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diretto da Romano Luperini

Storie di famiglie. Su Una famiglia americana di Joyce Carol Oates

Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto. Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato Bene! È quello che si meritano.

(Joyce Carol Oates, Una famiglia americana, Il Saggiatore, 2023, pag.11)

La casa da fiaba

Joyce Carol Oates dà alle stampe We were the Mulvaneys nel 1996, ottimamente tradotto da Vittorio Curtoni e pubblicato in Italia da il Saggiatore nel 2023 col titolo Una famiglia americana. La casa da fiaba è il titolo del capitolo d’esordio con cui Oates presenta i personaggi e il contesto in cui si svolge la loro storia. Un narratore autodiegetico apre il racconto della vicenda della sua famiglia.  Judd il minore dei quattro figli di Corinne e Michael Mulvaney è il narratore della storia: «Io credo nel dire la verità, anche se dolorosa. Soprattutto se dolorosa» (pag.11).

Dall’estate del 1955 alla primavera del 1980, quando mio padre e mia madre furono costretti a vendere la proprietà, i Mulvaney sono stati alla High Point Farm, sulla High Point Road, undici chilometri a nordest della cittadina di Mt. Ephraim nella parte settentrionale dello stato di New York, nella valle di Chautauqua, circa centodieci chilometri a sud del lago Ontario (pag.11)

Una storia d’amore, di fiducia, di certezza che i sogni di felicità siano a portata di tutti, che nonostante le premesse, fin dalle prime pagine, mostra delle crepe, apre degli squarci attraverso i quali si insinua, nella trama di affetti di una solida, tradizionale famiglia americana, un non so che di sinistro, come un mattoncino incastrato nel posto sbagliato che farà crollare l’intera grande casa con dentro i suoi abitanti.

La famiglia è posta come un campione su vetrino, sotto la lente asettica del microscopio di una scrittrice che ha saputo scavare nella mitologia del nido, rivelandone le ombre, i compromessi, le scelte sciagurate che talvolta determinano la fine di un sogno.

Questo romanzo si inserisce di diritto nel solco di una vasta produzione letteraria che negli Usa ha prodotto dei capolavori assoluti: uno tra tutti Pastorale americana di Philip Roth, ormai considerato un classico del Novecento. Il romanzo che ha definitivamente messo alla gogna il sogno americano.

Dunque se c’è uno strumento affilato di analisi e di indagine del reale questo è il romanzo. La vexata quaestio che mette a confronto il primato della verità sulla finzione, in queste pagine di Oates  trova un chiaro sbocco: ciò che si considera opera di fantasia se è vera letteratura, non risente in alcun modo dello statuto di finzione, anzi, è proprio dall’etimologia del verbo fingo in latino che possiamo ricavare la risposta: fingo in quanto creo ex novo, costruisco con l’immaginario una storia e la scrivo per navigare attraverso le acque torbide della realtà  provando a illuminarla raccontandola.

La vicenda dei Mulvaney parte da un evento traumatico: uno stupro subito da Marianne, unica figlia femmina della nidiata, la sera del ballo della scuola.

Nessuno riusciva a dire che cosa fosse successo, nemmeno Marianne Mulvaney, a cui era successo. (pag.36)

Il lungo romanzo  riesce a srotolare, come in un flusso continuo di coscienza, in oltre cinquecento pagine, il lento e inesorabile  processo di distruzione della splendida, numerosa famiglia Mulvaney, dal momento in cui l’evento, del quale nessuno pronuncerà mai neanche il nome, si insinua nel tessuto di legami e affetti che unisce genitori e figli.

Nessuna delle persone coinvolte avrà modo di dimostrarne la veridicità, né di verificare i fatti. Perché non ci sarà mai una denuncia, un’inchiesta, ma al contrario, in quello che via via si configurerà come un dato di verità, la vittima resterà muta, chiusa in un silenzio impenetrabile, per sempre.

Le dissero:Raccontaci.

Lei disse:Solo quello che so.

Le dissero:Raccontaci! In modo che si possa fare giustizia.

Lei disse:Avevo bevuto. È colpa mia. Non ricordo. Come posso testimoniare contro di lui!(pag.163)

Quante volte Marianne Mulvaney avrebbe ripetuto queste parole. Ai genitori, a chiunque la interrogasse. Compresi due uomini della polizia[…]

Aveva letto i Vangeli, pregato. Aperto il cuore a Gesù come mai prima, oh mai!Lui le aveva insegnato la via della contemplazione, della resistenza all’impulso dell’ira, dell’accusa. E, in verità, ubriaca, in preda alla nausea, barcollante, confusa e spaventata com’era quella sera, non riusciva a ricordare esattamente che cosa fosse accaduto tra lei e Zachary Lundt (pag.163)

Corpo

Sigmund Freud dice che il corpo è un oggetto psichico e in quanto tale ci rappresenta, incarna la nostra essenza, la giovane Marianne decide, per proteggere il padre da un’accusa di aggressione, di tacere sul dolore del suo corpo, sulla violenza subita. E il suo silenzio che vuole salvare la figura paterna, finirà col pregiudicare la sopravvivenza dell’intero  nucleo familiare.

Se avesse rifiutato di accusare di violenza sessuale Zachary Lundt, Zachary Lundt e suo padre Morton non avrebbero accusato Michael Mulvaney di aggressione.

Così era e doveva essere.(pag164)

Nel tempo Marianne, pregando incessantemente e convincendosi di aver fatto la scelta giusta, guarisce nel corpo, prova a ricominciare la sua vita di studentessa, ben sapendo di esser rimasta marchiata a fuoco dalle dicerie, guardata con pietà e sospetto dalle amiche di una volta, incapace lei stessa di ripristinare la normale quotidianità. Le amiche la cercano sempre meno, il telefono non squilla più tanto spesso, la voce squillante di sua madre Corinne risuona sempre meno fra le mura della grande casa in campagna e il padre, Michael Mulvaney senjor, il suo amato, spiritoso, possente papà, non riesce più a guardare in faccia la sua adorata bambina.

Segreti

Era invecchiato di un decennio in dieci giorni. Passi pesanti sulle scale, giri l’angolo, ed eccolo lì. Chi? Un orso d’uomo, con le spalle curve, a sfregarsi un occhio con le nocche della mano, ansante come un cavallo sfiatato in cerca d’aria. (pag.168)

La voce di Judd, una volta il piccolo di casa, ora adulto che indaga il declino della sua storia familiare, prosegue attraverso una ricostruzione meticolosa, amorevole, nostalgica e al tempo stesso incredula per la piega che ha preso la vita della sua grande famiglia. Cosa resta dell’infanzia trascorsa fra le mura di High Point Farm? Era tutta una menzogna? Il romanzo è anche una storia di formazione, di scoperta della verità, dei limiti, dei segreti e delle fragilità umane filtrate dallo sguardo di un bambino che non accetta i silenzi ma che a un certo punto comincia a chiedere spiegazioni e risposte alle sue domande.

“Sono uno di voi” dissi, ferito. “Perché non posso sapere?”

Patrick mi scrutò da dietro il sedere tremolante di Prince…Borbottò cupo: “Credo che Marianne abbia avuto qualche guaio ma adesso sta bene”. (pag.180)

Oates mette in scena una storia di dolore dalla quale nessuno in famiglia riuscirà ad emanciparsi, non tanto Marianne, la vera vittima dell’abuso, quanto e molto più di lei suo padre Michael, incapace di far fronte a un evento così grave, di accogliere la figlia, di confortarla e proteggerla,  incapace insomma di chiamare le cose con il loro nome.

Michael Mulvaney Sr prigioniero del suo dolore, che sovrasta quello, l’unico, legittimo di Marianne,  condanna la sua unica figlia femmina all’invisibilità, ignorandola, negandosi al suo sguardo, ai suoi abbracci e al suo affetto. In questo vortice di non detto precipiterà anche la tenera, svagata Corinne, moglie di Michael, madre dei quattro ragazzi Mulvaney, sempre allegra, iperattiva, piena di entusiasmo e devota alla religione della famiglia.

Fede

Il lessico di Una famiglia americana è costellato di giaculatorie, formule di preghiera, citazioni bibliche:«Dio aiutami. Gesù abbi pietà di me» (pag.101), prega Marianne mentre cerca di farsi una ragione dello stupro, del dolore, dell’umiliazione subita. La ragazza trova solo un modo per accettare l’accaduto, attribuirsi la colpa:

Sai che vuoi farlo, Marianne. Perché saresti venuta con me se non avessi voluto? Non ti farò del male, Cristo. Eddai! Nessuno fa giochetti con me”. (pag.102)

La violenza di Zachary Lundt si frammenta in una serie infinita di istantanee che tormentano Marianne fino a lasciarla stordita, confusa e infine decisa a non sporgere denuncia perché si trattava di «una ragazza che non era lei e non era qualcuno che conoscesse lei».

Una pagina dopo l’altra la narrazione si fa puzzle, e il giovane Judd ha il compito ingrato di trovare il disegno finale in una vivisezione del campione famiglia deposto sul vetrino che viene osservato in ogni dettaglio con precisione da entomologo.

 I legami familiari si rivelano quindi ciò che ciascuno, una volta diventato grande, non importa quanto anagraficamente,  oscuramente intuisce: un coacervo di luci e ombre, di misteri, confessioni, calore, protezione e comprensione. Una potente energia che all’improvviso svanisce, spazzata via dall’incursione brutale della vita, del suo fluire cieco e dei suoi orridi inciampi.

L’autrice trova espressioni di autentica pietas nel tracciare il profilo di una vicenda umana i cui caratteri assurgono rapidamente a un livello di universalità, si direbbe quasi mitologico, ciascun membro della famiglia Mulvaney assurge ad archetipo di ruolo incarnando di volta la funzione di figlio, fratello, marito, padre, moglie, madre fino ad esaurirne le possibili versioni nella vita reale e in quella letteraria.

Diaspora

A uno a uno, ce ne andammo.

È la storia delle fattorie americane e delle piccole città nella seconda metà del xx secolo: ce ne andammo(pag.215)

E così a poco a poco i quattro ragazzi Mulvaney lasciano il nido o quello che ne era rimasto.

High Point Farm venne infine venduta, nel febbraio 1980 e i Mulvaney rimasti, Michael, Corinne, Judd, due vecchi cani e tre gatti nervosi si trasferirono in una “casa rurale a livelli sfalsati”, in un campo di granturco fuori Marsena… (pag.396)

Intanto il patriarca Michael sprofondava in un abisso di autodistruzione, riuscendo a mandare in rovina la sua fiorente attività, fino a presentare istanza di fallimento, e a seguire anche il matrimonio con Corinne «cominciò a sgretolarsi, dice Judd, in modi che non conoscevo e non volevo conoscere» (pag.422).

Epilogo

Le famiglie sono così, a volte. Qualcosa va per il verso sbagliato e nessuno sa come rimediare e gli anni passano e…nessuno sa come rimediare. (pag.475)

La tenera ma determinata Corinne, personaggio meravigliosamente tratteggiato, portatore di positività, di buonumore, apparentemente ottuso nel suo ottimismo, diventa protagonista di una svolta intelligente e imprevista, va a vivere con una donna, un’amica, come lei non più giovane, madre di figli sparsi qua e là e reduce dai dolori di uno o più matrimoni andati in pezzi. Le ultime pagine del romanzo si chiudono su una riunione di famiglia dopo molti anni dall’ultima volta che i quattro figli e la madre si erano ritrovati tutti insieme dalla morte di Michael.

Eravamo in ventisette, adulti, bambini, neonati su seggioloni e ginocchia, sotto i castagni dietro la casa di mamma e Sable. …Whit West si alzò e propose un brindisi a Corinne Mulvaney e Sable Mills e a tutti i Mulvaney presenti (ci nominò a uno a uno)… Pensai ma come siamo arrivati a questo? Come ce lo siamo meritato? (pag.494)

Una famiglia americana compie un ampio cerchio di amore, dolore, crescita, coraggio, maturazione personale e collettiva. Il romanzo annota con meticolosa precisione le tappe evolutive dell’organismo famiglia, calato in un contesto tipicamente connotato, quello della provincia agricola americana, delle fattorie dove uno stile di vita semplice, salutare e duro al tempo stesso era il migliore per temprare giovani corpi e menti. Quella provincia americana che intorno agli anni ottanta comincia a perdere alcune delle sue caratteristiche peculiari: il rapporto con la terra, il legame con gli animali, la convivenza pacifica fra uomini, animali e macchine, in una dimensione quasi idilliaca come tanto cinema ci ha insegnato a conoscere, quella provincia che tramonta sotto il peso della crisi economica e di valori che manda in frantumi le comunità rurali trascinando con sé un intero mondo.

Oates dipinge un affresco policromo, scende progressivamente all’interno del microcosmo di High Point Farm e ne fa uno specimen, di qualsiasi famiglia in qualsiasi luogo del pianeta, alle prese con le tempeste e le metamorfosi dei singoli componenti.

Deorum manium iura sancta sunto

Una famiglia americana è un monumento alla religione della famiglia, è la versione novecentesca del larario, l’altare domestico fulcro della casa nell’antica cultura romana. Lì dove si veneravano le imagines maiorum si chiudeva idealmente il cerchio che univa vivi e morti in un vortice di energia amorosa virtualmente inesauribile. Così il giardino della nuova casa di Corinne e Sable, dove sotto i castagni si onora la famiglia in tutte le sue forme, in tutte le sue sfaccettature sostanziate da legami di sangue e non, nutrita e alimentata da legami che tengono viva la speranza e la voglia di andare avanti, nonostante tutto.

I confini sacri del recinto familiare che racchiudono la nascita, l’evoluzione e il disgregarsi della famiglia Mulvaney, tengono unito un nucleo travagliato e umanamente variegato fino a condurlo al dolce epilogo, intriso di speranza, di vitalità e di quella fiducia che nonostante tutto nessuno dei Mulvaney ha mai perso nei confronti della vita.

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