Quando arriva lui, il capo del partito, la regia è mobile, con tre telecamere sopra l’auto blu, coi vetri fumé, d’ordinanza. Anche se le ultime immagini pubbliche del padrone di Mediaset e del Milan sono state tutte con gli occhiali scuri e in piazza del Popolo, per la verità gremita, c’è un sole alto, Silvio Berlusconi è senza occhiali. Segno che gli occhi guariscono quando si tratta della piazza e si ammalano improvvisamente quando invece si ventila la possibilità dell’aula di tribunale. Questo scriveranno i giornali “comunisti”. D’altronde per lui e per la gente che è in piazza non c’è crisi che tenga, “comunista” è tutto ciò che è nemico. I magistrati sono “comunisti”, la Germania è “comunista”, perfino i banchieri della Banca Centrale Europea sono un po’ “comunisti”. Ma le cose sorprendenti di questo comizio dei liberali di destra (lui li chiama così, anche se tutto sembrano ad una prima occhiata, tranne che liberali di destra) sono, da un lato, l’euforia smodata della gente, dall’altro, la precisione del tutto, dal punto di vista organizzativo.
Il palco, da concerto rock, con impianto di illuminazione e telecamere mobili e fisse ovunque per permettere la diretta sul canale ammiraglio del padrone, Rete Quattro, è brandizzato con una sola parola, semplice, riconoscibile, efficace, “Silvio”. I gazebo ai lati della piazza del Popolo, sia verso piazzale Flamigno, che verso via del Corso (dove sono disposti i maxi schermo) distribuiscono gratuitamente spilline, cappellini, bandiere del Popolo della Libertà, mani in gommapiuma con la scritta, immediata, “Giù le mani da Silvio”, bandiere col tricolore (una coppia di turisti giapponesi si avvicina, forse non capisce, ne prende una e va verso via del Corso contenta). “Silvio” è la parola magica che viene messa in ogni canzone cantata dal cantante di corte, Apicella. Siciliani e napoletani sono in visibilio. Così il Battisti-Mogol di “Tu chiamale se vuoi, emozioni” diventa con furbizia partenopea all’Apicella, “Tu chiamale se vuoi, Berlusconi” e “Balliamo sul mondo” di Ligabue cambia senza colpo ferire, Siae ovviamente evasa, “Balliamo su Silvio”. Dopo un paio d’ore di canzoni napoletane, con musica dal vivo e ritmi latineggianti, ma anche di canzoni popolari e ben note, modificate per compiacere la piazza e il leader di questa piazza, non si capisce più niente. Quello che è certo è che i “comunisti” sono cattivi e le tasse, nel dubbio, è meglio non pagarle. Poi si vedrà. E’ l’Italia dei furbetti e delle scorciatoie, del bunga bunga e delle ragazzine discinte che pur di apparire in tv sono pronte a tutto, anche, soprattutto, a fare un passaggio nel letto di Papi. Così non stupisce nemmeno più di tanto che quando Berlusconi si affaccia sul palcoscenico per il comizio, la maggior parte delle donne che sono nelle prime file urlino “Silvio sono qui, vienimi a prendere” e si slaccino la camicetta o si alzino la maglia. Tutte, nessuna esclusa, all’unisono. Giovani e meno giovani. Popolane e aristocratiche. Tutte ad una sola voce “Silvio, sono qui”. E, no, non sono pagate per farlo. Lo fanno perché Silvio è più che un fenomeno. Segno che nemmeno le proteste delle femministe in questi anni hanno scalfito il mito. Perché Silvio è un mito. La dimostrazione la danno queste donne, che urlano all’unisono la propria accondiscendenza al padrone. E’ una forma moderna di idolatria, che però ha un sapore antico e per questo amaro. Perché se una sola donna avesse dato in escandescenza vedendo apparire Silvio si potrebbe parlare di pazzia, ma essendo praticamente tutte le donne che urlano e gridano, invasate, il nome del capo, viene da chiedersi se non abbiano ragione loro. In fin dei conti perché impegnarsi, studiare, lavorare, quando una strizzata d’occhi dell’uomo che dopo vent’anni di insulti al buon gusto, alle regole e alle istituzioni del Paese, può risolvere non solo la giornata, ma la vita? Silvio può tutto. E se anche non è così, loro lo pensano e lo dicono nel momento stesso nel quale con quel loro “Sono qui, vienimi a prendere” mettono in scena la sua potenza. Come è successo a Ruby, come è successo a Nicole Minetti, riferimenti culturali della gran parte delle donne in piazza.
Silvio d’altra parte si fa precedere dalla sfilata dei “suoi” uomini e delle sue donne, cui nemmeno la parola viene data, perché la manifestazione di Roma (“la prima di una serie di manifestazioni permanenti”, afferma quasi subito Berlusconi) è tutta per lui, perché la magistratura non metta le mani su di lui, perché i privilegi di questi ultimi vent’anni non vengano toccati, perché continui la farsa. E i “suoi” sono gli immancabili Verdini, Lupi, Gasparri, Alemanno (in campagna elettorale), Santanchè, neanche a dirlo, Mussolini, acclamata tanto quanto donna Assunta (Almirante), che arriva a piedi e viene acclamata dal nutrito gruppo monarchico, 18 bandiere con lo scudo sabaudo e uno striscione tre metri per due. La piazza è piena di bandiere, striscioni, gente. Tanta gente. E viene da pensare che perfino a fare le manifestazioni le destre sono più brave della sinistra. Viene da pensare ad “Aprile” di Nanni Moretti a quel suo “D’Alema dì qualcosa di sinistra, D’Alema, almeno sulla giustizia non ti far mettere in mezzo…dì qualcosa di sinistra” e invece, niente da fare. Loro sono più bravi, sono tanti. Almeno duecento mila in piazza, forse perfino duecento cinquanta mila (la questura dirà cento venti mila, ma a questo la sinistra è abituata e sa come vanno le cose). Silvio Berlusconi è così bravo che la prima battuta è “Siamo tantissimi, e questa piazza, che si è sempre chiamata piazza del Popolo, da oggi noi la chiameremo Piazza del Popolo della Libertà”. Berlusconi parla per un’ora e mezza, magari facendosi trascinare dalla gente, tanta gente, dai cori “Silvio, Silvio” e “Chi non salta comunista è” e tutto quello che vien da dire, restando sulla forma, è che se avesse parlato mezz’ora in meno forse sarebbe stato ancora più efficace, ma queste sono quisquilie, il punto è che la gente di “Silvio” non va tanto per il sottile e in fin dei conti non importa tanto quello che dice Berlusconi, anche se dice, eccome. Parla della giustizia, della politica, di Bersani e di Grillo, delle tasse, cavallo di battaglia col quale Berlusconi ha fatto il miracolo, recuperando 14 punti percentuali in poco più di un mese, in una campagna elettorale dove era dato per spacciato e poi promette, nel più classico degli stili della politica padronale, all’incrocio esatto fra il populismo di stampo democristiano e quello del socialismo annacquato del Craxi della Milano da bere. “Se voi siete pronti per tornare a votare, io sono pronto”, acclamazione, idolatria, “Silvio, Silvio”.
La media di età nella piazza è molto alta. Per lo più c’è gente del sud Italia, da Pescara in giù. Ma sono decine anche i pullman partiti all’alba da centro e dal nord Italia. Ci sono tutte le regioni e poi c’è l’Italia del sud, con tutto il suo carico di “volemose bene” e di lamentazione. Sono uomini e donne che forse per snobismo o per cecità la sinistra non ha mai guardato in faccia, nelle mani, ancora sporche di terra e piene di calli. Sono persone che hanno bisogni, magari semplici. Meno tasse, una casa, un lavoro. Ti aspetteresti imprenditori rampanti, magari giovani, evasori fiscali della seconda ora, nati dopo Tangentopoli, o al limite a cavallo fra Bettino e Silvio, persone più affini al miliardario Berlusconi, alla tv commerciale, ai festini a base di escort e lap dance, e invece sono persone semplici, con bisogni semplici. Persone a cui storicamente lo Stato e la sinistra avrebbero dovuto dare ascolto e risposte. E invece lo Stato e la sinistra non le hanno nemmeno mai viste queste persone. Così si sono fatte largo la Mafia e il Popolo della Libertà. Magari fosse vero che si trattava di figuranti, come ha scritto qualcuno, in realtà in piazza del Popolo c’erano persone in carne e ossa che in Silvio, più ancora che in Berlusconi, hanno visto e vedono ancora il riscatto. Basta parlare con qualcuno di loro, osservarne i visi, le mani, gli abiti. Magari non hanno la coscienza sociale che si trova nei lavoratori di alcune regioni d’Italia, penso all’Emilia Romagna, alla Lombardia, al Piemonte, alla Toscana, perfino alle Marche, ma hanno fame e bisogni che nemmeno il Pci ha capito, nemmeno lo Stato, nemmeno la politica, quando ancora esistevano il Pci, lo Stato, la politica. Figuriamoci cosa possono capire la non politica dei non partiti di oggi, la sinistra che scimmiotta un po’ la destra di Berlusconi e un po’ il qualunquismo di Grillo di oggi. No. Solo Silvio capisce questa gente e questa gente capisce Silvio. Folle e da non crederci, ma reale. Questa gente che non esiste in tv, non esiste nei giornali, non esiste nemmeno nei sondaggi, in realtà è quella che vota ancora, dopo vent’anni, l’uomo della provvidenza, che ha capito, solo lui, che non è più tempo nemmeno di vendere il proprio cognome “Berlusconi”, ma è il tempo di usare un brand ancora più efficace “Silvio”. Perché questa gente capisce solo le cose semplici, la tv lacrimosa del pomeriggio delle reti del capo commerciali, l’ingiustizia dell’Imu sulla prima casa, lo strangolamento delle tasse di uno Stato che è lontano anni luce dal proprio sentire. E il proprio sentire è più simile ad una tarantella con strizzata d’occhi alla cantante formosetta e nemmeno bellissima, una di noi, che sculetta vicino al guitto Apicella, è più simile al sogno che propone Silvio, doppio petto di rigore, ma lessico facile, comprensibile e quell’odio per un nemico di cui nemmeno si conoscono i confini, quel generico “comunisti” svuotato di ogni significato reale. Di qualcuno sarà la colpa della crisi, no? Facile, dei “comunisti”. Di qualcuno sarà la colpa per la vita mediocre, fatta di tv e consumi di basso profilo, in fondo? Semplice, dei “comunisti”. Di qualcuno sarà la colpa per l’accanimento della giustizia contro l’uomo della libertà, contro l’uomo della provvidenza? Scontato, dei magistrati “comunisti”. Silvio lo sa e lo dice. Dietro le spalle del padrone sono passate fino ad un istante prima che lui iniziasse il suo monologo le immagini dei successi del capo. Mediaset, il Milan, Milano due, poi la politica e le donne, giovani e belle. Alla gente in piazza del Popolo non importa neppure più essere come lui, importa solo che lui sia come è, che lui esista, per poterlo osannare, “Silvio, Silvio”. E se una sinistra esistesse ancora in questo Paese basterebbe che si togliesse la puzza sotto al naso per mescolarsi un po’ a queste persone, uomini e donne, che credono che la scorciatoia sia meglio della strada principale, che la furbizia sia meglio dell’intelligenza, che partecipare al talent show sia meglio che studiare, lavorare, faticare. Anche se loro magari hanno anche faticato, tutta la vita. L’uomo della provvidenza poi non è solo furbo, c’è qualcosa di più. Dopo vent’anni quando lo vedi lì, tronfio, felice, sorridente, davanti a tutta quella gente, capisci che è abile, certo, ma che c’è anche una dose di spontaneità che in fin dei conti è quella che piace alla gente. Nella seconda fila una signora si sente male e lui, Silvio, urla, si sbraccia, chiama “Il dottore, il mio dottore, un dottore subito, adagiatela con calma… ecco il dottore”. Silvio è un po’ più vero di Berlusconi e alla piazza e al Paese piace ancora, nonostante tutto, a dispetto il tempo passato, a dispetto perfino della crisi che strangola le persone normali. Non è più il buon padre di famiglia sceso in campo per il bene dell’Italia (Forza Italia) del 1994, ha saputo trasformarsi, cambiando con il Paese. E’ un po’ più grasso, un po’ più vecchio, in fin dei conti un po’ più reale. E’ più che un mito d’oggi, è mitologico. Per il fatto stesso di esistere e di sorridere, ancora, nonostante tutto. Fino a quel gesto finale. Prendere Alfano, cui non viene mai data la parola, alzargli la mano verso il cielo e tenerla lì. Come se esistesse davvero un futuro, incarnato dal sempiterno e sorridente Silvio, “Silvio, Silvio”, urla la piazza. {module Articoli correlati}
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