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diretto da Romano Luperini

Scuola e Gnac

Antefatto

Mi è capitato di rileggere Marcovaldo, durante l’estate, sollecitata da una domanda di mia figlia: “Ma perché «il Gnac» e non «lo Gnac»?”. Così, di punto in bianco. “Non saprei…”, ho risposto lì per lì. Poi sono corsa di nascosto a rileggere il capitolo (e, da lì, il libro intero) e mi sono convinta. Non poteva essere altrimenti: «il Gnac» non sarà la forma corretta, ma è quella giusta. Giusta per riferirsi adeguatamente al frammento di scritta pubblicitaria che tormenta la famiglia di Marcovaldo, giusta rispetto al gioco linguistico del capitolo e del testo intero.

Sia per chi lo ha letto, ma di tempo ne è passato, sia per chi non lo avesse ancora e disgraziatamente incontrato, inizierò da un breve presentazione del quattordicesimo capitolo di Marcovaldo (Italo Calvino, Marcovaldo, Edizione Einaudi Scuola macchiata e strapazzata, Milano 1998).

In sintesi

Veniamo alla breve presentazione del capitolo Luna e Gnac. La numerosa famiglia di Marcovaldo si è trasferita dal seminterrato alla mansarda condominiale e può finalmente godere di una vista. Ma la gioia dell’ascensione, come tutte le effimere gioie di Marcovaldo, dura poco; la scritta pubblicitaria SPAAK-COGNAC, campeggiando sul tetto del palazzo di fronte, impedisce alla tribù il godimento della vista notturna: “La notte durava venti secondi, e venti secondi il GNAC”. Il GNAC corrisponde alla parte finale della scritta, lo scorcio visibile dalla finestra della mansarda. Solo quattro lettere, ma quattro lettere enormi, luminose, che ogni venti secondi, lampeggiando, spengono il cielo notturno: “La Luna improvvisamente sbiadiva, il cielo diventava uniformemente nero e piatto, le stelle perdevano il brillio, e i gatti e le gatte che da dieci secondi lanciavano gnaulii d’amore muovendosi languidi uno incontro all’altro lungo le grondaie e le cimase, ora, col GNAC, s’acquattavano sulle tegole a pelo ritto, nella fosforescente luce al neon.”

Quando il GNAC si spegne, Isolina, ormai ragazza, si strugge per il chiar di luna; Pietruccio e Michelino si perdono in una foresta pullulante di briganti; Domitilla – come ogni mamma o quasi – si preoccupa per l’aria fredda della notte e per la reputazione di Isolina; Fiordaligi contempla il viso lunare di una ragazza incorniciato dalla volta della “G”. E Marcovaldo? Lui, in quella tempesta di passioni, cerca di insegnare ai figli la posizione degli astri, ma, “ad ogni accendersi del GNAC, gli astri di Marcovaldo andavano a confondersi coi commerci terrestri.”

A questo punto, Michelino, rinvigorito da un “Magari!” del padre, afferra la sua fionda, la carica di ghiaino (a quanto pare bisogna sempre averne una scorta in tasca) e ta ta ta, con una micidiale granaiola, spegne il GNAC. “E ad alzare lo sguardo non più abbarbagliato, s’apriva la prospettiva degli spazi, le costellazioni si dilatavano in profondità, il firmamento ruotava per ogni dove, sfera che contiene tutto e non la contiene nessun limite…”.

Sarebbe bello potersi fermare qui e contemplare i volti sognanti della tribù affacciata  sulla notte, ma così non va.

Il secondo giorno dopo lo spegnimento del GNAC, due elettricisti trafficano sul tetto; il Dottor Godifredo bussa alla porta di Marcovaldo e capita, in rapida successione, il peggio: viene concluso un accordo che sembra favorevole alla famiglia – i figli di Marcovaldo vengono pagati per rompere la scritta luminosa ogniqualvolta verrà riparata – e sfavorevole alla SPAAK che, già in crisi, fallirà a stretto giro. Ci si illude che la notte possa durare più di venti secondi perché, per un po’, la Luna splende gloriosa nel cielo, ma, quando il satellite arriva all’ultimo quarto, accade qualcosa: “a caratteri di fuoco, caratteri alti e spessi il doppio di prima” compare la scritta COGNAC TOMAWAK che lampeggia, per giunta e pure per dispetto, ogni due secondi. Una nuova azienda ha preso il posto della precedente e sembra condannare la tribù di Marcovaldo a restare senza notte.

L’intento

Perché sto proponendo a tutti i docenti di rileggere questo capitolo di Marcovaldo?

Anticipo una risposta sommaria che, poi, cercherò di sviluppare attraverso qualche passaggio.

Il sentimento generale, quello che prova Marcovaldo all’accendersi del GNAC e allo spegnarsi della notte, quel miscuglio di amarezza, nostalgia, smarrimento, frustrazione che si ripresenta ad ogni GNAC mi sembra corrispondere perfettamente al mio (e forse non solo mio) sentire rispetto alla condizione odierna della Scuola.

Si capisce subito, allora, l’ardita modifica del titolo “Luna e Gnac” in “Scuola e Gnac”: come la Luna (protagonista qui e in altri capitoli di Marcovaldo, ma pure in molte altre pagine di Calvino, ché a seguire le sue lune ci si potrebbe perdere), come l’amato satellite viene spento dai neon fosforescenti del GNAC, così – mi pare – la Scuola viene oggi spenta da lumi artificiali che impediscono il godimento del suo splendore, e, per esteso, dello splendore della vita scolastica.

Il paragone si può articolare attraverso alcuni segmenti del capitolo, ma, a guardar bene, si potrebbe anche approfondire nel dettaglio.

La notte accesa, quella che, finalmente, Marcovaldo e i suoi possono contemplare dalla mansarda offre meraviglie di cui ciascuno, a modo suo, gode: la struggente luce lunare, il buio pesto che nasconde i briganti, il volto opalescente di una ragazza (quasi una seconda luna, una sorella minore), i corpi celesti… L’immensa volta notturna offre a ciascuno la possibilità di trovare ciò che cerca e molto di più. Il cielo di una Scuola accesa – potendolo vedere – potrebbe offrire a ciascuno, a docenti e studenti, meraviglie: ci sono astri, galassie, spazi sconfinati che risplendono se solo li si lasciasse essere quel che sono. Le differenti discipline, i relativi contenuti/argomenti di ciascuna, la voce degli Autori, dei Testimoni, ma non solo. Anche le persone che frequentano la Scuola – studenti e insegnanti in primis – sono paragonabili ad astri che potrebbero brillare di luce propria. Se solo non ci fosse quell’inquinamento luminoso che, ben più di un frammento di scritta pubblicitaria, ci impedisce di godere dello spettacolo (sì, proprio uno spettacolo) che la Scuola è in grado di offrire per sé stessa.

La notte spenta dal GNAC impone venti secondi di nero uniforme e piatto. Uniformità e assenza di profondità provocate dalla luce violenta e artificiale del neon. Ecco, oggi (ma è un oggi che si trascina da parecchi anni) la Scuola mi sembra spenta dalla luce violenta e artificiale di innovativi e apparentemente amichevoli neon. Anche noi a Scuola, insomma, abbiamo il nostro GNAC. Non si tratta evidentemente di uno scorcio di scritta pubblicitaria, sono altre le fonti di inquinamento luminoso che spengono la Scuola. Qualcosa di simile al GNAC, però, mi sembra di poterlo immaginare. Come se vedessi lampeggiare davanti ai miei occhi una foresta di tubi fosforescenti: PCTO, PTOF, RAV, UDA, (INV)ALSI, DS, PIA, CDV, CLIL, DAD, DDI, FS, NIV, OSA, TIC, GAV, UNICA… Può bastare?

Luci artificiali che, talvolta, hanno pure un risvolto pubblicitario e che, lampeggiando e imponendosi continuamente, rendono quasi impossibile la visione e il godimento del cielo scolastico, di quanto – almeno secondo chi scrive – dovrebbe brillare in primo piano: i saperi, le persone, la socializzazione della cultura. Astri, galassie che alludono a spazi sconfinati, astri che mi sembrano mortificati, sviliti, spenti quotidianamente da quel GNAC cifra di tutti gli orpelli, di tutti i distrattori, di tutta la retorica buropedadidattichese che ha preteso e pretende di ridurre la vita scolastica ad una manciata di competenze spendibili chissà dove, chissà quando e chissà come.

La fionda di Michelino. Che senso di gratitudine! Michelino che sfila la fionda, arraffa il ghiaino e spegne il GNAC. A Marcovaldo il figliolo non concede nemmeno il tempo per tentare di fermarlo. Ta Ta Ta! Conosco docenti che assomigliano a Michelino. Non sono tanti; girano con fionda e sassolini in tasca e, al momento buono, ci provano. In un Consiglio di Classe, durante un Collegio Docenti, in corridoio, ma, soprattutto, in classe. Intravvedono e riconoscono la luce fredda dei neon, ormai sono esperti; quando il GNAC sta per accendersi, agguantano rapidi il ghiaino, tendono l’elastico e zac. Cercano, come possono, di spegnere il GNAC, di accendere la notte, di far intravvedere agli studenti, almeno per pochi minuti, cosa c’è dietro al lampeggiare snervante delle nostre scritte pubblicitarie: quali astri, quali galassie, quali spazi sconfinati si nascondono dietro l’abbaglio. Qualche volta ci scappa un “Oh!”, una bocca spalancata, uno sguardo acceso. Allora il docente-Michelino torna a casa un po’ più leggero, sorride, respira meglio.

COGNAC TOMAWAK. I nostri, ahimè, non sono tempi da GNAC, bensì da COGNAC TOMAWAK. A scuola non subiamo più, docenti e studenti, solo e soltanto l’abbaglio di mezza scritta pubblicitaria. La faccenda si è fatta seria, il ghiaino in tasca sembra non bastare più. I tubi al neon si sono allungati, gli intervalli di tempo tra un abbaglio e l’altro si sono accorciati così tanto da farci sentire perennemente immersi in una luminosità che impedisce anche ai più ostinati di vedere oltre. Ci sentiamo come Fiordaligi: “l’abbaino della ragazza lunare era sparito dietro ad un’enorme, impenetrabile vu doppia.” E se la SPAAK e la TOMAWAK erano realtà altre, esterne e lontane dal tepore della mansarda di Marcovaldo, noi i tubi al neon ce li fabbrichiamo da soli; ci pensiamo da soli, a Scuola, ad accendere il GNAC.

L’uniformità e l’assenza di profondità sembrano essere le caratteristiche principali della Scuola spenta. Non c’è fionda che tenga: se gli astri di Marcovaldo si confondevano con i commerci terrestri, a noi pare non sia rimasta nemmeno la possibilità di confonderci.

L’aria buona

L’aria buona è il titolo, questa volta non modificato, del nono capitolo di Marcovaldo.

Dal primo all’ultimo, i capitoli di questo libro raccontano un Marcovaldo le cui avventure si concludono con uno scacco; il movimento tipico di ogni capitolo è questo: esordio dell’avventura e presentazione del tema, sviluppo in crescendo con breve e illusoria parentesi di felicità/riuscita, chiusura spesso amara, sempre spiazzante (vedi sopra).

Ma alla fine di ogni capitolo segue l’inizio di quello successivo (sai che scoperta): un Marcovaldo che riprende, con lo stesso spirito, il suo peregrinare attraverso la città, il suo lavoro alla Sbav, la sua routine familiare. Come nei cartoni animati, nel passaggio da una puntata all’altra: il protagonista viene investito da un treno, precipita da un burrone, sprofonda negli abissi e poi, come niente fosse, nella puntata successiva, lo ritroviamo nel bel mezzo di una nuova avventura. Ecco, Marcovaldo possiamo vederlo intossicato dai funghi, possiamo lasciarlo sulla branda d’ospedale, ricoperto dalle punture di vespa, incontrarlo mentre fa legna sul bordo dell’autostrada oppure lanciato in aeroplano verso  Bombay, ma, poi, lo ritroviamo sempre, ancora e ancora, attento scrutatore della sua città e del suo tempo. Lo ritroviamo anche al nono capitolo, mentre tenta, impresa faticosissima, di portare i suoi figli malaticci a respirare aria buona, almeno per qualche ora, sapendo che, poi, si dovrà tornare giù.

Marcovaldo che sale in collina, che porta in spalla o trascina i figli verso l’alto, per fargli respirare aria pulita, buona, questo Marcovaldo che lotta contro la gravità, la pendenza, la fatica, i capricci dei bambini mi ricorda tutti quei colleghi che, pur sapendo che si dovrà tornare giù, ci provano lo stesso a salire in alto, a spegnere il GNAC.

A Filippetto, a Pietruccio, a Teresa e Michelino (che va avanti da solo, prendendo a calci i sassi) Marcovaldo non risponde. Ai figli che chiedono se potranno tornare in collina, se potranno stabilirsi in un posto migliore, il padre non risponde.

Ogni insegnante può interpretare a modo suo il silenzio di Marcovaldo e la pagina bianca con cui si chiudono le avventure del protagonista, avventure in cui non trovano spazio né un superficiale ottimismo, ma neppure una sconsolata rassegnazione.

“Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò l’orecchio con una zampa, e scappò saltando.

È qua? È là? No, è un po’ più in là?

Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.”

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