Perché leggere Traducendo Brecht di Franco Fortini
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Perché propongo questa poesia? È presto detto. La considero (e non sono certo il solo) una delle più importanti di Franco Fortini, un vero classico del Novecento la cui lettura andrebbe resa necessaria per lo sviluppo del pensiero etico-critico degli adolescenti di oggi (io la renderei obbligatoria: infatti non sono ministro). Molto spesso citata fra gli studiosi di Fortini e della poesia contemporanea, essa resta tuttavia non sufficientemente analizzata, e soprattutto per niente valorizzata nei curricula scolastici e universitari: posso sbagliare, e sarebbe un fatto da augurarsi.[1] La poesia si legge nella sezione omonima, Traducendo Brecht I, che contiene testi del 1959-61, entro la raccolta di svolta di Fortini, Una volta per sempre (1963). In realtà la poesia è molto più ricca e complessa di come la presenterò. Ma preferisco proporne una lettura più lineare e schematica, quasi stilizzata, piuttosto che arricchirne l’’interpretazione con dettagli che potrebbero apparire arzigogoli.
Cominciamo col proporla per esteso:
TRADUCENDO BRECHT
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
La parafrasi è relativamente semplice, l’andamento è pianamente paratattico e discorsivo (ci sono, è vero, alcune cruces interpretative, che possiamo tralasciare). Tuttavia in essa emerge una densità che bisogna attraversare per coglierne il messaggio e il significato. La compattezza della struttura chiusa, sebbene irregolarmente versificata, non nasconde, al suo interno, un movimento di pensiero conflittuale e nervoso che fa trapelare anche una notevole carica emotiva. Due sono le strofe, distinte piuttosto nettamente, e apparentemente divergenti nel tema. Ma alla fine l’insieme si ricompone nell’intreccio dei motivi poetici. Andrò avanti adesso mettendo in evidenza, partendo da brevi enunciati, i nuclei principali del testo, cominciando dalla prima strofa, ma evitando non solo i tecnicismi, ma anche i pur importanti riferimenti intertestuali e discussioni su possibili oscurità di pochi passi:
La violenza della/nella storia: … i tegoli battagliati
La prima strofa si basa sull’alternanza di due motivi, e si conclude con un terzo negli ultimi versi: il primo è descrittivo e si fonda su una «situazione» (come spesso avviene in Fortini): un temporale si addensa a lungo e finalmente si abbatte violento su una città. Frattanto (ed ecco il secondo motivo) in un interno un soggetto, nel quale si riconosce un intellettuale, senz’altro controfigura di Fortini, è impegnato in un complicato e aspro lavoro: tradurre Brecht, da cui ricava più ansia e dubbi che piacere e gratificazione. Dai versi del poeta tedesco emana infatti una forte tensione che si sposta sul suo traduttore. Studentesse e studenti debbono subito essere ricondotti alla dimensione allegorica del componimento, riconducendo la superficie testuale al suo spessore: ossia non al fatto aneddotico che un tale traduca una serie di poesie mentre si prepara e poi si scatena un temporale, ma al fatto che questo dato fattuale (che potrebbe essere anche vero, e certamente possibile) rimanda, proprio attraverso la densità letteraria e dunque attraverso la dimensione dell’immaginario collettivo, sia pure in maniera indiretta, al tema della violenza della storia e a quello della scissione e dell’impotenza dell’io che ne conseguono, alla difficoltà di risolverla in parola e di ricavarne un insegnamento. I versi «di cemento e di vetro», ossia duri e compatti, acuti e taglienti, opachi e trasparenti a un tempo, contengono spezzoni di vita («grida e piaghe murate», insomma l’esistenza annientata, spezzata, ferita ed estraniata) di personaggi e figure nelle quali lo stesso traduttore sembra riconoscersi, facendone parte. Tradurre significa dunque riportare alla luce un opaco orrore, il male che Brecht legge nella storia e nel processo che chiamiamo di civilizzazione (che è anche violenza, oppressione, sfruttamento, separazione di uomini e donne da se stessi e dagli altri e così via), e che «mura» nel cemento della sua poesia.
Da qui la difficoltà del tradurre, che non è solo un esercizio di lingua e stile, ma un interrogarsi sul significato stesso dell’esperienza umana resa estranea a se stessa. Il temporale dell’avvio, dunque, si trasforma da elemento circostanziale (che a questo punto sarebbe superfluo e quasi aneddotico, se preso alla lettera) in allegoria della civiltà, che ha accumulato in sé tensioni e conflitti, concentrato forza e arroganza, e che si abbatte sugli esseri umani (o almeno sulla maggior parte di questi). Anche le metafore dei vv. 4-6 sono così riassorbiti nella dimensione allegorica. E i «tegoli battagliati», ossia colpiti dall’acqua e dalla grandine, raccolgono in sé l’insieme di questa esperienza (qui, come nell’immagine del temporale, sarebbe necessario riandare al ricorrente tópos della tempesta nella poesia, soprattutto nei prossimi Rebora e Montale: ma si tratta di un argomento che farebbe “sforare”, e di molto). Ecco dunque da dove nasce l’oscillare dello sguardo del traduttore, dai tetti alla pagina in corso di traduzione; e anche il passaggio che segue, il più ambiguo del testo, nel quale la parola di un poeta muore o si muta in altra voce. Anche in questo caso, non c’è spazio per le varie discussioni interpretative. Dirò solo che, a mio avviso, Fortini vuole alludere qui al passaggio da un contesto sociale a un altro, dalla guerra e dal totalitarismo nazi-fascista all’oppressione “morbida” della modernizzazione neocapitalistica trionfante, e del conseguente consenso alla nascente società dei consumi. Per questo gli oppressi sono (diaforicamente) «oppressi e tranquilli», mentre gli oppressori «tranquilli» anch’essi, ossia sicuri del loro potere, possono scambiarsi idee e informazioni nei telefoni, ovvero gestire il potere economico e politico: i conflitti e l’odio si smussano, si attenuano in cortesia e formalismo, nel dubbio sulla «colpa».
Il potere produce consenso: …chi con dolcezza guida al niente…
A questa interpretazione mi conduce anche il seguito della poesia, ossia la seconda strofa, più breve, che è dominata da un reiterato imperativo etico («scrivi», ripetuto tre volte; «odia»), indirizzato dal soggetto a se stesso, dallo scrittore al lettore: il nemico è infatti adesso, con chiarezza, «chi con dolcezza guida al niente», ossia all’irrilevanza a al vuoto, uomini e donne, compagni di viaggio della voce che dice “Io”, che «credono di non sapere», ossia fingono di ignorare che la storia è una oscena esibizione del potere e della subordinazione, coatta o volontaria, delle masse che lavorano e subiscono. I potenti, gli oppressori, guidano al niente «con dolcezza», ossia, appunto alimentando sapientemente il consenso. Di fronte a questo spettacolo la voce antagonista e conflittuale del poeta (e del suo traduttore; o forse del traduttore che è a sua volta poeta e intellettuale) non può che manifestare la sua frustrazione, ma anche la sua corresponsabilità: l’uomo è nemico a se stesso, ma deve anche sapere individuare responsabilità e scelte altrui. E tuttavia l’atto dello scrivere (cioè del denunciare, dell’alimentare il colloquio umano), per quanto «poetico», cioè fragile, debole, inconseguente, è necessario e inevitabile: fa parte della scelta etica, che diventa a sua volta la strada maestra per mantenere viva la socialità umana, per impedire che essa sprofondi nel nulla.
Metrica retorica e linguaggio: «scrivi», «odia»: la funzione intellettuale
Non sarebbe possibile concludere senza un accenno, almeno, alla forma di questa poesia, che è, come sempre, sostanza. Se i colleghi che ancora insegnano nelle scuole mi consentono un suggerimento – oltre a quello di fare ogni sforzo per arginare l’invadenza del metodo INVALSI – vorrei proporre proprio questo: ribadire agli alunni sempre che forma, in letteratura, è sostanza. Ebbene la forma di questa poesia è fatta di descrizioni asseverazioni e sentenze, ordinate in una versificazione, come si è visto, compatta e paratattica, che solo qua e là si attorce su se stessa. Fortini dichiara talvolta che, per determinare la forma poetica che via via ha scelto e che lo caratterizza, sono stati essenziali gli anni trascorsi come funzionario della Olivetti, in sostanza gli anni cinquanta, come copywriter e, insomma, addetto alla comunicazione; d’altro canto proprio Brecht è stato un maestro, per lui, di sintassi poetica. E, se proprio vogliamo, si potrebbe giungere e richiamare al giovane lettore l’importanza che ha, per Brecht come per Fortini, il dettato secco e imperativo del linguaggio biblico, fonte formale e stilistica inesauribile per la cultura che chiamiamo “occidentale”. Ebbene, in questa poesia troviamo una “violenza” linguistica non comune. Gli imperativi rivolti a se stesso nella seconda strofe e, ancora, la concatenazione dei versi mediante ripetuti enjambement, ne sono la principale manifestazione. Vorrei soffermarmi proprio su questo: l’enjambement connette, è vero, un verso all’altro, ma compie anche la funzione opposta: sconnettere. Se leggiamo i versi, uno per uno, senza andare a ricercare la prosecuzione in quello successivo, vediamo che ciascuno sta in piedi anche da solo, molto spesso: «Scrivi mi dico, odia», è già autosufficiente, anche senza che si prosegua la lettura dell’enunciato nel verso successivo; «odia» sembra, in questo caso, un duplicato di «scrivi» (un odio anche contro se stesso, vedremo). Scrivere significa, paradossalmente, odiare, ossia mantenere viva una tensione e passione etica e politica. Nonostante che, alla fine, si affermi che «la poesia/non muta nulla», l’enunciato viene subito corretto con il suo opposto: «Nulla è sicuro, ma scrivi». Non è una dichiarazione di difesa della letteratura e dell’attività intellettuale come specialismo e sacerdozio della cultura e dei valori; al contrario, è una assunzione di responsabilità di un individuo nella collettività, anche come intellettuale: una dichiarazione della funzione gregaria, ossia aggregante, della poesia e della cultura.
Sono queste alcune delle ragioni per le quali questa poesia dovrebbe entrare nel canone oltre che nelle antologie letterarie del Novecento (in molte è già entrato, difatti) e soprattutto nell’«oracolo manuale» del giovane di oggi, uno strumento per l’esercizio etico-critico che, come sappiamo, non esiste quasi più. Quando Fortini dice: «fra quelli dei nemici/scrivi anche il tuo nome», dice anche che le verità sono tali solo se passano attraverso la mediazione, che coinvolge il soggetto e la conoscenza delle cose e dei motivi. Essa può essere ricondotta a radici semplici (il riconoscimento dell’oppressione e della conseguente alienazione per tutti) solo dopo un complesso lavoro di elaborazione. Per valorizzare il testo non basta dunque che esso sia disponibile in alcune antologie, occorre anche che i docenti, o la quota di essi che si pone il problema, lo rendano praticabile agli studenti, sciogliendo la sua opacità attraverso la storia e la riflessione.
E il mio pensiero è rivolto, fra studenti e studentesse, soprattutto a coloro, fra questi, che studiano, forse malvolentieri, letteratura negli istituti tecnici e professionali, o anche negli indirizzi tecnologici più avanzati, poiché ad essi sarà per lo più preclusa in futuro la possibilità stessa di riflettere criticamente (o ci penserà la vita): ai destinati naturali, di oggi, ad essere «oppressi e tranquilli»: anche attraverso l’osceno spettacolo mediatico e lo sforzo, di un potere non tanto «ascoso», ma certamente «brutto» (non la natura leopardiana, insomma) di rendere la scuola insignificante, un luogo di test e performance.
[1] Possiamo tuttavia avvalerci di un lungo tratto di un saggio ormai classico (“vecchio”, ma non “datato”, si direbbe) di L. Lenzini, alle pp. 143-52 del suo Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Piero Manni, Lecce 1999. Cfr. anche la sintesi di F. Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini, Quodlibet, Macerata 2017, pp. 189-91.
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Interessante quello che scrivi, ma, al solito, se me lo permetti, penso che la tua parte abbia una impossibilità intrinseca a capire fino in fondo. Quando dici “Scrivere significa, paradossalmente, odiare, ossia mantenere viva una tensione e passione etica e politica” dai la versione reticente dell’ “odio contro se stesso” di cui parli prima, e che io penso di avere colto in un mio vecchio epigramma a lui indirizzato: “Poeta comunista, / contraddizione in termini, da qui / lacerazione perenne”.
Che cosa significa e quale sarebbe la “mia” parte?