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La scrittura e l’apocalisse: Esecuzione dell’ultimo giorno di Lorenzo Chiuchiù

 Poco prima della sua morte, il compositore russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin (1872-1915) tentò l’impossibile e l’impensabile: comporre la colonna musicale in grado di produrre la fine del mondo, un brano capace di essere l’Armageddon e aprire così la strada per un mondo nuovo. L’opera, intitolata Misteryum, rimase incompiuta. Da questa straordinaria esperienza umana Lorenzo Chiuchiù ha preso ispirazione per scandagliare il percorso intrapsichico che può muoversi in una mente come quella di Skrjabin.

Esecuzione dell’ultimo giorno (Aguaplano, 2020) racconta gli ultimi mesi di Semënov, musicista posseduto da «furia e ambizione» che, proprio come Skrjabin, si abbandona alla pulsione irresistibile che conduce non a un fine, ma alla fine: comporre la musica «dell’ultimo giorno», pagando con tutto sé stesso, con il sangue, con la perdita, con la dannazione. In una Perugia visionaria che si sovrappone a Pietroburgo, la vicenda si snoda in un’asse spazio-temporale astratto eppur concretamente contemporaneo, attraversando l’abisso (emotivo e) mentale di Semënov che inizia una catabasi ascetica nella convinzione che soltanto in questo modo potrà giungere realmente alla creazione di una musica che dovrà necessariamente costituirsi ben oltre il concetto estetico di capolavoro. Questo avviene nel testo rinunciando al monologo solitario. È infatti determinante la presenza di personaggi chiave, come l’allievo Novi (succube marginale ma in grado di delineare in poche battute il mandato simbolico di Semënov, la sua clamorosa tensione superomistica) e la famelica Silvia (una Lilith impregnata di dolorosa juissance, alimentatrice a suo modo, finché può, del carburante libidico del protagonista), che garantiscono al procedere della storia la godibilità tipica del romanzo “puro” – mentre intanto l’autore pare agire sottotraccia, congiurando contro l’idea stessa di letteratura, annientando ogni sintagma narratologico, esponendo una scarnificazione orrorifica di un soggetto letterario. E, come ogni orrore, anche quello dei giorni di Semënov è magnetico, proprio per la sua intransigenza e irreversibilità.

Lorenzo Chiuchiù è uno studioso e traduttore in grado di condensare nella sua scrittura tutta la densità letteraria proveniente dalle esperienze di autori come Sartre e Camus. L’eredità di quel Novecento rappresentato da questi autori – che costituiscono le coordinate imprescindibili per calarsi nel magma dell’opera di Chiuchiù – è lucidamente ridimensionata in Esecuzione dell’ultimo giorno, posizionando questo testo all’altezza dei tempi con un’urgenza esatta e ritagliando con decisione un ampio margine di personalità autoriale. Questa è infatti una scrittura al limite e del limite. La trama viene (s)tesa lungo un linguaggio che si fa filo esile tra il margine della poesia e quello della prosa d’arte. Il costante e inesausto emergere nella riflessione – quel rimestare filosofico figlio de La nausea e che connota l’opera non come puramente narrativa – è reso solido dalla lingua con cui il testo parla: quella stessa lingua sprigionata dalle più luminose possibilità poetiche degli ultimi decenni o dalle composizioni ossessivamente inseguite dallo spettro metafisico della perfezione come quelle di Quinzio e Ceronetti, ottenendo una scrittura che è «vibrazione puntuale del dolore», il resoconto allucinato di una «perenne veglia».

La fuga delirante e visionaria del protagonista verso la stesura della grande composizione musicale apocalittica non può non essere scandita da una prosa mobile e frenetica, tanto da apparire quasi dettata o automatica, escludendo l’autore per rilasciare sulla pagina il cuore ancora palpitante di una storia che non c’è mai stata – e che però è entrata negli occhi e nel sangue del lettore, in un libro onirico e piretico ma mai catatonico, in un’opera che si ampia come un’esecuzione che realmente può essere la fine dell’umanità.

Ciò che colpisce di quest’opera non è (soltanto) la lucida ambizione – quella di voler accedere all’inaudito dei desideri artistici tramite i bernhardiani colpi d’ascia del linguaggio – ma la possibilità di produrre un testo in grado di non piegarsi alle abusate espressioni quali «libro necessario» o «storia potente»: Esecuzione dell’ultimo giorno si compone proprio come una partitura febbrile, senza adornare la sua esistenza con un telos, costituendosi come fenomeno artistico a sé stante, amorfo, perché concavo e accogliente ma al contempo convesso e acuminato. La storia di Semënov non assume i contorni elegiaci della parabola, non si fa nemmeno metonimia emotiva diffusa, non consegna al lettore un’umanità da cui apprendere qualcosa: Chiuchiù agisce da poeta sfondando i margini di narrazioni e personaggi, riuscendo a eseguire un racconto senza raccontare proprio come Semënov anela a una musica che abiura sé stessa, che rinnega il suo statuto ontologico.

Tutto questo non determina ostacoli nella fruizione del testo, che procede ipnotico e viene alimentato da continui affondi, quasi un avvicendarsi di frasi-pensieri che non hanno mai il guizzo spesso pericolosamente vicino al kitsch dell’aforisma, ma che invece costringono all’ascolto, lasciando echeggiare le parole nel silenzio geometrico di un libro architettato come una piccola cattedrale: «Nessun mottetto», dice Semënov della sua Esecuzione, che proprio come il romanzo pare anelare al perseguimento degli «assiomi della geometria cartesiana e le regole della retorica classica».

Esecuzione dell’ultimo giorno è dunque un libro che merita di restare: per la sua programmatica peculiarità nel coniugare in un intreccio (fuori da ogni storytelling) forma e contenuto; per l’ordinata consapevolezza stilistica del suo autore; per aver gettato una luce densa e nera sulle possibilità della letteratura contingente – facendo un passo oltre il Novecento, impantanandosi senza timore in un’ipotesi di scrittura avvincente e dolorosa che difficilmente sembrava plausibile in questi anni Venti.

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