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diretto da Romano Luperini

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Note ai margini della comprensione dei testi

 La difficoltà sempre maggiore degli studenti delle superiori di leggere e comprendere i testi è nell’esperienza comune degli insegnanti. Mi riferisco non soltanto alla fruizione della letteratura, che necessiterebbe di un discorso specifico, ma anche alla comprensione di testi comunicativi, di livello medio-alto: anche a causa della velocità di informazioni in cui sono immersi, i giovani, non abituati a leggere i giornali, non sono in grado di compiere una lettura attenta di un testo e sulla base del significato di alcuni vocaboli, pensano di averne colto il senso. Molti sono gli esempi che si potrebbero fare del loro leggiucchiare; a parte quello paradossale di uno studente che, interrogato, cerca di sbirciare i titolini a margine del libro di testo, ne faccio solo un altro di carattere generale. La prova articolo-saggio dell’esame di stato, ora sostituita dalle nuove prove, si è rivelata fallimentare per diversi motivi, ma soprattutto perché gli studenti non comprendevano i diversi (troppi) e complessi brani proposti e non coglievano le differenze (o spesso le sfumature) delle idee che vi erano espresse né le modalità di articolazione del discorso. Si trattava di una richiesta elevata e sicuramente spropositata per il livello degli studenti, che nella maggior parte dei casi hanno perciò utilizzato quei frammenti come spunti o pretesti per scrivere qualcosa su un determinato argomento, infarcendolo soltanto con qualche citazione non sempre pertinente: l’elaborazione di un pensiero proprio a partire dalle tesi e dalle argomentazioni dei documenti, il mettersi cioè in relazione con l’altro, non era possibile sulla base di una loro comprensione parziale o approssimativa. Anche per quanto riguarda la letteratura, la mancanza di rispettosa aderenza a quello che un testo dice ha portato a quella tendenza che Luperini, in un convegno di qualche anno fa, ha stigmatizzato come un quaraquaraqua: una tendenza sempre più diffusa nella comunicazione privata e pubblica dei nostri giorni.

Che cosa ha fatto e che cosa può fare la scuola?

A partire dagli anni ’80 i libri di testo sono corredati da questionari, che nel corso del tempo, pur con alcune variazioni rispetto alla loro modalità, si sono sempre più amplificati per rispondere alla richiesta degli insegnanti, che sembrano averne spasmodicamente bisogno. Se ne può dedurre che li ritengano sempre utili da un punto di vista didattico, nonostante i risultati non corrispondenti alle loro aspettative; sarebbe interessante però sapere quali, quanto, e come vengono usati.

In un’educazione alla lettura le domande dovrebbero avere la funzione di focalizzare l’attenzione degli studenti sugli aspetti significativi del testo e di guidarli alla sua comprensione. Convinta della loro utilità in tale prospettiva, non posso però fare a meno di segnalare alcune aporie e alcuni problemi al riguardo.

Innanzitutto va detto che i questionari sono troppi e troppo vasti: quanti studenti si impegnano a rispondere a un’ampia batteria di domande? E quanto tempo richiede la necessaria correzione-discussione delle loro risposte ?

Per un utilizzo equilibrato inoltre è fondamentale valutare la tipologia delle domande e le modalità con cui sono formulate: queste non dovrebbero essere capziose e inutili, come spesso avviene, ma funzionali alla ricerca del senso, e dovrebbero innescare processi logici invece di richiedere operazioni puramente meccaniche. Tuttavia credo che lo spazio di libertà del lettore non possa prescindere dal rispetto della datità di un testo e che lo studente vada guidato alla comprensione di ciò che viene realmente detto, prima di arrivare all’elaborazione del proprio pensiero o alla propria interpretazione. La doverosa problematizzazione dei contenuti, di cui solo gli insegnanti devono farsi carico e che non può essere demandata a nessun libro di testo, può essere facilitata se basata su domande che richiedano risposte oggettive. Per questo, anche relativamente ai testi letterari, non condivido la posizione di chi crede che le uniche domande da porre siano quelle a cui non si sa dare una risposta. So bene che da più di un secolo la letteratura e la filosofia hanno messo in luce l’inevitabile sovrapposizione tra soggetto e oggetto, ma ritengo che da un punto di vista didattico sia utile una loro netta separazione: le due dimensioni non vanno confuse, ma poste in un confronto dialettico.

Per questo non sono favorevole all’utilizzo spropositato dei questionari a risposta multipla, che si sono diffusi sulla moda anglosassone in modo eccessivo nella pratica didattica anche nella scuola superiore: non permettono l’argomentazione e educano a indovinare la risposta giusta senza nessuna elaborazione del pensiero, innescando fra l’altro nella mentalità degli studenti la convinzione che qualsiasi valutazione sia dovuta al caso. Mi pare assurdo poi che gli insegnanti chiedano alle case editrici di avere per sé le risposte alle domande pensate per i loro alunni!

Ciononostante, e sono consapevole che la mia posizione non è condivisa sia a livello teorico che dalla maggior parte degli insegnanti, non sono contraria alla prova Invalsi per l’ultimo anno delle superiori. Il fatto che fosse inserita nella valutazione dell’esame di stato aveva innanzitutto la funzione di segnale e di messaggio: la comprensione dei testi è importante, i giovani devono imparare a leggere e capire, e la scuola deve lavorare in questa direzione. La delegittimazione in atto rientra nel generale populismo dilagante e pericoloso e, a partire dalla polemica contro ogni misurazione, si oppone a ogni tentativo di condivisione e di uniformità, appoggiando la tendenza all’anarchia: in base alla libertà di insegnamento (che è un’altra cosa), ciascun insegnante può fare ciò che vuole, calandosi soltanto nel particulare della situazione in cui si trova. Anche in questo caso potenziamo le realtà localistiche?

Ciò non significa che della prova Invalsi non si possa discutere o che non ci possa augurare degli aggiustamenti (ad esempio siamo sicuri che non sia falsamente democratica la stessa prova per tutti i tipi di scuola?), ma mi sembra pretestuoso credere che con tale prova l’insegnamento sia orientato soltanto al superamento dei test. La prova Invalsi è una in un anno: se gli studenti saranno educati a comprendere i testi attraverso domande intelligenti, per lo più aperte, ma sempre fondate, e non soltanto chiuse, supereranno facilmente anche i test a risposta multipla dell’Invalsi. E soprattutto avranno imparato a leggere davvero e a comprendere.

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