Aut-aut. Orientare o orientarsi?
Sembrava uno scherzo, una diavoleria, un trabocchetto ordito ad arte tanto l’effetto è stato dirompente…
Una mia classe quinta viene coinvolta in una serie di attività di orientamento che prevedono anche la realizzazione di quindici ore in collaborazione con l’Università di Padova: si tratta di uno di quei pacchetti formativi dal titolo sibillino e verso il quale mi ero espressa contrariamente in tutte le sedi possibili. Per una serie di circostanze (fortunate o sfortunate?) accade che mi viene assegnata un’ora di sorveglianza proprio durante uno degli interventi dei docenti dell’Università. Mi dirigo verso l’aula dove due classi quinte stanno svolgendo un incontro della durata di tre ore, apro la porta, faccio un passo per entrare in aula, dirigo lo sguardo verso lo schermo che tutti stanno guardando e cosa leggo?
“E TU CHE LEADER SEI?”
Sullo schermo che occupa tutta la parete di fondo dell’aula campeggia, a caratteri cubitali, questa domanda. Formulata esattamente in questo modo, senza immagini, senza ulteriori elementi.
Rimango bloccata, interdetta. Nel giro di pochi secondi mi guardo alle spalle, guardo attorno a me per capire se qualche studente o un collega burlone avessero organizzato la cosa per prendermi in giro. Capisco che non è così, nessuno sta scherzando.
Allora guardo i miei studenti, cerco il loro sguardo, lo intercetto e non può che succedere l’inevitabile: mi conoscono da tre anni, lo fiutano, lo capiscono che sono allibita, che annaspo e che l’imbarazzo monta. Qualcuno mi sorride, qualcuno scuote la testa, qualcuno ride senza ritegno. Le loro reazioni – fulminee e spontanee – mi consolano, mi fanno capire che non sono sola nel mio imbarazzo, nel disagio e nella rabbia per l’ennesima ora di lezione persa non solo invano, ma – a mio parere – a discapito degli studenti.
Una situazione simile si è ripetuta a distanza di poco tempo (e mi sono chiesta se un genio maligno di cartesiana memoria ci avesse messo lo zampino), ma questa volta, la domanda proiettata sullo schermo – sempre a caratteri cubitali – era questa:
“QUAL È IL TUO SUPERPOTERE?”
Altra pugnalata, altra situazione imbarazzante, altra ora (non importa se di Filosofia, Storia, Scienze motorie, Matematica, Inglese…) di lezione andata. Decido, questa volta, di non limitarmi ad uno scambio di sguardi. Voglio capire che tipo di attività ad alto contenuto orientativo stiano svolgendo e, allora, chiedo al docente universitario se posso osservare gli studenti all’opera.
Mi avvicino quindi ad un gruppo di studentesse (sei o sette ragazze tra i 18 e i 19 anni) e dapprima guardo cosa stanno facendo per poi chiedere che mi spieghino: in cerchio stanno scrivendo, ciascuna su un foglietto che poi si scambieranno, l’ipotetico superpotere della compagna di classe. I passaggi operativi sono questi: la studentessa A scrive sul foglietto il superpotere che immagina caratterizzare la studentessa B, ovviamente la studentessa B fa lo stesso rispetto alla compagna. Nel gruppo si lavora quindi a coppie e si ripete l’esperienza per passare, in seguito, a condividere l’esito dei vari confronti. Quali superpoteri sono emersi? Il superpotere che mi è stato assegnato mi corrisponde? Sono stata in grado di azzeccare il superpotere della mia compagna? Tutti abbiamo almeno un superpotere! E sarà bene individuarlo presto per poter capire come sviluppare i nostri talenti.
Non sto esagerando, ho solo raccontato quanto è accaduto in un paio di occasioni, relativamente ai pacchetti orientativi offerti dall’Università di Padova alle Scuole secondarie di secondo grado.
Ciascuno potrà riflettere sull’accaduto e trarre liberamente le proprie conclusioni.
Da parte mia – proprio nei giorni in cui la mia classe veniva sollecitata a porsi questi interrogativi dal precipuo valore orientativo (“ma tu che leader sei? Qual è il tuo superpotere?”) – avrei dovuto svolgere una serie di lezioni dedicate a Sören Kierkegaard. L’Autore, invece, non è stato trattato e, perciò, non risulterà nella programmazione da portare all’Esame di Stato. In compenso venti ragazzi hanno trascorso qualche ora ad interrogarsi sul modello di leadership a loro più congeniale oppure a focalizzare il superpotere che potrà agevolare il loro ingresso nella società (sì, ingresso nella società perché pare che la vita vera inizi dopo la scuola e fuori dalla scuola).
Nemmeno a pensarci prima, nemmeno a volerlo fare appositamente si sarebbe riusciti a produrre un attrito, una dissonanza così stridenti…
L’orientatore al passo coi tempi che chiede “QUAL È IL TUO SUPERPOTERE?” agli studenti
vs
Il solito docente di Filosofia che si ostina a leggere passi come questo:“Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dare battaglia; forse egli potrà dire, bisogna fare questo o quello; ma se non è un capitano mediocre, nello stesso tempo si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza colla stessa velocità, e che così è solo un istante quello in cui sia indifferente se egli faccia questo o quello. Così anche l’uomo, se dimentica di calcolare questa velocità, alla fine giunge un momento in cui non ha più la libertà della scelta, non perché ha scelto, ma perché non l’ha fatto…perché gli altri hanno scelto per lui, perché ha perso se stesso.”
Così scrive Kierkegaard in Aut-aut a proposito del tema cruciale della scelta, così si esprime tentando di sollecitare nel lettore la consapevolezza dell’importanza della scelta: “La scelta stessa è decisiva per il contenuto della personalità; colla scelta essa sprofonda nella cosa scelta, e quando non sceglie, appassisce in consunzione”.
Ma io e la mia classe non abbiamo potuto leggere e riflettere insieme sui passi che avrei voluto condividere con loro; venti ragazzi che vanno a votare e che, a breve, entreranno nel mondo del lavoro o proseguiranno gli studi non hanno incontrato (e difficilmente gli potrà capitare in seguito) il pensiero di uno dei filosofi che ha maggiormente riflettuto sul tema della scelta e della costruzione del sé, no, quei venti ragazzi si sono scambiati foglietti sui loro superpoteri. Ma a sentire i brontolii di molti colleghi in aula docenti, pare che la mia non sia stata la sola perdita: 30 ore di attività extra-disciplinari che vanno ad aggiungersi ad altri progetti ed attività (viaggi di istruzione, uscite didattiche, percorsi strutturali dedicati alle varie educazioni…) non sono poche e, a fine anno, i percorsi disciplinari – sempre che continuino ad interessarci – ne escono ridimensionati, impoveriti, ammaccati come una lattina a bordo strada. Non si tratta soltanto di una perdita in termini di quantità di ore di lezione, si tratta soprattutto di una discontinuità che mina ogni possibilità di lavoro in profondità.
Certo, oltre ai pacchetti formativi, gli studenti hanno svolto altre attività di orientamento (comprese le esperienze che da anni svolgevano, ben prima che l’Orientamento assurgesse a Questione Fondamentale): open day universitari, presentazione ITS, incontri con ex studenti, incontri con le aziende, uscite didattiche di varia natura, attività pcto riconvertite al bisogno… insomma, di tutto un po’ pur di toccare quota 30 (30 sono le ore di orientamento da rendicontare a fine anno), di tutto pur di non ribadire l’ovvio e cioè che ogni ora di lezione – senza distinzione alcuna tra discipline – ha in sé e per sé valore orientativo.
Affermare il contrario e cioè sostenere che gli studenti abbiano bisogno di figure ed attività ad hoc significa sostenere esplicitamente o implicitamente che si condivide e si pratica una concezione di orientamento che continua ad inquietarmi (mi inquieta dalla prima lettura delle Linee Guida per l’orientamento). Cosa, nello specifico, mi preoccupa? Mi preoccupa la concezione di “orientamento” sulla quale si regge l’intero provvedimento: supporto psicologico? Consulenza familiare? Avviamento professionale? Il tutor è psicologo? Consulente? Operatore nel settore del collocamento professionale? Il tutor è qualcuno che si è formato per svolgere questo mestiere? Sono mansioni che un docente, a scuola, è chiamato a svolgere? Oppure sono, queste, professionalità e mansioni che dovrebbero essere svolte da altri e in contesti diversi? (Per un’analisi critica del tema-orientamento, lucidamente inquadrato nel contesto della Scuola delle competenze, rimando al seguente contributo di Malgioglio-Zammarelli).
E ancora, mi preoccupa che non sia emersa con forza – nei luoghi in cui sarebbe dovuta emergere e cioè Collegio Docenti, Dipartimenti, Consigli di Classe) – l’opzione che soggiace a tutta questa faccenda: orientare oppure orientarsi? L’opzione non è burocratica o amministrativa, è esistenziale. Un corpo inanimato viene orientato (una bussola, la prua di una nave…), ma un ragazzo ha il diritto di sviluppare la capacità di orientarsi da sé. Come potrà farlo se, nel periodo delicato della crescita, avrà sempre adulti che gli ronzano intorno (in buona fede, per carità)? Adulti che lo facilitano, lo supportano, lo sostengono… adulti che riempiono quello spazio vuoto (rischioso quanto prezioso) indispensabile per fiutare la propria strada. Sbagliando, deragliando, perdendo un po’ di tempo si guadagnerà in autonomia, in consapevolezza.
“Eh, mia cara, ma oggi il mondo è cambiato, è complesso e i ragazzi dobbiamo aiutarli…”, mi sembra di sentirlo l’orientatore 4.0 (in effetti l’ho sentito più e più volte). Oggi il cosiddetto mondo al quale si affacciano i miei studenti sarebbe più complesso di quello che un diciottenne affrontava nel settembre del 1943 oppure nel giugno 1973? E perché i miei studenti sarebbero particolarmente bisognosi delle nostre proposte orientative per cavarsela? Certo, forse qualcuno, lungo la strada, potrebbe avere bisogno di un aiuto particolare e sarà importante poterlo assicurare, ma perché offrire a tutti, indiscriminatamente, ogni tipo di supporto anche quando, nella maggioranza dei casi, questo bisogno non c’è? Io sono convinta che i miei studenti abbiano tutte le risorse e le capacità per poter imparare ad orientarsi da sé.
Cinque anni di liceo (uno qualsiasi), cinque anni trascorsi in un istituto tecnico (uno qualsiasi), un ciclo intero di percorso professionale (uno qualsiasi) non bastano? Una decina di adulti (i docenti di un Consiglio di Classe) a disposizione, un coordinatore di classe, un referente per i pcto, i referenti per l’Inclusione, il Bullismo, l’Educazione alla Salute, l’Educazione civica (mi scuso se dimentico qualcosa o qualcuno) davvero non bastano a rendere pregnante e significativa l’esperienza scolastica?
Ma, soprattutto, le discipline che i ragazzi incontrano ogni giorno non bastano?
Io credo di sì. Ritengo che soprattutto le discipline (tutte) siano possibili vie di scoperta e di realizzazione di sé. Attraverso la conoscenza (il concerto delle diverse discipline) la Scuola orienta. I docenti, insegnando la loro disciplina, orientano. Queste persone che hanno vissuto sulla propria pelle il valore della Storia, della Letteratura, dell’Arte, delle Scienze… queste persone possono bastare. Io, e come me non pochi colleghi, ho studiato e mi sono formata – e vorrei continuare a farlo – per conoscere e insegnare la mia disciplina e sono profondamente convinta del valore orientativo intrinseco a tutte le discipline. E se posso ricoprire un ruolo minimamente significativo nel percorso di vita di un ragazzo, posso farlo principalmente attraverso la disciplina che incarno.
L’anno scolastico sta per finire, abbiamo alle spalle l’esperienza di questi mesi, possiamo fare un bilancio in merito ai frutti che queste 30 ore di orientamento hanno prodotto. Che cosa hanno guadagnato gli studenti? Che cosa hanno perso? Un bilancio si deve fare dato che, il prossimo anno, ci ritroveremo ad dover riprendere – volenti o nolenti – la questione.
Noi docenti, oggi, ci troviamo di fronte un dilemma, l’aut-aut spalanca il bivio. O questo o quello: lasciar correre, lasciar andare, continuare così e quindi permettere che la Scuola sia sempre meno scuola, che si imponga una visione di orientamento coerente ai quesiti che mi sono ritrovata davanti (tu che leader sei? Qual è il tuo superpotere?) oppure dire no, rifiutare in ogni occasione e con ogni mezzo possibile questa visione dell’orientamento che svilisce la Scuola, il nostro lavoro, ma, soprattutto, svilisce gli studenti non riconoscendoli come soggetti capaci di orientarsi e capaci di affrontare con le proprie forze un passaggio delicato della loro vita, soggetti capaci di valutare e decidere da sé chi e che cosa possa assumere un valore orientativo.
Ma il bivio non riguarda soltanto i contenuti/le attività che andremo ad inserire nel pacchetto da 30 ore ad alto valore orientativo, il dilemma investe in pieno anche noi docenti, il nostro mestiere, il nostro ruolo, la formazione che ci verrà proposta. Una formazione che si allontana sempre di più dalle discipline (come se non avessimo bisogno di continuare a studiarle per poterle insegnare decentemente!) per avviarsi lungo sentieri a dir poco grotteschi.
Un solo esempio, in chiusura:Gi Group, agenzia per il lavoro. I servizi per le scuole. Di nuovo al bivio: voglio continuare ad essere una docente di Filosofia, Matematica, Storia, Chimica, Tedesco… o diventare Sensei, orientatore nella rivoluzione 4.0?
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Caporedattore
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Apprezzo questo profondo e veritiero articolo, come docente concordo pienamente con il disastro che sta avvenendo nello svilimento delle ore curricolari, un’emorragia volutamente decretata da tutte queste iper attività liquide e insulse . Mi impegno nel mio piccolo a farlo comprendere ai ragazzi e qualcuno positivamente ha sentito l’aut aut , disertando l’ora di orientamento per venire a scuola ad ascoltare la lezione . Tutto ciò però non basta…
Sono un’insegnante di filosofia e non posso che sposare IN TOTO ogni parola e ogni virgola di ciò che scrivi! Grazie del tuo contributo e… ora vado a scoprire quali sono i miei super poteri!!!
Nella scuola in cui insegno, un progetto di orientamento, presentato nel Collegio dei Docenti, titolava tronfio: Orienta Menti….sono rimasta basita, ma ero forse l’unica ad essere stata colpita da tale pericolosa sfrontatezza; intanto, al totem dell’orientamento sono stati sacrificati Saba, Montale e la continuità delle mie lezioni. Mala tempora currunt ac peiora parantur…
Il problema è come far diventare queste osservazioni e considerazioni così diffuse tra noi docenti oggetto di riflessione per chi ci governa. E come fare in modo che anche le famiglie tornino a fidarsi della bontà e solidità di una proposta formativa che a certi occhi sembra ormai sorpassata e antiquata….
Leggendo il suo articolo ho provato l’incoercibile desiderio di abbracciarla! Ho pensato: ma allora non sono rimasta la sola a gridare allo scandalo di una scuola che scientemente dall’alto, dal ns Miur, viene massacrata a colpi d’ascia. E intorno a me vedo colleghi disorientati, stanchi, sfiduciati, ma anche tanti colleghi che accettano, “cavalcano l’onda”, per soldi, per compiacere le pretese del/la proprio/a DS, forse anche qualcuno in buona fede, convinto dell’azione riformista che ogni giorno investe e “asfalta” i nostri studenti. Io, finché ne avrò la forza, continuerò a battermi contro questa vergognosa e disturbante demagogia e so che i miei studenti saranno dalla mia parte.
L’articolo mi lasci perplesso. Non c’è alcun riferimento teorico, pedagogico, didattico sull’orientamento. C’è un problema culturale sotto. Manca una complessità nel ragionamento che è proprio la grande differenza — si veda Morin — tra un diciottenne di oggi e uno del 1943. Un discorso vuoto e ancorato a una scuola del passato. Senza nulla togliere alla validità di Kierkegaard, ma forse da leggere in un’ottica di superamento.
Comunque, ho provato a mettere insieme un po’ di pensieri proprio stimolato da questo contributo. È disponibile qui: https://www.esperienzedidattichedalbasso.com/edb-dallalto-e-dal-basso/vivere-linizio-di-un-inizio-oltre-laut-aut-kierkegaardiano?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR15lSEunkPQ6bX9Aae2LBK4vKLKLccPXBLlJHv6dGonOPrLDrmpHjGk6n8_aem_Adz_eWPlyRBINBczrwosyXRfCYFA_v6yCHmQFhSGobITLBplmZavwCq5ptFbKJXVWxXllQ11KKFiraNejZfSTKTx
Gentile Alessio,
provo a rispondere al suo commento; la fine dell’anno scolastico lascia soltanto qualche rimasuglio di energia e lucidità perciò temo che la risposta sarà breve, incompleta, poco meditata e mi scuso con i lettori del Blog, abituati a ben altro registro e modalità.
Sì, ha ragione, “c’è un problema culturale sotto”: da quando sono uscite le Linee Guida sull’Orientamento, da quando ho iniziato ad ispezionare la sezione di Unica dedicata all’Orientamento, da quando ho esaminato le indicazioni attuative, da quando mi sono confrontata con i miei colleghi tutor, da quando ho tentato di aprire un confronto sul curriculum verticale per l’Orientamento e così via, mi sono espressa quasi come lei (“c’è un problema culturale sotto”). E dopo essermi trovata – con i miei studenti – nelle situazioni descritte nel contributo ospitato qui, la questione si è riproposta con forza: quale cultura può alimentare e legittimare le domande che i miei studenti si sono trovati davanti (domande che dovrebbero orientare ad orientarsi, secondo quanto lei sostiene nel link che ho letto con attenzione)?
Quale Letteratura?
Quale Storia?
Quale Arte?
Quale Scienza?
Quale Logica?
Quale Estetica?
Quale Etica?
Quale Lingua?
Quale dimensione culturale può legittimare domande come “tu che leader sei?” o “qual è il tuo superpotere”?
Davvero lei ritiene che queste domande – proprio queste – possano orientare ad orientarsi? Sono, queste domande (con i relativi esercizi di gruppo), esperienze orientative? Che cosa raccontano queste domande? A quale tipologia di Life Desing si riferiscono? Quale tipo di orientamento narrativo suggeriscono? Mi scuso se sfioro solo superficialmente i passaggi del suo contributo, passaggi sui quali, in un momento meno concitato dell’anno, cercherò di ritornare.
La cultura che soggiace alle domande e alle situazioni che ho richiamato più volte non è la mia cultura; è vero, nel mio contributo non ci sono riferimenti pedagogici: non è un caso, non è negligenza, non è mancanza di ragionamento complesso (almeno, lo spero). Non tutta la pedagogia è un problema per me, ma quella pedagogia che ha alimentato le trasformazioni della Scuola almeno negli ultimi vent’anni per me è un grosso problema, grossissimo: la pedagogia delle competenze, delle educazioni speciali, della personalizzazione, della creazione del setting educativo, del Life Design e via dicendo, questa pedagogia non è quella a cui mi riferisco.
Gert Biesta descrive il lavoro educativo attraverso la triade interruzione-sospensione-sostentamento, descrive l’insegnamento come dissenso e descrive lo Studente come Soggetto che è, e deve rimanere, Soggetto: questo è il mio riferimento pedagogico. Può bastare? E questo riferimento (insieme a tutti i miei riferimenti non pedagogici) mi impedisce di accettare la cultura dalle domande poste dagli orientatori ai miei studenti. Forse mi manca il superpotere adatto per poter intendere e condividere il valore orientativo di tali quesiti?
Cordiali saluti, Alessio, alla prossima.
Sogno il giorno in cui ci organizzeremo per combattere contro questo sempre più inquietante livellamento delle menti di studenti e docenti per soggiacere ad un potere che decide dall’alto. Sogno il giorno in cui faremo le barricate per riprenderci la nostra scuola indipendente e libera, come dice la nostra Costituzione. Ed io sarò lí, in prima fila!
Condivido pienamente. Quando lavoravo nella scuola, sia nella media inferiore che superiore, sono stato responsabile dell’orientamento e come priorità ho avuto sempre quella di leggere e valorizzare le capacità individuali delle/degli studentesse/studenti. Il resto, soprattutto i rapporti con l’esterno, veniva dopo e doveva essere complementare con il lavoro didattico e educativo. Mai imposto dall’esterno, né prevaricarlo!
Alessio Trevisan, nel tuo articolo di critica alle indovinatissme riflessioni di Martina Bastianello vedo poca scuola e molto pedagogese. Sono convinto che per evitare questa confusione del tutto-e-niente la scuola debba fondarsi sempre più su conoscenze disciplinari approfondite e appassionanti su cui studenti e insegnanti possano lavorare insieme e su una seria psicologia dell’età evolutiva, che ponga un limite a chi delira da aspirante demiurgo di “life skills” senza avere nessuna reale preparazione psicologica.
Più in generale, noto che chi tenta di sostenere questa ennesima colata burocratica dell’ “orientamento” – cui corrispondono precisi interessi legati alla “formazione”, con il sostegno, mi pare, di importanti fondazioni bancarie – fa dei discorsi talmente vacui, capaci di mescolare tutto e il contrario di tutto (da un’apparente critica al neoliberismo si passa al presunto mismatching fino all’esaltazione del lifelong learning, della “personalizzazione degli apprendimenti” o dell’ideologia delle “competenze”, che del neoliberismo scolastico sono l’architrave), che il suo scopo, piuttosto che l’orientamento, sembra quello di disorientare e confondere le acque.
Scrivo da Torino, come docente di filosofia e storia. Nel Liceo in cui insegno è successo esattamente ciò che la collega descrive. Deve essere un pacchetto standard, forse in circolazione nelle formazioni aziendali. Se l’autrice mi consente, vorrei leggerne un estratto nel Collegio docenti di settembre quando i consigli di classe saranno chiamati a progettare le future attività di Orientamento. Grazie
Gentile Vincenzo,
lo scopo primario del pezzo era proprio la condivisione di un’esperienza e delle riflessioni che aveva sollecitato. Un pacchetto standard… altro elemento da approfondire.
Certo che autorizzo la lettura del contributo, ci mancherebbe.
Bisognerà riprendere la discussione a settembre, con nuove energie e la lucidità necessaria. Un caro saluto
Scritto lucido e perfetto. Orientarsi è giusto; ma ci vuole un punto fermo per farlo. Qual è quello in questa scuola orientativa? Quello esterno, del mondo così com’è dato o quello interno sorgente dalla dialettica con l’altro da sé (attraverso anche e soprattutto la cultura)? La risposta apre a due vie, ben chiare e distinte a partire da quanto scritto da Martina Bastianello.