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Su “La ferocia” di Nicola Lagioia

In questi mesi Nicola Lagioia si sta spostando da nord a sud Italia per presentare il suo ultimo romanzo, La ferocia (Einaudi, Torino, 2014), già recensito da Federica Ditadi su questo blog. Un ciclo di conferenze e presentazioni, ma anche una vera e propria tournée, che sta coinvolgendo centri e periferie. Nonostante la generosità del suo autore, il prestigio della veste editoriale e molte recensioni elogiative (una delle migliori, per stile e argomentazioni, è pubblicata su «404: file not found» a firma di Costantino, Impellizzeri, Mongelli, Panichi) questa recensione non sarà né entusiastica né particolarmente positiva.

Il romanzo si concentra sul fallimento di due generazioni, lette attraverso la storia della famiglia Salvemini di Bari: è, come scrivono gli autori di «404», una «epopea borghese travestita da noir», un testo con i tratti della detective story ma che guarda anche al romanzo storico. Il personaggio attorno a cui ruota ossessivamente la scrittura è Clara, figlia di Vittorio e Annamaria Salvemini, che muore nelle prime scene, ma ritorna come un trauma costante nelle vite di tutti i familiari. La ferocia si apre sulla strada provinciale Bari-Taranto in cui Clara, nuda e in stato confusionale, cammina come ipnotizzata prima di essere investita da un camion. Le sequenze iniziali sono anche la parte più riuscita del testo, grazie soprattutto alla capacità dello scrittore di riprodurre un clima mortifero concentrato in una serie di immagini di insetti e animali (e questa è una costante che Lagioia manterrà in tutto il resto del testo):

Gli allocchi tracciavano nell’aria lunghe linee oblique. Planavano fino a sbattere le ali a pochi palmi dal suolo, in modo che gli insetti, spaventati dalla tempesta di arbusti e foglie morte, venissero allo scoperto decretando la propria stessa fine. […] E impalpabile, tutt’intorno, simile a una grande marea sospesa nel vuoto, una flotta di falene si muoveva nella luce polarizzata della volta celeste. […] Avvicinandosi alle luci artificiali, l’inclinazione aurea del loro volo si spezzava. Il movimento diventava un’ossessiva danza circolare che solo la morte poteva interrompere. (pp. 3-4).

Clara, a sua volta quasi animalizzata da alcool e droghe, interrompe l’equilibrio disforico della notte per incontrare una fine tragica, che il romanzo tenterà poi di ricostruire.

Lagioia sembra interessato soprattutto al rapporto fra padri e figli, ma tocca anche molte questioni decisive – l’Italia meridionale, il disastro ecologico, la speculazione edilizia, la crisi economica, afasia e incomunicabilità – , eppure il suo romanzo non conferma la potenza delle immagini iniziali, fino ad appiattirsi su immagini stereotipe e luoghi comuni che ne svuotano il potenziale corrosivo. Clara e Michele, i due veri protagonisti della storia, sono personaggi fragili e introversi, si muovono come in un continuo stato di sospensione e sembrano condividere un codice che li collega nel profondo, aggirando la banalità che li circonda. Come La vita in tempo di pace di Pecoraro, La ferocia si contamina col genere del romanzo storico, concentrando nelle vicende dei suoi personaggi principali due generazioni italiane entro cui si muove una stortura insanabile. Le tangenze di genere, così come le sperimentazioni a livello narrativo (attive soprattutto sul piano temporale e nell’intreccio dei punti di vista), restano però superficiali, perché Lagioia fallisce laddove Pecoraro è riuscito: la ricostruzione disillusa di un universo violento e cinico in cui sono sospesi personaggi che si portano dietro mondi. La ferocia paga dunque il prezzo di un eccessivo ricorso ad un immaginario pop (cinema, fumetti, serie televisive, musica), che invischia la scrittura e si esprime attraverso un tasso di figuralità a tratti stucchevole:

Attraverso la sottile saracinesca delle palpebre, lo schermo si accese all’improvviso. (p. 46)

Era seduta nella sua Audi senza neanche la compagnia di una sigaretta. (p. 50)

Avvolta in una garza trasparente di pensieri mentre montava in macchina. (p. 274. Tutti i corsivi nelle citazioni sono miei)

Sebbene ogni immagine (e di simili sintagmi se ne trovano continuamente) possa essere spiegata come un tentativo di mimesi calibrato su lessico e retorica di soap opera, fotoromanzi e letteratura di serie B, il risultato è discutibile. Allo stesso tempo l’impiego martellante della paratassi (che segue una prima parte del testo più ipotattica), per quanto teso ad accrescere l’ansia che caratterizza la ricerca dell’assassino di Clara, finisce per risultare forzato, comunicando un senso di vuoto:

Si risvegliò alle quattro. Scese a piano terra. Preparò un altro caffè. Telefonò al geometra Ranieri. Il geometra disse che non aveva trovato l’uomo. Erano tre giorni che faceva avanti e indietro per le strade della città. Si era anche appostato davanti al palazzo di via d’Aquino. Ovviamente aveva citofonato. Era andato al circolo ricreativo. (p. 303)

È il rischio di tanta letteratura che si lascia invischiare troppo dai mezzi e contenuti che tenta di criticare. Le buone trovate del testo (una, in particolare, che è la riproduzione frammentaria di blog e post di Facebook, veramente capace di fotografare la violenza da branco e la cosmica stupidità che si scatenano a volte sui social network) si perdono in un sistema vuoto che finisce per specchiarsi nell’immagine impenetrabile della sua autodistruttiva eroina. 

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