il solito, scontato copione cui la questione (sempre aperta) dei generi ci ha abituati si rovescia e sono due uomini a vegliare sulla donna dai mesi contati (dieci, al massimo dodici, sentenziano i medici): nonostante lei abbia un’anziana madre «un po’ acciaccata ma ancora lucida», nonostante una badante a ore compaia al suo fianco nell’ultimo periodo della sua esistenza, sono il marito e il figlio a accudirla e a accompagnarla con una tenerezza devota e una disperazione silenziosa fino all’ultimo passo, imbevendosi di ogni momento da passare con lei che la vita regala loro.
Il romanzo è narrato in terza persona ma è incentrato sul punto di vista di Mattia, il figlio; l’autore scandisce la vicenda in tre sezioni temporali rispettivamente denominate Mattia (l’anno prima); Mentre (alcune notti di gennaio); Madre (l’anno dopo). Ognuna di queste parti – l’attesa, la morte, l’elaborazione del lutto – è articolata in brevi capitoli a loro volta accuratamente titolati. Quest’ultimi, dall’andamento narrativo, sono punteggiati da frequenti parentesi che custodiscono brevi aneddoti, inserti di natura riflessiva, memoriale, o saggistica elaborati da Mattia, intento non solo a farsi una ragione della perdita della madre ma a trovare il modo per reinventarla, per donarle una sorta di seconda vita, eterea ma “naturale”, come leggiamo verso la fine del romanzo in una di queste “oasi meditative”:
(Da qualche parte procede una linea temporale dove lei continua a vivere, dove loro due esistono ancora come madre e figlio. Ma non è un pensiero consolatorio. Perché questa vicinanza di spirito – che c’è, deve esistere, Mattia ne è convinto: se due persone sono state legate in vita qualcosa dovranno aver smosso nell’ordine del cosmo – lo costringe a domandarsi a quante di queste unioni lui non abbia accesso) (p.241).
La storia che Peano ripercorre prende avvio quando padre e figlio ormai sanno dell’inesorabilità della malattia: la festa che allestiscono per accogliere il ritorno della madre dall’ospedale ha in sé già il sapore della sconfitta e della pia illusione, della recita approntata appositamente per lei (non è un caso che l’assetto dell’abitazione sia stata modificato, che la dependance adiacente alla casa dove Mattia ha vissuto le sue feste di adolescente, sia diventata il luogo ricreato ad hoc per accogliere la donna). Da qui l’autore alterna, nella ricostruzione interiore di Mattia, il racconto del progredire del male con i flashback con cui rivede i precedenti nove anni di sofferenza, di speranza, di interventi chirurgici, di riprese, di lotta contro il cancro che la donna e i suoi familiari hanno condiviso.
Se il lettore ha avuto modo di vivere un’esperienza simile a quella narrata, scatta un immediato processo di identificazione in cui a prevalere sono il senso di dignità e l’amore tenace per chi perde, giorno dopo giorno, capacità motorie, percettive, intellettive un tempo prodotte in modo spontaneo e naturale da un corpo trasformatosi in «un tappeto di nervi ipersensibili» (p.137). Inoltre, e in questo sta il pregio del libro di Peano, l’immedesimazione che il giovane autore provoca non si risolve nell’immersione patetica in un dolore cupo e senza speranza ma, piuttosto, nella capacità di mettere, giorno dopo giorno, dei tasselli che, anche in absentia, saranno in grado di mantenere vivo il legame tra madre e figlio, di garantirgli, fissato nella memoria di momenti, oggetti, luoghi condivisi, quella durata oltre la morte che è l’unica garanzia di labile eternità concessa a noi uomini:
Ogni giorno, col pensiero, Mattia inventa per sua madre nuove vite: lui che da lei è nato, lui che da lei è stato inventato, la fa costantemente rinascere perché possa continuare a esistere, almeno nell’invenzione. Perchè sa bene che quando anche il padre non ci sarà più, e quando Mattia stesso non ci sarà più, nessuno potrà ricordare ciò che lei è stata. (p. 149)
La vita di Mattia – dietro la quale non è difficile intuire riflessi autobiografici dell’autore – scorre accanto a quella della madre per i suoi ultimi dodici mesi: c’è la relazione solidale con il padre nell’affrontare la progressione della malattia («Ed è con rinnovata, improvvisa complicità, che padre e figlio la sera si ritrovano a preparare insieme un minestrone. […] Mentre la pentola a pressione bolle sul fuoco, Mattia prepara due Martini. Brindano a chissà che cosa e si sorridono, i due uomini – sanno che per non crollare devono restare uniti», pp. 134-135); c’è il rapporto d’amore, che a poco a poco sfiorisce e si esaurisce, con la fidanzata, di cui non viene mai pronunciato il nome (come del resto succede agli altri personaggi, padre compreso); c’è il sogno di Mattia di poter lavorare nel mondo del cinema; c’è la laurea al DAMS congelata in un file incompiuto titolato Tesi.doc; c’è il suo lavoro – spesso noioso, di certo poco gratificante – nella videoteca di un paese vicino al suo, dove Mattia noleggia DVD a utenti di cui cerca di indovinare i gusti personali. Che sia un esperto in materia è chiaro dalla grandissima quantità di film che cita nel corso della vicenda, a suggellare momenti, felici o dolorosi, ma comunque degni di essere fissati a mente:
Lei gridava, e Mattia si domandava se tutta quella sofferenza fosse necessaria, si domandava se quella belva calva schiumante di rabbia fosse davvero la persona che lui aveva tanto amato e dalla quale era stato amato, se lì dentro ci fosse lei o la malattia: proprio come nel film di fantascienza che da ragazzino non si stancava di rivedere (una delle scene più paurose dell’Invasione degli ultracorpi di Don Siegel è quando il bambino si ostina nel dire che quella non è sua madre). Si domandava, Mattia, se il cancro l’avesse sostituita. (p. 179)
E’ lì, nella videoteca, a pochi minuti dalla chiusura, quando le saracinesche si abbassano e il grossolano proprietario del negozio è lontano a bere aperitivi con gli amici, che, finché la madre è ancora in vita, Mattia cerca di ritrovarla: tira fuori le videocassette di famiglia e ne riguarda in solitudine gli spezzoni in cui la donna, sana e spensierata, lo ha accompagnato negli anni d’infanzia. Eppure Mattia intuisce che non è questo il modo per “reinventarla”. A dieci mesi dalla morte di lei, saranno queste stesse videocassette a “riportarla a casa”: in un freddo pomeriggio il ragazzo estrae il nastro, si reca al cimitero e, assicuratone un capo al lumino della tomba, lascia che la pellicola si svolga dal camposanto a casa, serpeggiando per le vie del paese, «facendo al contrario lo stesso percorso che il corteo funebre aveva compiuto con la bara. […] Mai nessuno è tornato dal cimitero, si dice spesso. Eccetto sua madre» (p.229). Si tratta di in un gesto liberatorio rispetto al passato: nell’atto stesso di sbobinarli, quei nastri di “polietilene tereftalato” smettono di essere simulacro digitale della realtà e dei corpi e divengono filo d’arianna e cordone ombelicale: se il nastro contiene le immagini di sua madre sana, allora quella pellicola può farsi incarnazione concreta della donna.
E’ con un lungo, paziente e doloroso processo di accettazione della malattia e di elaborazione del lutto che Mattia reinventa la madre per sé, ma anche per noi lettori: riconfermando ancora una volta il potere terapeutico della scrittura, con uno stile asciutto, forse a tratti ancora ingenuo, conosciamo, finalmente, la forza d’animo e la dignità di due uomini – Marco/Mattia e suo padre, cui il libro è dedicato – che non si sono sottratti al gesto d’amore di “accompagnare” colei che per loro è stata rispettivamente madre e compagna.
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