Giusto terrore di Alessandro Gazoia
Fra le numerose opere che hanno contraddistinto il 2018, una in particolare ha le caratteristiche per entrare in un discorso ampio sull’evoluzione della forma romanzo nella letteratura italiana contemporanea. Si tratta di Giusto terrore. Storie dal nostro tempo conteso di Alessandro Gazoia (ilSaggiatore 2018, pp. 155).
Sul terrorismo italiano degli anni ’70 è uscito un numero di pubblicazioni (saggi, romanzi, articoli, reportage) tale che ci si chiede in quale misura un nuovo testo possa apportare un contributo diverso su questo tema. È senza dubbio con la consapevolezza di non poter scrivere un altro libro sugli anni di piombo che Gazoia adotta una strategia narrativa non inconsueta, ma finora mai applicata al racconto delle fasi e delle figure principali del terrorismo italiano, dissimulando un’analisi di quegli anni all’interno una cornice romanzesca.
Narrato in prima persona, l’opera si muove fra i terreni dell’autofinzione, del reportage narrativo, del saggio storico. Il progetto dell’autore è esplicitato fin dall’incipit: narrare il terrorismo come parte integrante della realtà. Lo sguardo della voce narrante si muove come la telecamera di un documentarista, cogliendo spunti dal paesaggio che scorre dai finestrini di un treno Intercity e da ciò accade all’interno di un suo scompartimento. Dalle immagini il narratore ricava riflessioni sulla storia italiana e mondiale più recente, spostandosi dalla copertina di un libro sul fondamentalismo islamico a una riflessione comparata sui terrorismi e gli estremismi, islamico e italiano.
La vicenda è a malapena accennata. Un treno Intercity è fermo sul binario a Civitavecchia da quaranta minuti, come accade spesso, sotto il sole, senza aria condizionata, senza che nessuno si preoccupi di informare i viaggiatori del motivo né della durata della sosta fuori programma. Il protagonista che è anche il narratore condivide lo scompartimento con una mamma e il suo bambino down (come si parla della disabilità, si chiede Gazoia? Come se ne è parlato a scuola in anni in cui non se ne sapeva nulla?) e con una giovane coppia, salita a Pisa, che discute di attualità e terrorismo. Dallo schermo di un tablet emerge il filmato di un’azione di guerra dello stato islamico, il rogo del pilota giordano, tenuto prigioniero a partire dal dicembre 2014 e poi arso vivo in una gabbia dai terroristi. Il video fu divulgato da Dāʿesh il 3 febbraio 2015, causando sconcerto e terrore in tutto il mondo occidentale. Lo sguardo del protagonista passa poi alla home page di un quotidiano italiano di destra e alla sua narrazione del raccapricciante episodio. I due giovani condividono in rete grafici demistificanti sul pericolo vero e quello avvertito: i social ingigantiscono un pericolo in realtà minimo – quello di morire, da europei, in un attacco terroristico – fino a farlo diventare “una bolla enorme” e trasformarlo nella paura dell’immigrato: tuttavia, un europeo ha più probabilità di morire scivolando nella vasca da bagno, come illustra il grafico a bolle che emerge dallo schermo del tablet dei due millennial. Anche sul treno, bloccato su un binario senza alcuna ragione, potrebbe essere stato intercettato e disinnescato un ordigno. Ecco che affiora un’angoscia che per gli italiani non rappresenta una novità. Riemergono dai recessi della memoria i tempi in cui le stazioni ferroviarie e i treni saltavano per aria davvero, e non certo per mano dei terroristi islamici.
Il sottotesto è quindi chiaro: come si racconta una notizia? Come si narra la realtà? Gazoia in questo suo oggetto narrativo sceglie un protagonista-testimone che racconta il quotidiano attraverso lo strumento dell’autofinzione: un personaggio che dice io allaccia il proprio sguardo all’oggettività dei segni da cui è circondato, incrociandone il significato con la memoria del proprio vissuto. Il segno assume quindi il significato che gli attribuisce la prospettiva del protagonista-narratore e che, pur non nominandosi, in base al criterio di verosimiglianza possiamo immaginare essere l’autore stesso. Non siamo però affatto certi se ciò che racconta della sua vita sia vero, cioè se il racconto sia autobiografico. Siamo quindi nel terreno dell’autofinzione, ed è in questa cornice che ogni segno dà luogo a una interpretazione del presente: lo spiega indicandone l’origine. Un lavoro di ricostruzione certosina del passato, in cui ognuna di queste interpretazioni offre l’occasione per un breve un saggio su un argomento specifico, spaziando dalla storia degli anni di piombo, alla critica cinematografica – mirabile l’analisi in chiave postcolonialista della Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo – alla storia della devastazione del territorio ad opera di amministrazioni corrotte.
Dopo una lunga digressione sugli anni di piombo, Gazoia chiarisce la propria posizione ideologica con il coraggio che manca oggi in tanta narrativa, pur ambiziosa:
“Così mi ritrovavo e mi ritrovo ancora, nel giudicare le vicende della lotta armata, più rigido di moltissimi coetanei, uniti oltre le divergenze politiche in una narrazione del dramma del terrorismo che continua a colpirmi per volgarità. La mia intransigenza è infatti una forma di riconoscimento della radice ideologica di quelle condotte, un rifiuto dell’estorsione sentimentale: la tanta rabbia dentro per le stragi di Stato, il coraggio di andare sino in fondo, la tragedia generazionale fra P38 ed eroina…” (p. 71)
Il quesito – come si racconta una notizia? – era già stato al centro del secondo saggio di Gazoia, Senza filtro, uscito per i tipi di minimum fax nel 2016. In questo saggio profetico, Gazoia esplorava i canali contemporanei dell’informazione, il ruolo dei social network, l’impatto dell’informazione apparentemente senza filtro sulla democrazia e sulla libertà, il ruolo dell’opera gratuita prestata dai volontari compilatori di contenuti online. Traslando quelle premesse in questo oggetto narrativo, Gazoia incorpora in una piccola storia sociale dell’Italia contemporanea anche la questione dell’oggettività del racconto della realtà. Con quale obiettivo?
Quando un intero paese si sforza di dimenticare gli eventi luttuosi che lo hanno colpito e la loro origine, invece di elaborarli attraverso un processo di analisi collettiva e un’assunzione di responsabilità, come è avvenuto in Italia dal dopoguerra a oggi, il passato diventa una mina mai disinnescata e pronta ad esplodere in qualsiasi momento. In questa opera Gazoia compie un’operazione chirurgica, incide il presente e ne estrae gli elementi purulenti, li esamina, li espone. Ci racconta come l’innesto nell’immaginario delle commedie sexy negli anni ’70 riuscirono a sedare le rivendicazioni operaie, che riemergono oggi in forma di rabbia sociale. Inespressa attraverso la protesta collettiva di piazza, essa si riversa sui social e viene pilotata contro bersagli scelti a seconda dell’opportunità politica. Oggi in Italia menzionare la P38 con leggerezza in rete porta a conseguenze serie nella vita privata (come è accaduto di recente a uno studente della Bocconi), mentre l’abuso del simbolo della ghigliottina non produce alcun effetto se quello di anestetizzare la rivolta, perché la ghigliottina appartiene a un percorso storico che l’Italia non ha mai esperito, quello rivoluzionario, mentre la P38 fa parte di una passata stagione di violenza, il cui solo ricordo è una pustola sempre pronta a infiammarsi. Questo ricordo è stato volutamente rimosso attraverso un’operazione culturale di svalutazione degli ideali che ispirarono quella fase storica di disordine sociale. L’ossessione per il decoro urbano è una delle molte manifestazioni che sperimentiamo quotidianamente del disagio causato dalla rimozione del conflitto.
Gazoia ci accompagna in un viaggio nel viaggio, perforando i molti strati di un’immagine apparentemente banale, un treno bloccato in mezzo al nulla senza alcuna spiegazione da parte di chi lo guida. La sua scrittura resistente, l’articolazione di un discorso volto a recuperare istanze annichilite dalla ripetizione di un presente mortifero perché sempre uguale a se stesso, fanno di quest’opera ibrida uno dei migliori esiti letterari dei nostri giorni.
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