Analisi logica insufficiente. Le piccole trappole dell’Invalsi
«A lei non piace la verdura». Analisi logica. «(A) lei» soggetto. Nei compiti di grammatica degli alunni della secondaria di primo grado (forse anche di secondo grado) può capitare di imbattersi in errori come questo, errori che appaiono talvolta vistosi e di fronte ai quali alcuni docenti possono essere colti da vero sconforto. Per arrivare ad analizzare una frase in cui sia presente un complemento di termine, infatti, qualsiasi docente lo avrà certamente trattato, chiarendo anche che le preposizioni introducono esclusivamente i complementi indiretti, mai gli oggetti diretti (salvo il caso in cui si tratti di partitivi e quindi non di preposizioni), figuriamoci un soggetto. Allora perché questi errori? Errori che si presentano in modo diffuso, anche tra gli alunni più validi nelle prove di quella che si chiama (ma che forse non è ancora) riflessione linguistica? Siamo sicuri che gli alunni non abbiano al fondo un po’ di ragione?
L’interessante spunto di riflessione in tal senso lo offre un quesito di un test Invalsi di qualche anno fa, somministrato a una classe terza di livello medio-alto, come prova di simulazione in preparazione al test Invalsi vero e proprio, nella sezione di grammatica. Il quesito era il seguente:
C4. Qual è il soggetto delle frasi che seguono? Scrivilo vicino ad ognuna.
Attenzione: scrivi il soggetto anche quando è sottinteso.
- a) L’hai avuto l’invito?
- b) A lei non piace la verdura
- c) Dove l’avete messa la mia cartella?
- d) Il mio libro l’hai preso tu?
- e) Vi interessa questo spettacolo?
- f) Correvano tutti verso la piazza
Diciassette alunni, sui diciannove che hanno svolto la prova, nella frase b) hanno risposto «(a) lei» soggetto, con o senza preposizioni. Analogo problema per la frase e) dove in sedici su diciannove hanno risposto addirittura «vi», scambiando per soggetto un clitico, quando nella frase b) sull’errore si poteva almeno ipotizzare che avesse influito la presenza del pronome tonico, dato che «lei» è usato anche in funzione di soggetto.
Ora, l’esperienza insegna che quando un errore è così ricorrente è la spia di qualcosa di significativo. Tuttavia, la prima risposta che l’insegnante è portato a darsi è quella di additare sé stesso come responsabile, perché evidentemente i suoi alunni non sanno nemmeno riconoscere il soggetto in una semplice frase. Le cose non stanno proprio così, ma certamente questa è una di quelle circostanze in cui gli insegnanti possono sentire davvero inefficace l’insegnamento della grammatica che spesso lamentano, unitamente all’inadeguatezza dei libri di testo.
Eppure i docenti di lettere costantemente discutono su questioni molto precise connesse alla didattica della lingua italiana. Discutono ad esempio sull’opportunità di iniziare a trattare il verbo prima del nome, o viceversa, sull’opportunità di tenere fuori dalla trattazione della morfologia in prima media un’analisi approfondita dei pronomi, perché presuppongono nozioni che si affrontano nella sintassi della frase semplice, e così via. Si interrogano sull’assurdità di espressioni come «nome comune di cosa», che si tramandano come un mantra di generazione in generazione, arrivando a definire come cosa le cose più improbabili. E ancora: gli insegnanti si confrontano sull’utilità e il senso di affrontare ad esempio lo studio di decine di complementi sciorinati in tabelle sempre più dettagliate la cui conoscenza, però, sembra non aggiungere nulla allo sviluppo delle competenze linguistiche sul piano della comunicazione e dell’espressione, sia scritta sia orale. Si tratta di riflessioni e dubbi preziosi, sia perché nascono dall’esperienza quotidiana degli insegnanti, sia perché toccano nodi cruciali della didattica in generale, e dell’educazione linguistica in particolare, anche dei docenti. Tutti dubbi ai quali la gran parte dei libri di testo non tenta di rispondere, molto spesso nemmeno per responsabilità di chi li scrive. A questi dubbi non rispondono — cosa ben più grave — nemmeno i percorsi di formazione iniziale e quella in servizio, laddove in quest’ultimo caso, tra l’altro, le discipline — e la linguistica dell’italiano è una disciplina — scompaiono del tutto dall’orizzonte dei corsi proposti dalle scuole, tutte centrare sui DSA e sulle competenze astrattamente intese. I pochi tentativi di andare in una direzione diversa, sia per i manuali sia per i corsi, hanno ancora uno spazio del tutto marginale nel primo caso, mentre nel secondo dipendono in definitiva dalla sensibilità di singoli docenti, che magari si attivano per promuovere attività di formazione specifiche.
Per il resto, come accennato, la gran parte delle grammatiche in adozione continua a seguire un criterio classificatorio con finalità descrittive, sia per quanto riguarda la parte di morfologia, sia per la parte di sintassi, proponendo al termine di ogni contenuto affrontato batterie di esercizi, divisi per livelli (base, intermedio, avanzato) eventualmente connessi a diversi livelli di sviluppo di (presunte) competenze, in modo a dir poco arbitrario. Non si percepiscono finalità didattiche nella strutturazione dei testi. Questo assetto, che permane sostanzialmente immutato da decenni, semplicemente finge di recepire elementi di innovazione nella veste grafica e lessicale, ma nella sostanza non raccoglie e non contribuisce minimamente a risolvere le problematicità con cui i docenti si confrontano. Due dati in particolare appaiono rilevanti, per il tema specifico di questo intervento (la sintassi della frase semplice) e per le implicazioni generali che potrebbero avere.
Primo. Si ignora il fatto che nel funzionamento della sintassi intervengono tre ordini diversi di principi, che incidono sulla strutturazione della frase e sui processi di significazione: logico-sintattico, semantico, pragmatico-informativo. Dal momento che questi piani esistono e agiscono contestualmente, non si comprende perché l’analisi linguistica debba ignorare — non già necessariamente come contenuto da affrontare in modo esplicito ma almeno come fondamentale premessa teorica — l’esistenza di un piano semantico e di un piano pragmatico. La pragmatica, ad esempio, è relegata in libricini di appoggio in cui si analizza il processo comunicativo, come se questo fosse qualcosa di staccato dagli enunciati e dai testi attraverso i quali concretamente si realizza la comunicazione tra umani.
Secondo. La presentazione dei contenuti grammaticali nei libri di testo e le modalità di trattazione che questi testi inducono nei docenti non rispondono ad alcun criterio consequenziale. Non si tiene conto di una domanda capitale: l’alunno o lo studente è in grado di processare un determinato contenuto grammaticale in un determinato momento? Ha senso affrontare l’uso del congiuntivo nelle proposizioni dipendenti in prima media, quando si studia il verbo ma non si conoscono ancora le proposizioni dipendenti, da un lato, e dall’altro non affrontare alcuna nozione di sintassi, come se in prima media non si producessero frasi? Si potrebbe continuare con decine di altre domande che gli insegnanti quotidianamente si pongono e alle quali tentano di trovare soluzioni. Eppure, ad esempio, quello della didattica acquisizionale è un campo di ricerca che via via si sta sempre più consolidando autonomamente, a partire dagli studi sull’acquisizione delle lingue seconde, da dove possono venire indicazioni di metodo preziose. Prima tra tutte l’individuazione del criterio della ricorsività che presiede alla strutturazione dei sillabi di italiano L2. Nella didattica delle lingue seconde un contenuto grammaticale non è mai esaurito completamente la prima volta che viene affrontato, ma ci si ritorna via via più volte, tenendo conto in primo luogo delle gerarchie di acquisizione. Se gli studi dimostrano che nell’acquisizione spontanea del verbo italiano gli stranieri, a prescindere dalla L1 di partenza, apprendono prima una determinata forma, non ha senso, né risulta efficace, non rispettare questa gerarchia implicazionale nella didattica. Perché non dovrebbero esistere delle implicazioni anche in L1, anche se magari connesse ad aspetti diversi da quelli che emergono in L2? È lecito chiederselo?
Sorprende, infatti, che in un’epoca all’apparenza così ottimisticamente aperta all’innovazione, che ha così tanto valorizzato il ruolo delle metodologie didattiche e della pedagogia, questi temi cruciali nel campo dell’educazione linguistica (e quelli enunciati sono solo due tra i tanti), come delle altre discipline, vengano di fatto sostanzialmente ignorati nella formazione dei docenti. Al docente così non resta nient’altro da fare che arrangiarsi da solo, mettere le mani in pasta, provare a darsi qualche risposta e tentare qualche strada.
Il primo passo è sempre quello di cercare di capire l’errore. Nel caso specifico segnalato in apertura, ad esempio, la teoria dei casi profondi si può rilevare di una qualche utilità nel fornire la cornice interpretativa di un errore la cui genesi è comunque facilmente intuibile anche empiricamente. E dunque, una possibile spiegazione del perché il complemento di termine in certe sedi venga ricorrentemente scambiato dagli alunni per il soggetto può venire se si guarda alla frase non solamente da un punto di vista logico-sintattico ma anche da una prospettiva semantica, inquadrandola come un evento nel quale individuare appunto i casi profondi, e cioè i significati connessi a ciascun costituente che satura la valenza del verbo. In questa ottica la frase non si presenta solo come una serie di relazioni logiche di superficie, ma come una vera e propria scena, nella quale i costituenti presenti sono implicati a diverso titolo e con un diverso grado di controllo sull’evento stesso. Nella frase citata, dal punto di vista semantico, «a lei» è l’esperiente, il partecipante che si configura come sede di un determinato evento (di solito psicologico), mentre «la verdura» corrisponde al caso oggettivo, cioè è l’oggetto su cui si applica l’evento codificato dal verbo. Pertanto l’errore degli studenti è più che motivato, perché quello che superficialmente si presenta come un complemento di termine (che in più è tematizzato, nella posizione solitamente occupata dal soggetto nelle costruzioni non marcate), sul piano semantico è a tutti gli effetti l’entità animata che ha maggiore controllo sull’evento e che corrisponde inoltre alla tradizionale definizione di soggetto, anche se il soggetto logico nella frase è «la verdura». Secondo la teoria dei casi profondi uno stesso ruolo tematico può essere codificato in superficie da diverse funzioni logiche, cosa di cui in certa misura si tiene conto nell’analisi delle frasi passive, quando in qualche modo si fa notare agli alunni che l’agente viene reso come soggetto nella frase attiva e come complemento di agente nella frase passiva. La scena e la sua interpretazione non cambiano. Cambia però la struttura logico-sintattica di superficie, come anche quella pragmatico-informativa.
Il coinvolgimento degli aspetti semantici (come anche di quelli pragmatici, che però qui non si toccano) nella didattica della lingua italiana, in modi e forme tutte da esplorare, potrebbe avere ricadute estremamente feconde anche nello sviluppo di altre abilità, costringendo gli studenti ad assumere come risolutivo un atteggiamento fondato sull’interpretazione piuttosto che sull’applicazione più o meno meccanicistica delle regole. L’errore da cui è partita questa riflessione, pertanto, andrebbe visto come una spia dell’insufficienza delle categorie comunemente in uso e spingere la ricerca e la sperimentazione didattica in questa direzione. Del resto, come accennato, si tratterebbe di estendere ad altre situazioni considerazioni che emergono nel momento in cui si affronta lo studio del passivo, anche perché completerebbero il discorso sulla valenza verbale, che in alcuni manuali si è comunque iniziato a introdurre anche in modo diffuso. L’analisi dell’errore dimostra anche che i ragazzi sarebbero perfettamente in grado di comprendere una spiegazione che tenga in qualche modo conto di questi aspetti, proprio perché il principio semantico è risultato talmente preminente da portarli a commettere l’errore. Ciò che in ultima analisi appare opaco e in qualche modo anche un po’ inquietante è il senso della presenza di un simile quesito nel test Invalsi. Stando le cose come stanno, che cosa dovrebbe dimostrare, nell’ottica dell’Istituto nazionale, la risposta a una simile domanda? La stessa considerazione vale anche per il fatto che il quesito propone frasi marcate, la cui comprensione e analisi non può essere affrontata senza delle nozioni di pragmatica.
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