L’esule, lo sradicato e il precario della conoscenza. Storia e futuro degli intellettuali
Il punto di vista dell’estraneità
Nel frammento 18 di Minima moralia Adorno parla di tramonto della casa e di fine della intimità nelle abitazioni delle metropoli moderne. «Di fronte a tutto ciò», l’atteggiamento migliore è «di riserva e di sospensione»: anzi «Fa parte della morale – aggiunge Adorno – non sentirsi mai a casa propria». Infatti non è più possibile pensare di tutelare la propria interiorità in un mondo che la soffoca quotidianamente: «Non si dà vera vita nella falsa», è la perentoria conclusione dell’aforisma. L’esilio, insomma, è dunque una condizione di disadattamento che si risolve in una presa di distanza critica. Said, che riflette su Adorno, sul tema dell’esilio e sulla condizione degli intellettuali in due saggi, Reflexions on Exile del 1984 e Representations of the Intellectuel, 1994, osserva che si può parlare di esilio reale, per quegli scrittori che l’hanno conosciuto effettivamente nel corso della loro vicenda biografica (Said fa i nomi di Thomas Mann, Spitzer, Auerbach e, appunto, Adorno) e di esilio metaforico e talora anche metafisico, per quelli che sperimentano una situazione di estraneità pur restando sul territorio della proprio patria senza limiti o costrizioni apparenti. Comunque, sia reale o metaforica, la condizione di esclusione può indurre lo scrittore a rifugiarsi nella scrittura come sua unica patria. Nel frammento 51, sempre in Minima moralia, Adorno osserva che essa può spingere gli autori a cercare abitazione» nella scrittura, vale a dire a tentare di autorealizzarsi unicamente attraverso l’esperienza letteraria o saggistica; ma, aggiunge, si tratta di un’illusione: non può esserci riscatto in una scrittura resecata via da qualsiasi possibilità di «calda atmosfera» e di vita comunitaria, cosicché – è la conclusione – «alla fine allo scrittore non è concesso di abitare nemmeno nello scrivere».
Le considerazioni di Adorno riflettono su una condizione molto diffusa nella cultura e nell’arte del modernismo. Anche per un teorico della letteratura come Bachtin, che scrive negli stesi anni, pensare il mondo come se si fosse esclusi da esso può offrire una prospettiva straordinariamente vantaggiosa dal punto di vista artistico e conoscitivo. Il punto di vista dell’estraneità è ricco di risorse: infatti chi osserva dall’esterno la vita moderna senza cogliere il senso del suo meccanismo, ne sospende i significati correnti. L’artificio dell’incomprensione è insomma una specola critica formidabile, perché – dice Bachtin -«mette le cose in stato d’allegoria»: colte nella loro immediatezza le cose non significano più e bisogna cercarne un senso nascosto che sfugge. Diventando allegorico, il mondo diventa problematico. E qui, ovviamente, la riflessione di Bachtin viene a incontrarsi con quella di un altro maestro del primo Novecento, Benjamin.
Adorno e Said: entrambi hanno conosciuto direttamente, sulla loro pelle, la condizione dell’esilio, fuorusciti tutt’e due negli Stati Uniti, fuggiasco uno dalla Germania di Hitler, l’altro, un palestinese nato in Egitto, dal mondo arabo minacciato da Israele. Uno è di fatto il teorico del modernismo primonovecentesco; mentre l’altro, vissuto nel cuore del secondo Novecento, lo è degli anni del postmoderno. Said, studiando una condizione degli intellettuali molto simile a quella attuale, può dunque aiutarci a comprendere meglio il nostro presente. E infatti egli sviluppa soprattutto due aspetti trascurati sia da Adorno che da Bachtin: secondo lui, la condizione di esilio incoraggia una visione del mondo contrappuntistica e favorisce uno sguardo capace di cogliere la realtà come prodotto storico e relativo, nella sua assoluta contingenza. Fra questi due aspetti Said individua ovviamente una stretta correlazione: quando chiarisce, per esempio, che l’idea di Occidente presuppone quella di Oriente e si sviluppa, per così dire, sul suo rovescio e che l’Occidente ha avuto bisogno dell’Oriente per darsi un’identità, quest’ultima si rivela subito non come un valore eterno, ma come il risultato di un processo storico che presuppone, in ogni momento, il suo contrario. Per Said, a chi vive in esilio, sospeso fra due mondi e fra due culture il relativismo critico è perciò conquista teorica assai naturale.
La mitologia collettiva del patriota in esilio
Nella letteratura italiana il fondatore moderno di una mitologia dell’esilio è Ugo Foscolo: da un lato infatti ne sviluppa, soprattutto in alcuni sonetti (A Zacinto, In morte del fratello Giovanni), l’aspetto esistenziale e, per dir così, ontologico, dall’altro, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, crea il modello e quasi l’archetipo dell’intellettuale risorgimentale. La figura romantico-risorgmentale dell’esule «bello di fama e di sventura» nasce con lui, nella sua capacità di far confluire entrambi questi aspetti nella figura mitologica di Ulisse e del suo «diverso esiglio». Come mostra una recente antologia di Alessandro Viti («Ascoltate degli esuli il canto», Nerosubianco, Cuneo, 2010), sulla base del modello foscoliano (come scrisse allora Carlo Cattaneo, Foscolo avrebbe dato all’Italia «una nuova istituzione: l’esilio») si sviluppa negli anni venti, trenta e quaranta dell’Ottocento una grande narrazione collettiva centrata sul tema dell’esilio dell’intellettuale patriota. E’ soprattutto Berchet che rappresenta questa fase successiva all’esperienza foscoliana: con lui l’esule diventa una figura di primo piano dell’immaginario culturale che sta a fondamento del nostro Risorgimento. Penso a Il romito del Cenisio, a Le fantasie («dove che venga l’Esule/ sempre ha la patria in cor»), a I profughi di Parga. Spesso i titoli stessi sono significativi, anche nella loro monotonia: oltre ai profughi di Parga abbiamo per esempio Il profugo di Arnaldo Fusinato e Il profugo di Francesco Dall’Ongaro, nonché Il fuoruscito di Giovita Scalvini; a L’esilio di Luigi Carrer corrispondono L’esiliato a Parigi di Fusinato, Fuga da Napoli ed esilio a Malta di Gabriele Rossetti e L’esule e Esilio volontario di Tommaseo Si articola così una sorta di schema mitologico costruito non più sulla figura di Ulisse, bensì, ora, su quella di Dante esule da Firenze e peregrino per l’Italia (e anche qui non manca la radice foscoliana del «ghibellin fuggiasco»). Spesso questo schema si articola sull’immagine dell’eroe in fuga dalla patria per ragioni politiche e sul doppio tema della fanciulla amata che lo attende e che diventa un’immagine simbolica dell’Italia e del traditore che rinnega i propri ideali e magari approfitta dell’assenza del patriota per corteggiarla. Se si aggiungono i motivi della madre piangente rimasta in patria, della prospettiva del sepolcro in terra straniera e degli appelli a se stesso per non cedere e resistere il repertorio è pressoché completo. Il poemetto L’esule di Pietro Giannone (1825) è da questo punto di vista esemplare, ma i diversi motivi di questa mitologia collettiva ritornano in una miriade di prove poetiche di quegli anni. Questa stessa gamma di argomenti e di topoi si trova d’altronde anche in vari romanzi, da Dottor Antonio di Giovanni Ruffini a veri e propri capolavori della letteratura romantico-risorgimentale come Fede e bellezza di Tommaseo e Le confessioni di un italiano di Nievo.
Si può quindi concludere che il tema dell’esilio – e dell’esilio reale provocato dalle cospirazioni dei patrioti e dalla repressione degli stati ha un ruolo sicuramente fondativo nella letteratura romantico-risorgimentale fra il 1820 e il 1860.
Lo sradicamento morale e psicologico dello scrittore moderno
Dopo l’Unità d’Italia le cose cambiano rapidamente. In Verga, già a partire da Eva, la condizione di disagio e di disadattamento non è prodotta più dalla repressione poliziesca e dall’esilio all’estero, ma, come afferma l’autore nella prefazione di questo romanzo, dal predominio economico e morale delle banche e delle imprese industriali che distrugge gli entusiasmi giovanili (compresi quelli patriottici) e inducono al cinismo e alla ricerca dei piaceri. Il tema dello sradicamento continua a essere presente, ma le cause diventano soprattutto morali e psicologiche. Quando con Rosso malpelo affiora con forza il tema dell’esclusione, esso si collega certamente al motivo antropologico della “diversità” dei capelli rossi e a quello filosofico e sociale della selezione naturale e della emarginazione del ragazzo orfano in una comunità di minatori. Ma dietro la diversità di Rosso si cela un interesse per il tema e per la situazione della esclusione che accompagna tutta la produzione di Verga (sino agli ultimi romanzi, solo progettati, del ciclo dei Vinti) e che sembra avere ragioni non tanto o non soltanto nello studio oggettivo dei fenomeni, quanto nella storia sociale degli artisti nella società moderna (come ben documentato da Starobinski nel suo Ritratto del’artista da saltimbanco). Ne abbiamo conferma nella conclusione dei Malavoglia, dove il grande tema dell’esilio riaffiora, correlato però al senso di colpa (dunque, di nuovo, a ragioni morali) e alla questione delle radici strappate e perdute. L’esilio di ‘Ntoni, nella pagina finale del romanzo, diventa quello stesso dello scrittore moderno, espulso dal nido protettivo delle origini e costretto a vivere nel mondo perduto della modernità.
Ancora un passo, e un passaggio di generazione, e saremo al rimpianto per un porto sepolto e per un paese innocente nella poesia di Ungaretti. Nella grande letteratura del modernismo (Ungaretti, Montale, Sbarbaro, Pirandello) la perdita delle origini e la condizione di estraneità diventano tema centrale. Da In memoria e Girovago di Ungaretti, che rappresentano la situazione dello straniero e del senza paese (si ricordino i due incipit memorabili: «Si chiamava/ Moamed Sceab// discendente/ di emiri di nomadi/ suicida/ perché non aveva più/ Patria»; «In nessuna/ parte/ di terra/ mi posso/ accasare»), a La farandola dei fanciulli sul greto di Montale, in cui l’ adulto vive come uno strazio il distacco dalle antiche radici, l’esilio si prospetta come dimensione metaforica dell’esistenza umana o almeno di quella dei poeti e degli scrittori. Mentre nella letteratura romantico-risorgimentale la perdita della patria è dovuta a motivi politici e ideali, ora essa è costitutiva della natura umana: ha un fondamento ontologico-esistenziale. Montale parlerà a questo proposito di «una totale disarmonia con la realtà», di «inadattamento», di «un maladjustement psicologico e morale» (vedi Confessioni di scrittori. Interviste con se stessi). E’ la situazione di chi non si sente mai a casa propria di cui aveva parlato Adorno.
Di nuovo si ripropone, come aveva capito Bachtin per il romanzo, la messa del mondo in stato d’allegoria: si legga Taci anima stanca di godere e di soffrire di Sbarbaro: «E gli alberi son alberi, le case/ sono case, le donne/ che passano son donne, e tutto è quello/ che è, soltanto quel che è./ La vicenda di gioia e di dolore/ non ci tocca. Perduta ha la sua voce/ la sirena del mondo, e il mondo è un grande/ deserto».
Pirandello dirà nell’Umorismo che «il meccanismo stride» ogni volta che lo si osservi dall’esterno, senza partecipare al gioco delle convenzioni (delle «forme», dice lui) che lo fondono. E’ il procedimento della sospensione del senso e della funzione della incomprensione evocato da Bachtin ed esemplarmente espresso in questa pagina di Quaderni di Serafino Gubbio operatore:
Guardo per la via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si danno; ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin dei conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo.
L’esilio, condizione materiale dei lavoratori della conoscenza
La condizione metaforica o ontologica d’esilio, quale era stata descritta da Adorno, nel primo Novecento sembrava appartenere solo a pochi scrittori e grandi intellettuali; ma nel corso del secolo, e in particolare nella seconda metà di esso, è diventata invece un concreto carattere fondante dell’intero ceto dei lavoratori della conoscenza. Ha cessato di essere un tema letterario ed è diventata una condizione materiale di vita, così presente che, come l’aria che respiriamo o come la folla di Parigi in Baudelaire secondo Benjamin, non ha più bisogno nemmeno di essere evocata.
Fra anni sessanta e anni novanta del Novecento in Italia la cultura è stata infatti incorporata nel sistema economico e politico delle comunicazioni di massa. Il sapere-potere degli intellettuali come ceto o categoria sociale, filtrato e selezionato da apparati tecnologici e da enormi complessi produttivi e istituzionali, si è liquefatto e frantumato all’interno di queste strutture che tutt’oggi ne decidono o comunque largamente ne condizionano le scelte fondamentali. Inseriti in questi grandi apparati di sapere-potere, che rispondono a pochi centri di comando integrati, nazionali e multinazionali, gli intellettuali non hanno alcuna possibilità di controllo su di essi. Si riducono a semplici lavoratori della conoscenza, costretti a fare i conti con una perenne instabilità, mobilità, flessibilità e dunque a sviluppare una elevata capacità di conversione. La cultura umanistica, sminuzzata e ridotta a insieme di informazioni e di saperi, può ora acquisire persino un nuovo (seppur modesto) valore in quanto componente di una formazione di base variamente interdisciplinare e fungibile, capace di adattarsi a condizioni diverse e di fornire alcuni strumenti interpretativi. La Ict (Information and comunication tecnology) ha bisogno di questo tipo di ingranaggio per funzionare. Ma non si tratta più di una attività di mediazione; a mediare – o meglio a imporre i propri prodotti – ci pensano direttamente, e in proprio, gli apparati tecnologici. I nuovi lavoratori della conoscenza hanno perduto autorità e autonomia; e non hanno neppure più nulla in comune con la tipologia dell’intellettuale tradizionale di cui parlava Gramsci.
In questa situazione il grande corporativismo degli intellettuali, garante dell’universalismo dei valori, non è più proponibile. Nella stessa cultura “alta” la figura dell’intellettuale cara a Bourdieu, quella che interviene nella società grazie all’autorità e al prestigio conferitigli dall’autonomia del proprio campo e dall’indipendenza culturale e morale che essa garantisce, appare sempre più un residuo del passato. I suoi ultimi rappresentati (Pasolini, Fortini, Volponi, Sciascia, Calvino) sono tutti scomparsi nell’ultimo quarto del secolo scorso. Oggi anche la parte “alta” della cultura non controlla più i processi di sapere-potere in cui è inserita e che determinano la formazione dell’opinione pubblica. Gli intellettuali non costituiscono più il cemento ideologico di una comunità. Non hanno autorità e legittimazione, e non possono dunque più né mediare né gestire culturalmente quei processi.
La rappresentazione che ne fa Said è perciò attuale. Secondo Said, il nuovo intellettuale inserito in posizione subordinata all’interno dei grandi complessi produttivi o istituzionali, o costretto ai loro confini, insieme interno ed esterno a essi, da un lato corre il rischio di diventare un mero ingranaggio del sistema comunicativo, un elemento facilmente sostituibile e intercambiabile, dall’altro è costretto a vivere ai margini degli apparati di cui pure fa parte, a configurarsi come un outsider, un dilettante plurifungibile, un emarginato potenziale e spesso effettivo. La condizione di esilio tende sempre di più a marcare la situazione di precarietà e di inappartenenza in cui vivono le nuove generazioni di intellettuali. Ma proprio per questo essi possono ora «trovare la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate» (Said). Se ha perduto ogni mandato sociale e la propria tradizionale centralità, se non può più svolgere la funzione ideologica di mediazione, il nuovo intellettuale può trovare proprio nelle contraddizioni che sperimenta, nella propria stessa marginalità sociale, una condizione rappresentativa delle altre marginalità presenti sulla scena mondiale. Il passaggio da legislatore a interprete può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della conoscenza come specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della traduzione, del dialogo, della pluridisciplinarità, della conoscenza critica della differenza. Traduttori, insegnanti, magistrati, la massa degli addetti al mondo della comunicazione, centinaia di migliaia di neodiplomati e neolaureati stanno diventando figure di soglia. Cominciano a sciogliersi da una situazione di sapere-potere legata esclusivamente alla storia dell’Occidente, al suo “centro” ideale e materiale, ad avvicinarsi alla periferia, a essere periferia. Che un intellettuale delle periferie come era Saviano dieci anni fa abbia scritto Gomorra e che questo libro abbia segnato, qualunque sia il suo valore letterario, una svolta simbolica, non appare insomma casuale.
Se in Calvino di Palomar il senso di estraneazione si era a tal punto normalizzato da diventare immemore, se non di un passato diverso, della propria stessa ragione di essere («Da un po’ di tempo [il signor Palomar] s’è accorto che tra lui e il mondo le cose non vanno più come prima; se prima gli pareva che s’aspettassero qualcosa l’uno dall’altro, lui e il mondo, adesso non ricorda più cosa ci fosse da aspettarsi, in male o in bene, né perché questa attesa lo tenesse n una perpetua agitazione ansiosa»), ora le cose sono cambiate: a partire da Saviano il «bene» e il «male» tornano a essere percepiti come tali e la marginalità si organizza nella forma della denuncia. Potrebbe essere l’apertura di una fase nuova.
NOTA
Questo saggio è stato pubblicato col titolo L’intellettuale in esilio e privo dei titoletti in Tramonto e resistenza della critica, Quodlibet 2013, pp. 39-46.
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Intellettuali perififerici ma organizzati
“Cominciano a sciogliersi da una situazione di sapere-potere legata esclusivamente alla storia dell’Occidente, al suo “centro” ideale e materiale, ad avvicinarsi alla periferia, a essere periferia. Che un intellettuale delle periferie come era Saviano dieci anni fa abbia scritto Gomorra e che questo libro abbia segnato, qualunque sia il suo valore letterario, una svolta simbolica, non appare insomma casuale.” (Luperini)
Non ce l’ho con Saviano. Ma la sua parabola da “intellettuale delle periferie” a intellettuale che chiacchiera delle periferia alla TV ci dice quanto sia arduo il processo di costruzione di una soggettività collettiva gramscianamente (come minimo) organizzata.
Mi permetto di citare da una mia riflessione del dicembre 1999:
Devono moltiplicarsi i luoghi pensati sulla taglia di una intellettualità diventata di massa. Qui questo “cattivo soggetto” potrà farsi le ossa ed evitare gregarismo e scorciatoie.
Quindi: no alle militanze da catechismo, riproposte di continuo da partiti di governo e d’opposizione e a quelle consimili o leggermente più oratoriali (di recente ammucchiatesi attorno alla rivista-movimento Carta). Non per un ingeneroso preconcetto verso certi benintenzionati sforzi, ma per l’evidente prolungarsi in essi di stili élitari e/o populistici, desunti senza un severo filtraggio critico dalle consolidate tradizioni italocomuniste (più statuali) e italocristiane (più sociali).
Ben più in basso e a debita distanza dalle istituzioni storiche (partiti, sindacati, cooperative, ecc.) bisogna gettare alcune fondamenta, su cui in futuro potrà prodursi nuova militanza.
Ci vuole un esodo dalle forme istituzionali consolidate.
Esse, godendo di una discutibile rendita di posizione, continuano a imporre o a proporre surrogati dell’impegno politico esploso alla fine degli anni ’60 e proseguito per tutti gli anni ’70. Riproducono un ceto intellettuale, che non vuole riconoscersi di massa e, ipnotizzato dai poteri corporativi, opera da sonnambulo entro i ghetti mentali e sociali in cui è confinato. Così le sue ambivalenze non appaiono mai come contraddizioni.
La forma provvisoria dei samizdat (dal foglio personale, alla rivista povera, al foglio volante, al sito anticonformista su Internet, alla rivista “carbonara” accolta in qualche piega istituzionale) è quasi d’obbligo oggi per i singoli o gruppi emergenti dall’intellettualità di massa, se non vogliono restare nella nicchia di un privato ampiamente colonizzato o aggregarsi ai potentati che controllano una sfera pubblica devastata.
Anche se è giusto restaurare e non radere al suolo quello che ancora regge (solo però quando regge!), è bene sapere che la rifondazione di vecchie e una volta gloriose istituzioni, che di solito viene preferita alla ricerca scalza o autofinanziata o periferica, confina all’ombra di un paternalismo istituzionale, sempre meno illuminato, esperienze che hanno bisogno di svilupparsi in serie forme cenacolari e diffondersi, appena possibile, nelle praterie, anche selvatiche, delle moltitudini.
Si può e si deve, in queste forme cenacolari e “povere” approntare spazi per un paziente e amoroso lavoro di critica inter nos (non ipocrita, non diplomatico, severo, serio, argomentante, non cannibale/fratricida) per uscire dal guazzabuglio di marxismi residuali, psicoanalismi, ecologismi, estetismi postmoderni in cui di solito ci dibattiamo e avviarci verso un pensiero critico adeguato al paesaggio sconvolto in cui ci siamo venuti a trovare. Tale bonifica va fatta con tutti i sensi attenti all’extra nos.
Saranno elementari spazi di dialogo viso a viso, non virtuali (senza negare il valore della comunicazione virtuale in assoluto). Perciò: singoli o gruppi che s’incontrano, discutono, si scambiano possibilmente scritti privati ma tendenzialmente pubblici, vagliano qualità e contenuto dei medesimi, si ripuliscono dalle inevitabili tensioni, invidie, antipatie e simpatie, attrazioni e repulsioni, pregiudizi, avendo presente che l’obiettivo è di arrivare ai mondi, agli altri di cui si parla (e di misurarsi con i convitati di pietra che ci dominano).
La forma rivista-samizdat, se raccoglie questa elaborazione tendenzialmente cooperante, è strumento insostituibile e non sfigura neppure ai tempi di Internet.
Servono riviste che accolgano singoli e gruppi disposti a mettersi in gioco, a decantarsi davvero da orecchiamenti e abiti culturali troppo effimeri o sgargianti.
Ce ne vogliono che sappiano, al contempo, staccarsi dalle seduzioni della ricerca tutta accademica.
Da esse potrà venire un’immagine positiva e militante dell’intellettuale massa: non succube dei massmedia, né infantilmente onnipotente, non arruffona, in contatto vivo con i bisogni degli altri/ le altre, capace di confrontarsi (senza demonizzarla) con l’intellettualità accademica umanistico-scientifica.
Solo a queste condizioni potrà affiorare un militante, né epigono né avanguardia, né prono alle Corporazioni né tentato dai nichilismi da ghetto; un intellettuale che si ponga a mezzo – spezzandone l’incantesimo – fra il silenzio o la riflessione interiore dell’impolitico e il fracasso e gli spasimi dell’attualità politica.
E allora forse il termine stesso di militante potrà essere indifferentemente sostituito o mantenuto, poiché il contenuto positivo, oggi inabissatosi, avrà raggiunto nuova evidenza.